Era l’estate del 1964 quando una giovane rock band britannica chiamata High Numbers pubblicò il proprio singolo di debutto, Zoot Suit, per poi vederlo sparire senza lasciare traccia. La canzone, tutt’altro che indimenticabile, era stata scritta dal loro manager Pete Meaden; qualche mese dopo, quando tornarono in studio, decisero di cambiare nome, scegliendo The Who, e affidarono la scrittura dei brani al chitarrista Pete Townshend. Fu una saggia decisione. Il primo singolo pubblicato fu Can’t Explain, un brano che inaugurò vent’anni di musica strepitosa che fornì la base per il punk, il metal, il power pop e il rock progressive. Per onorare la carriera di una delle più grandi rock & roll band della storia, riascoltiamo le loro dieci canzoni più belle.
10.“Eminence Front” (‘It’s Hard’, 1982)
Dopo un deludente It’s Hard del 1982, gli Who non registrarono altri album fino al 2006. «L’ho odiato» ha detto Daltrey. «E lo odio ancora.» Ma l’unica hit di tutto l’ellepì, Eminence Front, è la prova tangibile che si poteva coniugare perfettamente il lavoro new-wave solista di Townshend con il classico suono di Who’s Next. «Eminence Front è stata scritta attorno a una progressione armonica che ho scoperto sul mio adorato organo Yamaha E70» ha raccontato Townshend. «Fatico molto a spiegare di cosa si trattasse. Ma credo sia l’assurda grandiosità che deriva dal consumo di droga, ma è difficile dire se stessi puntando il dito a me stesso o agli spacciatori di cocaina di Miami Beach.»
9.“We’re Not Gonna Take It/See Me, Feel Met” (Live at Leeds, 2001)
Come testimoniano Woodstock, l’Isola di Wight e tutta la ristampa di Live at Leeds, il gran finale di Tommy diventò ancora più grande nel corso di 100 performance dell’opera fra il 1969 e il ’70. Townshend originalmente scrisse We’re Not Gonna Take It come inno antifascista prima di concepire Tommy, mentre See Me, Feel Me fu ispirata in parte dai ricordi della spietata madre e poi fatta uscire come singolo dopo il trionfo degli Who a Woodstock. Con l’altezzosa coda di Listen to You, con tanto di Daltrey nel suo apice di dio del rock biondo, We’re Not Gonna Take It/See Me, Feel Me rimane il punto più alto degli Who a oggi.
8.“Getting in Tune” (Who’s Next, 1971)
«Non posso fare finta se c’è qualche significato nascosto nelle cose che dico» canta Daltrey all’inizio di questa traccia di Who’s Next. Ma come in ogni cosa che scrive Townshend, Getting in Tune era su tutto fuorché di niente: stracolma di messaggi profondi e complicati. Un’altra traccia dal progetto Lifehouse non andato mai a buon fine, l’arrangiamento del brano incorpora le molte ricchezze musicali degli Who. Inizia piano, con Nick Hopkins al piano (un turnista) e con il basso fluido di Entwistle, per poi prendere solidità fino a costruire un tuono senza tempo degli Who, completo solo con uno dei riff di batteria più sghembi e casinisti di Moon.
7.“I Can’t Explain” (Non-album single, 1964)
Dopo aver cambiato il nome da High Numbers a the Who, il singolo di debutto del quartetto divenne una hit da top 10 nel Regno Unito del 1965, presentando la band a un pubblico di massa e inaugurando una serie stellare di hit negli anni Sessanta. I Can’t Explain è un razzo power-pop, con riff adrenalinici e un crudissimo casino di rumori. «Un tripudio di soffi e spifferi» disse Townshend della canzone nel 1968. Parte di quel suono di spifferi va attribuita al produttore Shel Talmy, un americano che si era trasferito in Inghilterra per lavorare alla Decca Records. Talmy aveva di recente lavorato con i Kinks e il loro singolo epocale You Really Got Me, che Townshend adorava. «Non può essere classificata beat perché ascoltavo tutto il tempi i Kinks» ha detto Townshend. «C’è ben poco da dire su come l’ho scritta. Mi è balzata in testa quando avevo 18 anni e mezzo.»
6.“Baba O’Riley” (‘Who’s Next’, 1971)
La spiritualità, il potere del suono e della cultura rock & roll, ritratta nel suo declino: tutti questi temi convergono nella maestosa apertura di Who’s Next. Il titolo è un richiamo al guru di Townshend, Meher Baba, e al compositore d’avanguardia Terry Riley. – la “O” era un’ammiccamento alla parte di violino ispirata dalle ballate irlandesi. L’influenza di Riley è particolarmente evidente nella parte di tastiera che introduce il brano – un organo effettato che suona un pattern ipnotico e ripetitivo. Baba O’Riley era una delle canzoni pensate da Townshend per il suo progetto mai realizzato Lifehouse, di cui avrebbe dovuto ritrarre il protagonista – «un contadino in mezzo ai campi», raccontò Townshend. Tuttavia il testo parla anche dello stato del rock all’alba degli anni ’70: «La totale desolazione dei teenager dopo il secondo Isle of Wight e dopo Woodstock, dove tutti furono devastati dall’acido e venti persone ne uscirono con danni cerebrali», disse il chitarrista. «Le persone stavano già abbracciando quella cultura e la sua promessa di salvezza, ma non tutti sono sopravvissuti».
5.“Love, Reign O’er Me” (‘Quadrophenia’, 1973)
La ballata più potente di Who – anche se il termine “ballata” qui suona un po’ riduttivo. Il gran finale di Quadrophenia era stato inizialmente concepito per un’opera rock mai completata, l’ideale seguito di Tommy intitolato provvisoriamente Rock Is Dead – Long Live Rock che avrebbe dovuto raccontare la storia degli Who. Love, Reign O’er Me, titolata anche Pete’s Theme in modo che il personaggio raccontato rappresentasse il proprio autore, si apre con il rumore della pioggia, il rintocco del pianoforte e un tamburo che entra come il rombo di un tuono. Poi entra la melodia di synth, e la voce di Daltrey raggiunge il culmine durante quella che, probabilmente, è la miglior performance di batteria che Moon abbia mai fatto – per cui ha distrutto tutte le percussioni presenti in studio durante le registrazioni. Il titolo suggerisce l’amore spirituale: «Racconta delle parole di Meher Baba, per cui la pioggia era una benedizione di Dio», scrisse Townshend, riferendosi alla sua guida spirituale dell’epoca. La canzone non riscosse grande successo (arrivò alla posizione 76), ma è stata inserita in così tante compilation di innamorate da fa perdere il conto.
4.“A Quick One, While He’s Away” (‘A Quick One,’ 1966)
Alla fine del 1966, Townshend stava sfornato singoli devastanti da circa due anni. Tuttavia era ansioso di provare qualcosa di nettamente diverso dalla classica struttura pop. Finì per scrivere una composizione di nove minuti, poi definita “mini-opera”, divisa in sei parti e riguardante una donna che tradisce il propio amante con un tizio di nome Ivor the Engine Driver. La canzone racchiude qualsiasi stile, dal al folk al blues, passando per il country e il rock & roll. Gli Who volevano assumere anche dei violoncellisti per aggiungere intensità al climax, ma a causa di un budget ridotto la band decise di cantare la parola “cello” in loop per cercare di creare lo stesso effetto di crescendo. IL risultato era qualcosa di mai visto nel 1966, ma fu solo qualche anno dopo che Townshend vide nella canzone un significato più profondo. «Racconta la storia di chi, come noi, è stato bambino nel dopoguerra» ha detto nel 2012, «parla della perdita di una persona cara, ritrovata profondamente cambiata dopo il ritorno dal fronte».
3.“My Generation” (‘My Generation’, 1965)
La leggenda narra che Townshend scrisse My Generation il giorno del suo 20esimo compleanno, il 19 maggio del 1965, mentre era su un treno Londra-Southampton per un’apparizione televisiva. La canzone inizialmente era stata ideata come un inno di protesta giovanile. Costruito su un blues in stile Jimmy Reed, il brano rispecchiava la paura di diventare adulto di Townshend, racchiusa nel famoso verso Hope I die before I get old. «My Generation parla della difficoltà di trovare il proprio posto nella società», raccontò il chitarrista a Rolling Stone nel 1987. «Mi sentivo davvero perso. La band era molto giovane allora e tutti pensavano che la nostra carriera sarebbe durata pochissimo. Tuttavia My Generation diventò il biglietto degli Who per la leggenda. L’assalto in due accordi di Townshend, l’urlo balbuziente di Daltrey, la valanga di batterie di Moon e i cori in chiave r&b di Townshend e Entwistle riuscirono a creare quel giusto sentimento di ansia crescente, culminato in studio, quando la band ricreò la fine dei loro concerti, distruggendo gli strumenti. Il brano divenne la loro prima top five in Gran Bretagna, e un inno di guerra per tutti i giovani mods d’Inghilterra.
2.“I Can See for Miles” (‘The Who Sell Out’, 1967)
Townshend registrò la demo di I Can See for Miles nel 1966, e i manager degli Who erano talmente sicuri che il brano sarebbe diventato una hit che decisero di tenerlo da parte nel caso il successo della band subisse un rallentamento. Questo diede a Townshend il tempo di continuare a lavorare con calma sulla canzone che sarebbe diventata uno dei suoi massimi capolavori. «Inizialmente parlava di gelosia, alla fine è diventato un brano riguardo la potenza dell’ambizione», rivelò in seguito il chitarrista. «Ho passato molto tempo a lavorare sulle armonie vocali e sulla struttura del pezzo». Townshend iniziò a lavorare sul singolo ai CBS Studios di Londra, per poi finirlo mesi più tardi al Gold Star di Los Angeles, lo stesso studio in cui Brian Wilson, l’anno precedente, aveva creato Good Vibrations. Gli sforzi di Wilson furono ripagati con un primo posto in classifica sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti. I Can See for Miles non raggiunse lo stesso successo in Inghilterra – «Non ha venduto neanche una copia, mi sento umiliato», commentò Townshend – mentre raggiunse la nona posizione in America, diventando il più grande successo degli Who negli Stati Uniti. Nonostante la delusione Townshend era consapevole di aver creato un brano senza tempo: «È una delle migliori canzoni che abbia mai scritto», ha ricordato in seguito il chitarrista.
1.“Won’t Get Fooled Again” (‘Who’s Next’, 1971)
Il finale roboante del miglior album degli Who è probabilmente la più grande dichiarazione di indipendenza del rock – e di Pete Townshend: una tempesta epica di dubbi e ribellione, tra un sintetizzatore ipnotico e minimale e accordi potenti come un tuono, avvolti da un urlo sovrumano. «La canzone era intensa», raccontò il compositore-chitarrista nel 2006, «era stata scritta per dire sia ai politici che ai rivoluzionari che ciò che stava al centro della mia vita non era in vendita». Infatti è proprio grazie a quel lungo e feroce ululato di Roger Daltrey – «Come se gli si strappasse il cuore», raccontò Townshend – che per molte persone la canzone «è diventata molto di più che un semplice brano», una dimostrazione elettrizzante del vero potere del rock come voce di protesta, contro qualsiasi regime. Scritto da Townshend per l’opera Lifehouse e registrato per la prima volta nel marzo 1971 durante una sessione, poi scartata, con il chitarrista country Leslie West, Won’t Get Fooled Again fu suonata per la prima volta su un palco ad aprile dello stesso anno, diventando immediatamente un appuntamento immancabile in tutti i concerti degli Who. Il fatto che in seguito Townshend abbia ‘prestato’ il brano ad una serie TV non scalfito la sua potenza, né l’importanza del testo. Al centro di Won’t Get Fooled Again rimane il potere della musica come forza morale e salvifica – rispecchiata dall’immagine di Townshend in ginocchio, con in mano la chitarra: «Simboleggia una preghiera», rivelò il chitarrista.