Se nel pop italiano c’è un prima e un dopo Lucio Battisti, allora lo spartiacque è Emozioni, l’album-raccolta che usciva cinquant’anni fa, il 15 dicembre 1970. Lo so, è strano: in genere non si celebrano i greatest hits o i dischi che comunque, concettualmente, gli si avvicinano. Ma all’epoca, perlomeno prima che proprio lui si mettesse di traverso, si lavorava così: una sfilza di 45 giri e poi l’LP – o meglio, a questo punto, la compilation – a radunarli, magari proprio sotto Natale.
E quindi questo è il terzo di Lucio in coppia con Mogol, che a scorrere la track list si può dire abbia inventato il pop italiano. Per lascito, per innovazione, per come le sue canzoni siano rimaste scolpite nel nostro immaginario collettivo. Non che le premesse non ci fossero, visto che i brani, da una parte, sono frutto dello stato di grazia del giovane Battisti, “trovatore” di suoni che all’estero spopolano e in Italia stentano a fare breccia, da lui per primo intercettate e portate in trionfo nelle nostre radio; e dall’altra rappresentano la consacrazione dello stile di un già più navigato Mogol, con incipit biblici (“Ho visto un uomo che moriva per amore…”, “Seguir con gli occhi un airone sopra il fiume e poi / ritrovarsi a volare”) ed espressioni che segneranno almeno trent’anni di produzione altrui. Oltretutto, all’epoca della pubblicazione i pezzi erano già stati quasi tutti dei successoni, visto che l’album raccoglie i singoli pubblicati dal 1968 al 1970, e quindi famosissimi lati A, sorprendenti lati B e qualche brano scritto per altri, nella vita precedente come autore, e poi cantato in proprio.
Però la tenuta nel tempo, quella no: non era affatto scontata. E il merito è della sua portata rivoluzionaria nel lessico della musica italiana, che con questi dodici classici si sarebbe rovesciata. Saltano i cliché: ora con Battisti che garantisce un respiro internazionale agli arrangiamenti e inventa nuove strutture; ora con Mogol che si lascia alle spalle la narrazione tradizionale delle relazioni, e per toni – qui trionfano tradimenti, ossessioni patetiche, persino un umorismo nero – e per argomenti, con la donna che diventa emancipata e carnefice di un maschio ingenuo e primitivo, maschilista eppure debole. Tant’è che, cinquant’anni dopo, parliamo di questo disco come di un oggetto attuale, che trascende il semplice contesto musicale: è parte della nostra cultura, dell’identità condivisa. Ne conosciamo a memoria ogni angolo. E, anche per questo, vale la pena chiedersi: qual è il suo pezzo migliore? Visto che li ricordiamo tutti…
12Dolce di giorno
Composta per i Dik Dik nel 1965 e ripresa da Battisti l’anno dopo sulla stessa base, è il capitolo dell’album più vicino alla beat generation – melodia ciondolante, uso della batteria. A sorpresa, poi, spunta pure un’armonica à la Dylan, mentre la voce di Lucio si fa più scura del solito. Ma nonostante qualche trovata, è fin troppo tradizionale rispetto ai classici. E se non fu un successo nel 1966, tantomeno sarebbe rimasta impressa con la pubblicazione persino tardiva in Emozioni. Poi oggi, ovviamente, è quella invecchiata peggio.
11Io vivrò (senza te)
La costante di Emozioni è salire di livello secondo l’ordine cronologico di uscita dei brani. Tradotto: i primi – quelli scritti per altri, e poi cantati da Battisti senza grande successo di pubblico – risultano i meno innovativi, nonché caratterizzati da interpretazioni impacciate e arrangiamenti un po’ sterili e collaudati. Io vivrò (senza te), che è del 1968, non fa eccezione: originariamente “donata” ai Rokes, mantiene l’impianto melodrammatico in voga allora senza i guizzi da commedia nera che verranno più avanti. Con un pianoforte in primo piano, c’è anche il tentativo di avvicinarsi al soul, ma Lucio e Mogol restano a metà del guado.
10Era
Era, scritta da Battisti e Mogol nel 1965 insieme a Renato Angiolini per Roby Matano, ispirandosi a Yesterday, è forse la canzone meno nota dell’album. Ed è un po’ un peccato, perché ne rappresenta l’episodio beatlesiano, ma non per come si può intendere a prima associazione: fra ritmo cadenzato e suoni acustici, più che alla perfezione pop della musa originale guarda a un folk ipnotico, sembrando una sorta di Norwegian Wood all’italiana. Chiaro: il fattore tempo è evidente, e la composizione è acerba. Ma già solo per essere il freak onesto di Emozioni, ci sentiamo di promuoverla fino a qui.
9Dieci ragazze
Lato B di Acqua azzurra, acqua chiara (1969), nonostante un successo – alla lunga – pressoché equivalente è una riproduzione in scala del singolone che accompagnava, pur mostrando gran parte delle caratteristiche di questa prima rivoluzione del pop firmata Battisti e Mogol. Ovvero: cambio di toni (dal dramma all’esplosione di vitalità e ritorno; e l’interpretazione di Lucio sempre puntuale nel dettare i tempi), destituzione della forma-canzone classica e ricerca sonora, che qui mischia i più classici archi di sottofondo con una chitarra elettrica in odor di twist. E poi il testo di Mogol, memorabile per quanto zeppo di apparente maschilismo, con tanto di finale a sorpresa. Chiaro: c’è di più efficace ed evocativo, in Emozioni, ma qui si inizia già a fare sul serio.
8Anna
Lato B di Emozioni (il singolo), Anna fu un cult per il ritornello appiccicoso e spigliato. Eppure, cinquant’anni dopo, di lei rimangono – più che in un inciso che, all’interno di un disco così brillante, non spicca nemmeno tanto – soprattutto il gioco a rimbalzo fra Battisti e i cori che lo inseguono, gli ammiccamenti espliciti al blues e alla black music all’epoca rivoluzionari per l’Italia, e l’infuocato finale di batteria di Franz Di Cioccio. Il resto lo fa l’interpretazione di Lucio, a fasi alterne incazzata e disperata, su un testo di Mogol che traghetta l’Italia negli anni ’70. “Se tu non hai mai visto un uomo piangere / guardami”. Sta cambiando tutto.
7Non è Francesca
Eccola, la prima commedia nera della coppia. E dire che era stata scritta già nel 1967 per I Balordi, un gruppo beat; ma qualcuno ricorda quella versione? Invece di nuovo nelle mani di Battisti, come lato B di Un’avventura, diventa un classico perdendo le venature 60s e gettandosi nel futuro come il singolo a cui faceva da spalla. Un elemento su tutti: la lunghissima coda strumentale, dalle atmosfere improvvisamente tetre e blues, che occupa la seconda metà del brano, fino alla rischiarita finale; da quant’è che un pezzo radiofonico non rischia così tanto? Decisamente più audace, per questo, anche della “sorella” – per temi – Dieci ragazze.
67 e 40
Con un “presto, presto!” dell’inciso rimasto scolpito come una statua in memoria di quegli anni, nonché dominatore di ogni Techetechetè che si rispetti, 7 e 40 sarebbe l’ennesimo lato B recuperato da Emozioni (all’origine era accoppiato con Mi ritorni in mente, nell’ottobre del 1969). Ma ecco: in realtà è molto di più. È, per esempio, la prima distopia d’amore metropolitana della casa (antesignana, fra le tante, di Supermarket), fra treni, traffico, un addio mancato e una grande prova di scrittura cinematografica. Il resto lo fanno l’arrangiamento complesso, fra i migliori del disco, con cori, chitarre e sfumature elettroniche ad accompagnare un crescendo che, però, sul più bello s’inceppa e riparte. Un gioiello, e forse – per creatività – la canzone più sottovalutata del lotto.
5Fiori rosa, fiori di pesco
Messa lì, in apertura di Emozioni, Fiori rosa, fiori di pesco (già lato B di Mi ritorni in mente; siamo nel giugno del 1970) ne è il manifesto perfetto nonostante si tratti di una raccolta abbastanza disomogenea. Un groppo in gola rappresentato dagli archi accomodanti dell’arrangiamento, poi un crescendo con la voce rotta di Battisti (“Dimmi che è vero!”) che recita il suo primo, grande melodramma pop, forte di un ritornello rimasto negli annali e la comparsa – la prima, eccoci – di quel maschio ingenuo e fragile, in ginocchio dalla propria donna (rigorosamente disinibita ed emancipata), che diventerà una costante della poetica di Mogol. Per il resto, più che nei suoni, è questo saliscendi della struttura – ormai maturo, e che se ne frega della forma canzone – ad averle garantito freschezza, all’epoca. E a farne, oggi, una sintesi dei brani che la precedono in classifica.
4Acqua azzurra, acqua chiara
Da un lato, Acqua azzurra, acqua chiara è tormentone irresistibile, da bibbia del nazionalpopolare, con un ritornello spontaneo e liberatorio, melodicamente perfetto per il Festivalbar (che non a caso il brano vincerà, nel 1969). Dall’altro, è un lavoro prezioso per introdurre l’r&b in Italia, specie per l’arrangiamento stratificato – all’epoca davvero avanguardistico, per noi – con trombe ed echi tropicali legati agli onnipresenti archi, in una sorta di stop and go fra strofe (lente e tristi) e inciso micidiale e festaiolo, da imboccare con la rincorsa. Se Fiori rosa, fiori di pesco è il manifesto del modo di lavorare di Battisti e Mogol all’epoca, questa è la sperimentazione migliore dentro i confini strettamente pop. Poi dalla prossima posizione inizia una gara a parte, che esula da questa geografia.
3Mi ritorni in mente
Vocabolario Mogol: “angelo caduto in volo”, “sono morto”, “i sogni miei”, “come ti vorrei”. Breviario Battisti: strofa che è un ritornello, ritornello che è una strofa, archi leggeri e fiati incalliti, melodia circolare che improvvisamente si impenna e si apre. Basterebbe questo per sottolineare la dimensione spaziale che occupa nella loro discografia un pezzo come Mi ritorni in mente, che rappresenta la coppia all’ennesima potenza, affiatata, che si fa beffe della forma canzone. Perché questa potrebbe pure passare per una placida ballata d’amore, a prima vista; in realtà è una frustrazione continua, una distorsione di ricordi e nostalgia. Con un ritmo corrosivo, sullo sfondo, che non ha niente a che vedere col pop rassicurante a cui pure uno potrebbe associarla. Un classico, insomma, che però gioca alle proprie regole.
2Il tempo di morire
Sporca, maledetta, disperata. Eppure così ipnotica, col suo incedere ascensionale. Il sesso e la carne che diventano ossessione, l’orgasmo che si traduce in un macabro morire che dice tutto e dice niente, la motocicletta (“10 hp”: niente di che, ma tant’è) come segno triviale di coolness. E che però non basta, a conquistarla. Il testo de Il tempo di morire contiene tutti gli archetipi della poetica di Mogol (il maschio succube e ingenuo, disposto a tutto per una notte con una donna invece scaltra, nonché rigorosamente innamorata di un altro), enfatizzati dall’interpretazione intristita di Battisti. E poi i suoni: r&b d’importazione, blues, radice del pop-rock che verrà. Li senti, e ti immagini già Vasco Rossi, Zucchero e gli altri. Ovvero la prova dell’eredità – e dell’avanguardia, in senso nazionalpopolare – di Emozioni.
1Emozioni
Dicevamo degli incipit: “Seguir con gli occhi un airone sopra il fiume e poi / ritrovarsi a volare”; non è già tutto qui? Nata durante un (il) viaggio a cavallo da Milano a Roma di Battisti e Mogol, la title track della raccolta parte con due note di chitarra iconiche, improponibili anche a Sarabanda; poi mischia soul, pop e cantautorato. Infine, prova a rispondere a una domanda: cosa sono quelle che, “se vuoi”, puoi chiamare “emozioni”? L’idea è ambiziosa, sfumata, piena di contraddizioni e disparità. Ma il risultato è da brividi, e su un tappeto di archi, batteria (di Franz Di Cioccio), buio e silenzi, tocca il placido senso di libertà, poi va alla rabbia e quindi arriva – come sbagliarsi? – all’angoscia, alla disperazione. Fa piangere, sorridere, rilassare. Non si spiega, non si vuole far spiegare. “E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere / se poi è tanto difficile morire”. “Domandarsi perché quando cade la tristezza in fondo al cuore / come la neve non fa rumore”. Perché Emozioni – il disco – è il padre del pop italiano. Emozioni – la canzone – è qualcos’altro: una domanda senza risposta; qualcosa, soprattutto, di non replicabile da nessuno.