Ricordate quando Chuck D dei Public Enemy ha definito l’hip hop «la CNN dei neri»? Stava esprimendo una verità che trascende i generi: musica e protesta sono sempre stati legati strettamente giacché creare musica è per chi sta ai margini un modo per denunciare le ingiustizie. Qui sotto trovate una selezione delle migliori canzoni di protesta. Alcune denunciano l’oppressione, altre sono grida di giustizia, altre ancora preghiere affinché arrivi un cambiamento. Alcune scuotono e sono viscerali, altre sono più intime e hanno a che fare col cambiamento che parte da noi stessi. Alcune appartengono a tradizioni di sinistra, altre sono canzoni pop. Tutte rappresentano il desiderio di vivere in un mondo migliore.
Sunday Bloody Sunday
U2
1983Il pezzo prende il titolo da un avvenimento cruciale sanguinoso avvenuto nel 1972 in Irlanda del Nord, ma gli U2 evitano di citare fatti specifici, arrivando a cestinare una prima stesura che vi alludeva troppo palesemente. Hanno invece optato per una inno universale e non divisivo sulla guerra che incombe su tutti noi. Sunday Bloody Sunday è un appello alla pace non schierato politicamente (“Per quanto tempo dobbiamo cantare questa canzone?”) e forse per questo è divenuta una delle dichiarazioni più emblematiche dell’era della videomusica. La band ha in qualche modo preso l’eredità dei Clash quando MTV ha cominciato a passare il video live, con la cadenza militaresca del rullante di Larry Mullen Jr, la marcia di Bono che sventola la bandiera bianca e il pubblico di Denver che urla«No more!».
Feels Blind
Bikini Kill
1992Negli anni ’90 le riot grrrls Bikini Kill hanno gettato le basi per il punk femminista coniando lo slogan “Revolution Girl Style Now!”. Originarie di Olympia, Washington, sono guidate da Kathleen Hanna ed esprimono una forma quasi primordiale di aggressività. Come ha detto la batterista Tobi Vail, «mai sottovalutare dei giovani cuori in fiamme». Feels Blind era un esorcismo rock sul tema del crescere donna circondata dalla misoginia. “Potremmo anche nutrirci del vostro odio come fosse amore”, ringhia Hanna. “Come ci si sente? Ciechi”. Carrie Brownstein delle Sleater-Kinney ha spiegato che «riassumeva perfettamente cosa significava essere una ragazza. Per la prima volta qualcuno ha messo nero su bianco il mio senso di alienazione».
41 Shots (American Skin)
Bruce Springsteen
2001L’omicidio avvenuto nel febbraio 1999 di Amadou Diallou, un tassista nero ucciso nel Bronx da alcuni poliziotti in borghese che gli hanno sparato 41 volte, sostenendo di aver scambiato per un’arma il portafoglio che aveva in mano, era scandalosamente ingiusto. Lo capiva chiunque avesse un briciolo di anima poteva capirlo, ma non le forze di polizia che hanno definito Bruce Springsteen «un sacco di merda» e hanno chiesto di boicottare i suoi concerti dopo che aveva presentato questa ballad struggente nel tour di reunion della E Street Band, nel 2000. “Non è un segreto / Puoi finire ammazzato solamente per la tua pelle americana”, cantava Springsteen in quelle sere. Nel 2010 ha ripreso la canzone in memoria di Trayvon Martin, quando il resto dell’America bianca iniziava ad aprire gli occhi e capire che black lives matter.
God Save the Queen
Sex Pistols
1977I Sex Pistols hanno messo in discussione la monarchia britannica usando l’arte della provocazione. La campagna promozionale di God Save the Queen è stata un capolavoro, da questo punto di vista: giocare con l’inno nazionale britannico, deturpare il volto della regina Elisabetta II sulla copertina del singolo, suonare il pezzo sul Tamigi durante il suo Giubileo d’argento, urlare “Il sogno inglese non ha futuro” su una musica che sembrava un 45 giri di Chuck Berry investito da un autobus a due piani. La band dice che non è stata fatta per scioccare («Non scrivi God Save the Queen perché odi gli inglesi», ha detto Johnny Rotten, «lo fai perché li ami e sei stufo di vederli maltrattati»), ma comunque la vediate, è un classico.
The Lonesome Death of Hattie Carroll
Bob Dylan
1964Hattie Carroll stava lavorando come cameriera a una cena di gala a Baltimora quando William Devereux Zantzinger, un bianco facoltoso e proprietario di una piantagione di tabacco, l’ha ammazzata a bastonate. Era il 1963. Il caso ha spinto Dylan a scrivere questa canzone piena di rabbia e dolore. In quattro versi precisi, l’autore celebra la cinquantunenne Carroll (“Che portava i piatti e metteva fuori la spazzatura, e che mai una volta si era seduta a capotavola”) e condanna il suo assassino molto ben ammanicato e il sistema giudiziario che gli ha permesso di cavarsela con una condanna ad appena sei mesi. Dopo decenni, in un’America che ancora si ostina a non riconoscere il valore delle vite delle donne di colore, questa canzone continua a risuonare con chiarezza sconcertante.
American Idiot
Green Day
2004In American Idiot, title track dell’album dei Green Day del 2004, Billie Joe Armstrong ha espresso rabbia e disgusto per lo stato della politica americana ai tempi della presidenza di George W. Bush, con una condanna vibrante dello sciovinismo insensato e dello spirito guerrafondaio. Quella che Armstrong ha definito uno sfogo è diventato il più grande atto d’accusa rock’n’roll a Bush. Due decenni dopo, i Green Day hanno dimostrato quanto la canzone sia attuale: suonando American Idiot dal vivo al Dick Clark’s New Year’s Rockin’ Eve With Ryan Seacrest, Armstrong ha cambiato il verso “I’m not a part of a redneck agenda” in “I’m not part of the MAGA agenda”.
War
Edwin Starr
1970Quando si tratta di grandi canzoni di protesta, usare mezze misure non serve quasi mai. Ce lo dimostrano gli autori Motown Norman Whitfield e Barrett Strong con la canzone War: “A cosa serve? Assolutamente a nulla!”. L’originale dei Temptations è più funk e non è affatto male, ma ci sono voluti i fiati tosti di Strong (è forse la hit Motown più rock mai pubblicata) e l’interpretazione enfatica di Starr, cantante dotatissimo (“Huh!”), per portarla al successo. La canzone è arrivata al numero uno durante la guerra in Vietnam, con le radio di tutti gli Stati Uniti che trasmettevano a tutto volume versi come “Arruolamento / Distruzione / Chi vuole morire”, ed è rientrata in Top 10 nel 1986, quando Bruce Springsteen ha pubblicato come singolo la sua cover dal vivo.
Oh Bondage, Up Yours!
X-Ray Spex
1977Con una voce tipo allarme antiaereo e un look da guerriera fluorescente, Poly Styrene degli X-Ray Spex ha lanciato l’urlo femminista più audace dell’epoca d’oro del punk-rock, ficcando una spilla da balia nell’occhio del patriarcato. Oh Bondage, Up Yours!, che inizia con il verso beffardo “alcuni pensano che le bambine siano da guardare e non da ascoltare”, è un grido di liberazione dalle catene dell’oppressione maschile e della società dei consumi. Insieme al sax della teenager compare di band Lora Logic, Styrene ha gettato le basi per il movimento riot grrrl e non solo. Kathleen Hanna ha ascoltato la band nel 1989 e, un anno dopo, ha formato le Bikini Kill. «Erano un connubio perfetto di emozioni e tecnica», ha detto Hanna. «Sembravano meglio dei Sex Pistols».
Alright
Kendrick Lamar
2015Il singolo prodotto da Pharrell, tratto dal capolavoro jazz rap di Lamar To Pimp a Butterfly, è diventato uno standard moderno in tema di diritti civili quando il ritornello “We gon’ be alright” ha iniziato a fare capolino nelle manifestazioni per i diritti delle persone di colore, arrivando ad essere paragonato a We Shall Overcome. Lamar ha raccontato che, quando ha ascoltato la base di Pharrell che è poi diventata Alright, ha faticato a trovare un messaggio adatto alla musica. «Alla fine ho trovato le parole giuste. C’era molto da fare e ancora oggi c’è molto. Volevo affrontare il tema in modo edificante, ma aggressivo. Non volevo ci fosse vittimismo, volevo dire “noi siamo forti”».
Killing in the Name
Rage Against the Machine
1992Se c’è stato qualcosa di buono nell’ondata rap-rock degli anni ’90, in gran parte è arrivato dai Rage Against the Machine. In Killing in the Name, Zack de la Rocha si scaglia contro il razzismo della polizia (“Alcuni di quelli che lavorano nelle forze dell’ordine sono gli stessi che bruciano le croci”), prima di arrivare al coro intramontabile “Fuck you, I won’t do what you tell me”. Come ha detto Tom Morello, «per me, è un riferimento a Frederick Douglass. Lui ha detto che l’istante in cui è diventato libero non è stato quello in cui è stato sciolto dalle catene, ma quello in cui il padrone ha detto “sì” e lui ha risposto “no”. E questa è l’essenza di “Fuck you, I won’t do what you tell me”».
I Ain’t Marching Anymore
Phil Ochs
1965Phil Ochs è stato la coscienza della scena folk degli anni ’60 e ha continuato a denunciare l’establishment politico molto tempo dopo che i colleghi avevano perso interesse nelle canzoni impegnate. Questo attacco contro la guerra, nel quale il cantante calcola il numero delle vittime militari americane dal 1812 in poi, è un bell’esempio del suo modo tagliente di dire la verità: “Sono sempre i vecchi a trascinarci in guerra e sono sempre i giovani a cadere / Ora guarda tutto quello che abbiamo conquistato con la spada e la pistola / E dimmi: ne è valsa la pena?”. Col crescere delle proteste contro la guerra in Vietnam, la canzone è diventata un classico della controcultura, con un ruolo d’importanza primaria durante le proteste della Convention Democratica del 1968 e il processo che è seguito.
Give Peace a Chance
John Lennon/Plastic Ono Band
1969John Lennon e Yoko Ono hanno registrato questo classico della controcultura durante il secondo bed-in per la pace, nel 1969. Chiusi nella stanza 1742 del Queen Elizabeth Hotel di Montreal, i due novelli sposi hanno reclutato Tom Smothers, Timothy Leary e Petula Clark per il brano che metteva assieme un ritornello semplice contro la guerra e le tipiche assurdità alla Lennon (“Minister, sinister, banisters, and canisters / Bishops and fishops and rabbis and Popeyes and bye-bye, bye-byes”). Pubblicata come singolo di debutto da solista di Lennon, la canzone è diventata un inno intonato dai manifestanti contro la guerra in Vietnam.
Impeach the President
The Honey Drippers
1973Gli Honey Drippers erano una band di ragazzi afroamericani delle superiori. Venivano dal Queens ed erano guidati da Roy C. Hammond, originario della Georgia. Nessuna etichetta discografica ha voluto pubblicare il loro inno anti Nixon, così Hammond l’ha autoprodotto. Oltre a essere stato campionato più volte nella storia del rap, il pezzo è un commento puntuale, prezioso e intramontabile in salsa funk. Il numero di stream di questo pezzo, che risale all’epoca del Watergate, sono aumentati del 1000% quando nel 2019 il Congresso ha annunciato l’impeachment contro Donald Trump.
Blowin’ in the Wind
Bob Dylan
1963«Questa non è una canzone di protesta o qualcosa del genere, perché io non scrivo canzoni di protesta», ha detto Bob Dylan prima di suonare Blowin’ in the Wind per la prima volta in un club del Greenwich Village. In effetti era molto più di quello: una meditazione zen, una polemica politica, un indovinello e un appello unico nel suo genere. Eppure, i temi legati al pacifismo (“Quante volte devono volare le palle di cannone prima di essere bandite per sempre?”) e all’uguaglianza (“Quanti anni possono vivere le persone prima di essere lasciate libere?”) erano perfette per il movimento per i diritti civili. Peter, Paul & Mary l’hanno trasformata in una hit, Sam Cooke l’ha presa come ispirazione per A Change Is Gonna Come, le comunità folk cristiane l’hanno aggiunta ai loro canzonieri e l’hanno cantata i manifestanti contro varie guerre americane.
The Message
Grandmaster Flash & the Furious Five
1982Quando Grandmaster Flash & the Furious Five hanno pubblicato The Message, nell’estate del 1982, il rap era ancora una forma d’arte marginale, in gran parte confinata nelle strade di New York. A differenza del pugno di pezzi rap come Rapper’s Delight che fino ad allora erano arrivati fino al grande pubblico, questo ha un vero messaggio politico. “È come una giungla a volte”, rappa Duke Bootee, “mi chiedo come faccio a non affondare”. La canzone dipinge un ritratto desolante del degrado urbano, del fallimento delle scuole dei quartieri poveri, del sistema carcerario e di come tutto ciò alimenti un ciclo infinito di violenza e disperazione. Nessuno aveva mai sentito qualcosa di simile. Il rap improvvisamente è diventato una forma d’arte mainstream e un mezzo per trasmettere messaggi politici.
What’s Going On
Marvin Gaye
1971Il 15 maggio 1969 il governatore della California Ronald Reagan ha mandato centinaia di agenti di polizia per irrompere con la forza al People’s Park di Berkeley, una sorta di zona autonoma dei giovani manifestanti. La polizia è stata così violenta che quella giornata è diventata famosa come Bloody Thursday. Renaldo “Obie” Benson, il bassista dei Four Tops, ha sentito la notizia degli scontri e ha avuto l’ispirazione per il classico What’s Going On, canzone che avrebbe terminato insieme ad Al Cleveland della Motown e, infine, Marvin Gaye, che dopo aver ascoltato i racconti strazianti del fratello, veterano del Vietnam, ha colorato il pezzo col suo senso di angoscia (e una performance vocale straordinaria). La Motown inizialmente ha rifiutato di pubblicarla e invece il successo della canzone ha segnato l’inizio di una nuova era di libertà e consapevolezza per l’etichetta.
The Revolution Will Not Be Televised
Gil Scott-Heron
1971A metà strada tra il gioco di parole di Langston Hughes e la visione apocalittica di Allen Ginsberg, il non plus ultra delle canzoni protorap era una risposta all’altrettanto incendiaria When the Revolution Comes dei Last Poets. Come fosse un graffito, The Revolution Will Not Be Televised di Gil Scott-Heron raccoglieva vari spunti dei primi anni ’70 (slogan pubblicitari, personaggi dei cartoni animati, sitcom, popstar) e li rielaborava fino a renderli un gesto di sfida in technicolor. La canzone entrerà a far pare di quella tradizione, citata in cartelli di protesta, canzoni rap, musica dance e, ironia della sorte, anche in spot televisivi.
Fortunate Son
Creedence Clearwater Revival
1969Il conflitto in Vietnam infuriava quando John Fogerty ha scrittouesto inno furioso su come le élite fanno la guerra assicurandosi però che i propri famigliari non debbano fare alcun sacrificio. In cima ai suoi pensieri c’era David Eisenhower (nipote dell’ex presidente Dwight D. Eisenhower e marito della figlia del presidente Richard Nixon, Julie) che non è mai neppure passato vicino a un campo di battaglia, nonostante fosse in età da arruolamento. La canzone ha assunto un nuovo significato nel 2003, quando il presidente George W. Bush, il “figlio fortunato” per eccellenza, ha condotto il Paese in una guerra inutile in Iraq. Fogerty ha fatto campagna attiva per John Kerry, durante la serie di concerti Vote for Change del 2004, proponendo una versione infuocata della canzone con Bruce Springsteen and The E Street Band.
Them Belly Full (But We Hungry)
Bob Marley
1974Nel 1974 Bob Marley era già una star di fama internazionale, ma non aveva dimenticato le sue origini. Questo estratto dall’album Natty Dread (il primo dopo la separazione dalla formazione classica dei Wailers) riassume la sua filosofia di dare voce al popolo in un sintetico avvertimento alle classi dirigenti della Giamaica e del mondo: “Una folla affamata è una folla arrabbiata”. Marley interpreta la canzone con lo stile rilassato che l’ha aiutato a entrare in sintonia col pubblico del pop e del rock (nel bridge invita a “dimenticare i problemi e a ballare”), facendo così della canzone un veicolo efficace per la sua denuncia della disuguaglianza economica.
This Land Is Your Land
Woody Guthrie
1945Questa è «la più grande canzone sull’America mai scritta», a detta di un’autorità come Bruce Springsteen. Il capolavoro immortale di Woody Guthrie era la risposta socialista a God Bless America di Irving Berlin, una protesta vibrante che dice che la classe operaia non vive nella stessa America dei ricchi. È stata diciamo così canonizzata dal folk revival degli anni ’60, interpretata per decenni da Pete Seeger (a volte con nuovi versi anticolonialisti firmati dall’attivista Carolyn “Cappy” Israel), proposta in modo emozionante nei leggendari concerti di Springsteen degli anni ’80. Al netto della tematica radicale, la melodia accattivante e il messaggio di speranza di This Land Is Your Land sono talmente irresistibili da fare da colonna sonora per gli halftime show del Super Bowl e le cerimonie presidenziali.
Fuck tha Police
N.W.A.
1988Quando molti anni dopo averla scritta gli hanno chiesto cosa significasse per lui Fuck tha Police, Ice Cube ha risposto: «Ci sono voluti 400 anni per farla ed è ancora attualissima». Perseguitato per via del colore della pelle, nel 1988, ha deciso di vendicarsi inscenando un processo farsa di sei minuti. Il giudice Dr. Dre presiede l’udienza mentre i procuratori Ice Cube, MC Ren ed Eazy-E presentano le loro prove, accusando i poliziotti di ispezioni razziste, perquisizioni personali e violazioni di domicilio. Il giudice Dre, ovviamente, condanna i poliziotti corrotti con una sentenza che, da allora, è finita scritta con lo spray sui muri: “Fuck tha Police”. La canzone ha continuato a essere attuale con le proteste contro la brutalità della polizia del movimento Black Lives Matter e gli stream sono aumentati quasi del 300% nelle settimane successive all’omicidio di George Floyd.
Ohio
Crosby, Stills, Nash, and Young
1970«Stavamo parlando a nome della nostra generazione», ha detto Neil Young a proposito di questa canzone. Era seduto in veranda con David Crosby e ha notato la copertina di una rivista dedicata ai tragici eventi del 4 maggio 1970, quando quattro studenti che manifestavano alla Kent State University in Ohio sono stati uccisi dalla Guardia Nazionale. In pochi minuti ha scritto una delle canzoni simbolo del movimento pacifista, con un riff di chitarra incalzante e un ritornello che, senza mezzi termini, chiede: “E se la conoscessi e la vedessi morta a terra?”. A quanto pare, Crosby è scoppiato in lacrime, in studio di registrazione, così come è accaduto a tanti altri sentendo Young comunicare lo shock e l’orrore per quel che è accaduto alla Kent State.
We Shall Overcome
Pete Seeger
1948Pete Seeger non è l’autore originale di We Shall Overcome, visto che la folk song è riconducibile a una composizione del 1900 intitolata I’ll Overcome Some Day firmata dal reverendo Charles Albert Tindley. Ma il cantante dei Weavers se l’è adattata nel 1947, cambiando titolo e parole, e facendola diventare uno dei brani chiave del folk revival, cantato durante le manifestazioni nel corso di tutti gli anni ’60. Addirittura, il presidente Lyndon Johnson ha pronunciato davanti al Congresso la frase «we shall overcome» dopo i violenti attacchi ai manifestanti delle marce da Selma a Montgomery, in Alabama, nel 1965. La canzone si è diffusa in Cecoslovacchia durante la rivoluzione di velluto degli anni ’80 e da allora è diventata un inno universale alla libertà e alla solidarietà. Quando, nel 2006, Bruce Springsteen ha pubblicato un album di canzoni rese popolari da Seeger, non poteva che intitolarlo così: We Shall Overcome.
Mississippi Goddam
Nina Simone
1964Prima del 1963, Nina Simone non pareva interessata alle canzoni di protesta: per lei erano «banali e prive di fantasia». Poi ci sono stati l’attacco alla Chiesa Battista di Birmingham, Alabama, in cui sono rimasti uccisi quattro bambini afroamericani, e l’assassinio di Medgar Evers, segretario del NAACP (Associazione Nazionale per la Promozione delle Persone di Colore) in Mississippi, «e una canzone mi è sgorgata fuori più velocemente di quanto riuscissi a scrivere». Trainata da un pianoforte effervescente e dall’interpretazione vivace di Simone, Mississippi Goddam sembra quasi sbarazzina: “Questa è una canzone per uno show / Ma lo show non è ancora stato scritto”. Tutto quel brio, in realtà, è più che altro una provocazione, con Simone che esprime lo shock provocato da quegli eventi in molte persone, sia bianche che di colore, che chiedono un cambiamento.
Masters of War
Bob Dylan
1963Nelle note di copertina del secondo album Dylan scriveva che «non canto pezzi in cui si spera che la gente muoia, ma in questo caso non ho potuto farne a meno». Prendendo spunto da una vecchia canzone folk inglese, l’allievo di Woody Guthrie ha puntato il dito contro grandi burattinai e ha creato la più grande denuncia contro la guerra di tutti i tempi. Attaccando il complesso militare-industriale, proprio nel bel mezzo dell’escalation americana durante la Guerra Fredda, la rabbia semplice e schietta della canzone crea un ponte tra il potere di aggregazione della musica folk e la furia catartica del punk-rock che verrà. “Lasciate che vi faccia una domanda: il vostro denaro vale così tanto?”, canta in un brano che avrebbe galvanizzato le proteste contro la guerra del Vietnam nel decennio successivo. “Vi basterà per comprarvi il perdono? Pensate che possa farlo?”.
Say It Loud, I’m Black and I’m Proud
James Brown
1968Pubblicizzato come «un messaggio da James Brown ai cittadini d’America», lo storico inno all’orgoglio nero e all’autodeterminazione firmato dal padrino del soul era così radicale che Brown ha deciso di invitare un gruppo di bambini a cantare nel ritornello, sperando così che le loro voci graziose avrebbero reso meno minacciosa una canzone politicamente decisamente diretta. I programmatori delle radio sono stati molto restii a mandarla in onda, ma non c’era modo di contenere il messaggio di Brown e la canzone ha raggiunto il primo posto nelle classifiche R&B, dove è rimasta per sei settimane. Il pezzo ha avuto un ruolo fondamentale nel promuovere l’uso della parola “black” per auto-identificarsi, andando a sostituire termini più obsoleti, e il suo ritmo incisivo sarebbe poi stato campionato in tantissime hit rap, nel corso degli anni. Paradossalmente Brown era quasi apolitico e nel 1972 ha appoggiato Nixon.
Respect
Aretha Franklin
1967Aretha Franklin aveva già alle spalle una carriera professionale di sette lunghi anni e vari album fallimentari quando, all’inizio del 1967, è entrata negli Atlantic Recording Studios di New York con il produttore Jerry Wexler per incidere una cover di Respect di Otis Redding. La canzone era stata scritta dal punto di vista di un uomo che pretendeva, con arroganza, il rispetto della propria compagna, ma Franklin l’ha ribaltata e l’ha interpretata dal punto di vista di una donna oppressa, aggiungendo i passaggi indimenticabili “R-E-S-P-E-C-T” e “Sock it to me”. Chiedeva rispetto non solo per se stessa, ma per le donne di tutto il mondo. L’invocazione ha riecheggiato nel movimento per i diritti civili e in quello per la liberazione della donna. Franklin era nata per essere una superstar e un’icona. Questa è la canzone che l’ha reso possibile.
Strange Fruit
Billie Holiday
1939Negli anni ’30, un insegnante, poeta e cantautore ebreo di nome Abel Meeropol ha visto una fotografia agghiacciante di un linciaggio nell’Indiana. Quell’immagine è diventata il punto di partenza per Strange Fruit, una delle prime e più inquietanti canzoni di protesta dei tempi moderni. Registrata per la prima volta da Billie Holiday, che si è calata pienamente nell’atmosfera spettrale della canzone, Strange Fruit ha sconvolto con le sue immagini vivide: “Scena pastorale del valoroso Sud / Gli occhi sporgenti e la bocca contorta”. Da allora è stata rifatta da Nina Simone, Annie Lennox, Jeff Buckley, Siouxsie and The Banshees, mentre la versione di Simone è stata campionata in Blood on the Leaves di Kanye West. La canzone rimane moderna e attuale, indipendentemente da chi la canta.
Fight the Power
Public Enemy
1989Riprendendo il pezzo funk degli Isley Brothers del 1975 Fight the Power e rielaborandone il ritornello (“We gotta fight the powers that be”), i Public Enemy hanno realizzato un grande manifesto di resistenza, rabbioso ma lucido, da utilizzare come musica per il film di Spike Lee del 1989 sul tema del pregiudizio, Fa’ la cosa giusta (Do the Right Thing). Per Chuck D, “i poteri” erano i razzisti, i redneck, i liberali superficiali, Elvis, John Wayne e persino la hit di Bobby McFerrin Don’t Worry, Be Happy. Chiunque e qualunque cosa abbia ostacolato la vera uguaglianza dei neri negli ultimi cinque secoli. “La maggior parte dei miei eroi non è immortalata sui francobolli”, spiega Chuck, e non usa mezzi termini nel dire ciò che vuole: “Potere al popolo, senza indugio”.
A Change Is Gonna Come
Sam Cooke
1964Sei mesi prima che il Congresso approvasse la Legge sui Diritti Civili del 1964, Sam Cooke ha deviato dal pop per incidere uno degli atti d’accusa più potenti di sempre contro il razzismo, un caso senza precedenti di fusione tra musica pop e politica progressista. Ispirato da Blowin’ in the Wind di Bob Dylan e attingendo alla rabbia che aveva provato quando gli era stata negata una stanza in un hotel della Louisiana perché era nero, ha scritto un testo sentito, invocando la fine della discriminazione. Con un arrangiamento orchestrale splendido, canta in modo accorato di essere stato mandato via dai cinema e minacciato solo per aver passeggiato in centro. Per quanto sia triste, però, non perde la speranza. Cooke è morto solo pochi mesi prima che il singolo diventasse inaspettatamente una hit, ma la canzone ha resistito al passare del tempo. Aretha Franklin, Otis Redding e Beyoncé l’hanno rifatta e Bettye LaVette e Jon Bon Jovi l’hanno eseguita al concerto per l’insediamento di Obama, a gennaio del 2009.
Hanno contribuito: David Browne, Jon Dolan, Suzy Exposito, Andy Greene, Kory Grow, Brian Hiatt, Christian Hoard, Angie Martoccio, Rob Sheffield, Simon Vozick-Levinson, Christopher R. Weingarten. Da Rolling Stone US.