Ovunque si trova, Lenny Kravitz riesce a scrivere una canzone. «Compongo musica su qualunque cosa», dice con nonchalance, «alla chitarra, alle percussioni, nella mia testa».
Negli ultimi tre decenni, il rocker ha trasformato questa sua ispirazione in una serie di hit. Vincitore di quattro Grammy, dal 1989 in poi ha pubblicato una serie di album che sono diventati dischi d’oro o multiplatino, ha prodotto singoli come It Ain’t Over ‘Til It’s Over, Fly Away e Are You Gonna Go My Way, canzoni che spaziano dal rock al soul, passando per tutto il resto. Sono il riflesso del suo stato d’animo nel momento in cui le scrive. E così, ha scritto pezzi che parlano dei genitori, dell’ex moglie Lisa Bonet e della figlia Zoë.
«Una buona canzone deve essere ispirata», dice. «Alcuni sono bravissimi a rendere l’arte formulaica, ma non fa per me. Servono vita e ispirazione. Mi faccio il mazzo, sono disciplinato e perfezionista, ma deve scoccare una scintilla iniziale».
“Let Love Rule” (1989)
«Era il 1988 e vivevo in un loft in Broome Street a New York. Avevo scritto “Let love rule” sul muro accanto all’ascensore sul mio piano solo perché era una frase che avevo in testa e che adoravo. Un giorno scendo dall’ascensore e la vedo, e inizio a pensare che dovrei scrivere una canzone con quel titolo. Entro nell’appartamento, prendo la chitarra e lo faccio. Mi è uscita così. Poi il giorno dopo sono andato in studio a Hoboken, in New Jersey, e l’ho registrata. Era semplicemente magica. Incarnava tutto quello che ero in quel periodo, musicalmente parlando. Ha delle sfumature di gospel, r&b e rock psichedelico. Per me, l’album doveva avere quello stile. Fu l’inizio della mia vita da musicista. Era mia. Mi apparteneva».
“Justify My Love” (1990)
«Quando l’ho scritta sapevo che non l’avrei cantata io. Ma l’ho amata da subito. E siccome è una canzone molto sexy, ho pensato a Madonna. Avevo appena finito il tour di Let Love Rule e l’avevo incontrata varie volte per locali, era anche venuta a vedere il mio show. La chiamai e le dissi: “Ho una canzone per te. È un pezzo da numero uno in classifica sicuro”. E lei: “Non ci credo”. “Credimi, è così”. “Va bene, portamela, fammi sentire”. E così sono andato in studio, ho messo su la cassetta e gliel’ho fatta sentire una, due, tre volte. Madonna mi ha detto: “Ok, facciamola”. Ci abbiamo messo solo un paio di giorni a registrarla. Ho messo in sottofondo quella melodia inquietante e ossessiva, lei ha inciso la parte cantata e fine, la canzone era pronta. Il nostro amico Jean-Baptiste Mondino ha girato il video a Parigi, ma è stato bandito da MTV. Madonna, intelligente com’è, decise di venderlo su videocassetta. Ogni VHS contava come singolo: la canzone finì dritta al primo posto e ci rimase per molte settimane. Era la prima volta che un mio pezzo raggiungeva il primo posto in classifica».
“Always on the Run” (1991)
«Slash e io abbiamo frequentato la stessa scuola superiore. Un giorno l’ho visto esibirsi agli American Music Awards. L’ho invitato in studio per fare l’assolo di Fields of Joy e poi abbiamo deciso che avremmo scritto una canzone insieme. Quand’era in tour in Europa, dopo l’ultima data è saltato su un Concorde alle 9 del mattino per farsi Londra-New York. Mi ha chiesto di comprare quattro litri di vodka e un sacchetto di ghiaccio. Siamo andati in studio e boom, ecco la canzone che abbiamo scritto e registrato insieme. La mattina dopo ha preso un aereo per Los Angeles. Una lunga giornata. Il testo parla di mia madre e della sua saggezza. Voleva che mi fermassi a pensare e ad apprezzare le cose. Ma ero su un treno in corsa e non potevo fermarmi».
“It Ain’t Over ‘Til It’s Over” (1991)
«Questa l’ho scritta per la mia ex moglie [Lisa Bonet]. Stavamo attraversando un periodo di distacco, che poi è sfociato nel divorzio. Insieme abbiamo avuto una figlia e una vita straordinaria. Eravamo come uno specchio l’uno per l’altra: lei era la mia versione femminile e io la sua maschile. Ero in una stanza d’hotel a Los Angeles e mi ero fatto portare in camera un Fender Rhodes. Lì, al buio, ho cominciato a giocare con gli accordi. Ero davvero convinto che “non è mai finita finché non è finita”. C’è sempre una possibilità di risistemare le cose: l’essenza della canzone è questa, anche se nella realtà è andata a finire diversamente».
“Flowers for Zoë” (1991)
«Questa è dedicata a mia figlia. Quando la mettevo a letto le cantavo sempre qualcosa. Mi è perciò venuto in mente di scriverle una ninnananna, in modo che ne avesse una tutta sua. Parla del mondo magico in cui è nata e delle cose bellissime che vivrà e imparerà. È un piccolo lavoro di fantasia. È bella, per me è una canzone molto speciale».
“Are You Gonna Go My Way” (1993)
«Questa l’abbiamo incisa in cinque minuti. La mia session in studio stava finendo e doveva entrare un’altra band. Io e Craig Ross ci siamo messi lì e l’abbiamo registrata. Bang. Io suonavo la batteria, lui la chitarra, e al basso c’era il mio bassista dell’epoca, Tony Breit. Praticamente è incisa live. Non avevamo tempo di fare altre incisioni. Ho portato a casa la cassetta e l’ho ascoltata più volte. Non sapevo bene che farmene. Poi sono venute fuori melodia e parole. Pensavo che il tema fosse molto interessante, perché per come l’avevo pensata le parole escono dalla bocca di Gesù Cristo. Insomma, “Are you gonna go my way?” significa “Amerai come faccio io?”. Non avevo la minima idea che quella canzone sarebbe diventata quello che in effetti è diventata. Te lo giuro. Alla radio non passavano niente del genere. E la registrazione è così grezza, è assurdo».
“Believe” (1993)
«Questa canzone rappresenta il modo in cui sono stato cresciuto e quello che mi è stato trasmesso dal nonno materno riguardo la fede. Mi ha insegnato che potevo ottenere tutto quello che ero in grado di immaginare. Tutto nasce dalla fiducia e dalla fede. Sono stato educato secondo la religione cristiana e mio padre era ebreo, sono cresciuto in mezzo a tutto questo. E la canzone rappresenta le mie radici e il mio modo di pensare».
“Fly Away” (1998)
«Ho registrato l’album 5 alle Bahamas prima di avere il mio studio. Un giorno, il tecnico mi portò il suo amplificatore per chitarra. Era un Park, che è molto simile a un Marshall. Ho attaccato la chitarra, ho suonati gli accordi che sarebbero stati di Fly Away e ho pensato: wow, mi sa che ho appena trovato qualcosa di interessante. Così ho iniziato a registrare, da solo, ho suonato batteria, due chitarre e basso. L’album era già finito, quindi non gli ho dato troppo peso. Pensavo sarebbe diventata un lato B o che ci avrei ancora lavorato. Quando accompagnavo Zoë a scuola mettevo su la canzone a tutto volume in auto. Sfrecciavamo sulla strada che costeggia la spiaggia. Bellissimo. E ci piaceva come suonava il pezzo, ma era ancora senza melodia e testo. Poi una mattina, sono arrivati. L’ho fatta sentire a un amico, che mi fa: questa è una hit, devi metterla nel disco. Ma era finito, l’avevo già consegnato. E lui: “Se non la metti mi arrabbio di brutto”. Ho chiamato la Virgin e mi hanno detto che era troppo tardi. L’ho spedita lo stesso, l’hanno ascoltata e hanno fermato tutto per aggiungerla all’album. Ci ho vinto un Grammy».
“American Woman” (1999)
«Un mio amico manager, Guy Oseary, mi ha chiamato per dirmi che stavano facendo un film, Austin Powers: La spia che ci provava. Era il sequel di Austin Powers. Volevano che rifacessi American Woman. Era una richiesta molto strana. Voglio dire, amo quella canzone, sono un fan, ma davvero non avevo la minima idea di che farne. È già perfetta. Poi ho avuto l’intuizione giusta e l’ho fatta in modo radicalmente diverso dall’originale. Alla fine è diventata una grande hit, ha vinto un Grammy e bla bla bla. La cosa più bella è stata quando Burton Cummings dei Guess Who [la band che ha registrato l’originale] mi ha detto: “Mi è piaciuto tantissimo come hai trasformato la canzone, è proprio bella”. La mia versione è diventata talmente popolare da spingere i Guess Who a rimettersi assieme per un tour. E l’abbiamo anche suonata insieme in Canada. “Grazie a questo tour mi sono comprato una casa. È stato l’inizio di una nuova vita”, mi ha detto. Insomma, è stata una cosa vantaggiosa per entrambi, e questo è bello. Ci sono tantissime persone che non sanno nemmeno che la canzone è dei Guess Who».
“Thinking of You” (1998)
«L’ho scritta dopo la morte di mia madre, in un periodo difficile. In pratica, le chiedo come sta, dove si trova adesso e se sta bene. È proprio come te lo immaginavi? Non è stato facile scriverla, mi ci è voluto un po’. E il ritornello parla del mio impegno per renderla felice e orgogliosa: “Penso a te e alle cose che volevi che facessi, ci sto provando” È un bellissimo omaggio a mia madre».
“Bank Robber Man” (2001)
«Stavo facendo una corsetta nelle vicinanze della Bank of America quando c’è stata una rapina. Dissero che era stato un ragazzo nero con una maglietta. E io ero un ragazzo nero con una maglietta che stava correndo. Mi hanno fermato quattro o cinque volanti della polizia, mi hanno puntato la pistola in faccia, messo contro l’auto. In pratica era profilazione razziale. Non mi hanno lasciato andare fino a che una testimone, una donna anziana che era in banca e aveva visto il rapinatore, ha detto che non ero io. Ero parecchio nervoso perché la signora era anziana e aveva visto solo la pelle scura e una maglietta. È stata una situazione diciamo così interessante. Non era la prima volta in cui mi capitava di trovarmi con la polizia che mi punta una pistola alla tempia. Mi è successo almeno tre o quattro volte da adolescente, a Los Angeles, solo perché guidavo un’auto a Beverly Hills. Sono andato dritto in studio e ho registrato questa canzone. Ero incazzato, ecco perché il pezzo è tanto aggressivo».
“A Long and Sad Goodbye” (2008)
«Questa parla di mio padre. Avevamo un rapporto complicato. L’ho scritta prima che morisse e l’ho tenuta lì per qualche anno. Non avevo mai pensato di pubblicarla, ma dopo la sua morte ho pensato che dovevo farlo. Parla della sua infedeltà, di quanto abbia fatto male alla mia famiglia, ma anche di quanto lo amavo e ammiravo. Parla però anche di quanto mi ha deluso. È una canzone molto pesante da scrivere. Infatti non l’ho mai suonata davanti a lui, sarebbe stato troppo difficile. La cosa bella è che ci siamo riappacificati prima della sua morte ed è stato per questo che sono riuscito a pubblicarla. Per poterla suonare avevo bisogno di una sorta di esorcismo, di tirare fuori le mie emozioni. È scritta con amore».
“Black and White America” (2011)
«È la descrizione della mia vita e di quella dei miei genitori. Parla di quello che hanno dovuto affrontare in quanto coppia interrazziale nei primi anni ’60. La copertina dell’album è una foto che mi scattò mio padre alla Public School 6, la scuola che frequentavo a New York. Credo fossi in terza elementare, più o meno. Sono cresciuto a contatto con entrambi i mondi, e quindi la canzone parla dei problemi, delle difficoltà e della bellezza di questa esperienza. Ovviamente parla anche della presidenza di Obama e di cosa abbia significato per me. Mai mi sarei immaginato che un momento come quello sarebbe arrivato. Avevamo un presidente che aveva il mio stesso esatto background. Mi ha fatto ripensare a tutta la mia storia familiare e alla mia vita. Mi ha colpito molto. I miei genitori sono sempre con me. Sento la presenza di mia madre ogni giorno. Sono sempre stato un cocco di mamma. Casa mia è tappezzata delle sue foto ed è piena della sua energia e delle sue cose. Sono molto legato a lei».
“Here to Love” (2018)
«Se invece di tanti inni nazionali esistesse un solo inno mondiale, sarebbe questo. Questa canzone è il mio sogno. La trovo estremamente potente e credo che ogni parola al suo interno sia al posto giusto. Il testo parla di cosa accadrebbe se ci lasciassimo guidare dall’amore. È la cosa più forte che si può dire. Non voglio nemmeno prendermene il merito, è stato un dono».
“Johnny Cash” (2018)
«Quando è morta mia madre ero con Johnny Cash e June Carter, perché in quel periodo vivevamo insieme nella casa di Rick Rubin. Ho vissuto con Rick per molti anni, quella era la mia casa a Los Angeles. Johnny era lì per scrivere un album e mia madre era in ospedale. Appena rientrato da un tour in Giappone andai a trovarla. Poi mi avviai verso casa di Rick per farmi una doccia e mangiare qualcosa. Mia madre spirò mentre facevo il tragitto dall’ospedale a casa. Ero appena arrivato quando ricevetti la telefonata: mi dissero che era morta. Fu uno shock. Rimasi di fronte agli scalini cercando di realizzare la cosa quando Johnny e June mi vennero incontro. Johnny mi vide e mi chiese che cosa non andava. Gli risposi che mia madre era appena morta. Si fiondarono entrambi giù per le scale per abbracciarmi, mi strinsero forte e mi consolarono. Sono stati davvero straordinari, mi hanno dato un enorme conforto che mi ha aiutato a superare quel momento».
«La canzone però non parla della morte di mia madre e nemmeno di Johnny Cash. Parla di una mia relazione che stava finendo. Volevo esprimere il conforto di cui avevo bisogno, perciò quello che è venuto fuori è stato: “Abbracciami come ha fatto Johnny Cash quando ho perso mia madre. Sussurrami all’orecchio come ha fatto June Carter”. Era un modo per dire che avevo un estremo bisogno di essere consolato. Non mi è mai più successo che qualcuno mi consolasse come quella volta Johnny Cash e June Carter».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.