È inquietante il silenzio degli artisti pop italiani dopo la strage di Cutro. La vecchia guardia della nostra canzone ha invece descritto con forza e in tempi non sospetti il fenomeno della migrazione nel tentativo di riflettere e sensibilizzare sul tema. Ne ha descritto le speranze, gli orrori, il coraggio, il riscatto. Non hanno dipinto gli immigrati come vittime, né come eroi, ma come persone, perché immigrati lo siamo e lo siamo stati tutti. Ci hanno fatto salire su quella nave chiamata empatia che è l’unico e ultimo modo per non diventare complici di stragi annunciate. E allora, tutti a bordo.
Titanic
Francesco De Gregori
1982De Gregori è sempre stato sensibile al tema dei migranti. Ricordiamo l’epica Pablo, su un immigrato spagnolo in Svizzera, a cui ha contribuito Dalla, e L’abbigliamento di un fuochista, spaccato senza lieto fine dell’immigrazione italiana in America contenuto in uno dei sui LP più importanti, Titanic. Probabilmente il pezzo più forte nel trasmettere il dramma del migrare è la title track. È un atto di accusa nel confronti del classismo e delle condizioni spaventose dei passeggeri di terza classe, immigrati che cercavano di arrivare in America “per non morire” e che nonostante il trattamento quasi carcerario sentono il cuore pieno di euforia e speranza per una vita migliore. In prima classe invece c’è chi può pagare per avere (“Signor capitano mi stia a sentire/ ho belle e pronte le mille lire”) e va in America “per sposarsi”, non certo per una questione di vita e di morte. Il naufragio del Titanic sarà un terribile tuffo nella realtà per ogni passeggero, ma non una livella: il 90% dei passeggeri del Titanic erano infatti immigrati e dei passeggeri di terza classe se ne salverà solo un terzo. De Gregori lascia degli indizi a proposito dell’iceberg in avvicinamento, che in realtà è già dentro di noi: nel bicchiere dei brindisi in prima classe, negli occhi del fanciullo danzante notato dalla ragazza di prima classe e persino nel cuore di quelli in terza classe, che però – e qui sta la differenza – più si avvicina al sogno americano, più si scioglie.
Torneremo ancora
Franco Battiato
2019Prima di morire, Franco Battiato ha scritto una canzone talmente potente da aver superato Povera patria. È il pezzo sull’immigrazione che nessun altro è riuscito a fare. Scritto con Juri Camisasca, Torneremo ancora parte dal concetto che siamo tutti migranti destinati a reincarnarci, a emigrare in un altro corpo, in un’altra realtà fino al raggiungimento della propria casa madre. È già scritto nel cosmo. “Migrano gli uccelli emigrano / con il cambio di stagione” cantava Battiato in Gli uccelli, uno dei brani di punta de La voce del padrone, esempio primo di creature che in sé “nascondono segreti del nostro sistema solare”. Battiato rincara la dose con “l’ira funesta dei profughi afgani” in Cuccurucucù e prevede spostamenti di massa in L’esodo. In Torneremo ancora racconta con un filo di voce quello che sarà il suo prossimo futuro di anima in viaggio. E con le corde vocali rotte di commozione sembra proprio un migrante che dopo l’ennesimo rifiuto non si arrende e che è pronto a salire su un’altra barca, alla ricerca della libertà. La canzone avrebbe dovuto chiamarsi I migranti di Ganden, che è tra i più importanti monasteri, patrimonio culturale del Tibet: in seguito dell’annessione di quest’ultimo alla Repubblica Popolare Cinese, furono costretti all’esilio e il monastero venne danneggiato, per poi esere ricostruito. Non ci sono decreti che possano fermare le migrazioni: “Finché non saremo liberi / torneremo ancora, e ancora, e ancora”.
Straniero
Lucio Battisti
1982Straniero spiega in modo chiaro cosa pensava Battisti dell’immigrazione. Contenuto nel suo disco elettronico per eccellenza, ovvero E già, e quindi avvolto in un’algida patina ad alta definizione, ha un testo di profondo altruismo che va oltre l’idea di accoglienza spicciola. Si tratta di un’amicizia che nasce proprio nel conoscere “l’altro da sé”. Battisti vuole sapere le peripezie di quel “volto scuro” sul quale “un sorriso è nato / un profumo di grano maturo/ il vento ha accarezzato”. Ce l’ha fatta, il treno con cui è partito è un ricordo oramai: “non andare via, qui sei rinato / il posto l’hai trovato” è l’invito accorato di Battisti, che in questo disco probabilmente scriveva di suo pugno i testi con la moglie (qui indicata come Velezia). Battisti aveva talmente a cuore questo brano che lo scelse come lato B del singolo E già, giunto al secondo posto nella classifica italiana.
Pronti a salpare
Edoardo Bennato
2015Edoardo Bennato è sempre stato un anarchico in cerca più di dubbi che di certezze, da sempre contro il potere e da sempre sabotatore di quest’ultimo, a volte in maniera ficcante, a volte naïf. Una delle sue scivolate fu, nel 2018, un selfie post concerto con Salvini. Inutile dire che Bennato fu messo pubblicamente in croce: lui rispose incidendo un brano esclusivamente per YouTube in cui rimandava ai mittenti le accuse, ma avrebbe potuto anche farne a meno. Perché se è possibile accusare di leghismo uno che ha scritto un pezzo come Pronti a salpare, beh, allora vuol dire che non si è capito proprio una mazza. Stupisce tra l’altro che il brano sia uscito nel 2015, quando magari da Bennato non ci si aspettava più granché. E invece il testo (“Pagamento in contanti / Pronti a salpare / Senza farsi troppi conti / Sulla barca sono in tanti / Pronti a salpare / Sulla via della speranza / Non ci si può disperare / Pronti a salpare”) è un inno blues al coraggio di ricominciare, a quelli che sono “condannati a rischiare”. Ma nello stesso tempo Bennato ammonisce anche noi occidentali, i privilegiati, perché presto “la pacchia finirà” e dovremo salpare pure noi ed essere pronti a farlo. Perché “resta il mondo da cambiare” e lo può fare solo chi – appunto – sa navigare in alto mare, verso l’ignoto.
L’operaio Gerolamo
Lucio Dalla
1973Lucio Dalla non poteva essere indifferente alla tematica della migrazione. Soprattutto con i testi di Roberto Roversi tocca picchi inarrivabili. Pensiamo a L’auto targata TO sull’emigrazione dei meridionali al nord Italia per lavorare nelle fabbriche, trattati come bestie da soma. Ma soprattutto, pensiamo al pathos di L’operaio Gerolamo che narra il continuo movimento di un immigrato per sopravvivere, una costante fuga per non essere mangiato da una belva feroce, che è appunto il capitalismo. L’emigrare da un paese all’ altro, il trovarsi perennemente senza una casa da chiamare tale, costretto a mangiare la polvere, a dormire in una baracca senza luce, abbandonare i propri cari per alienarsi di lavoro da Torino alla Germania, dalla Germania alla Francia, dalla Francia alla matrigna “Malano” fino all’epilogo della morte, ucciso per mano del suo stesso padrone. Roversi scrive come in trance, come posseduto dallo spirito di una vittima – anzi forse più di una – delle fabbriche, Dalla apparecchia una specie di mantra postumano, con un finale devastante in cui l’orrore della macchina simboleggiato da un sintetizzatore spietato e glaciale – lo stesso effetto glide di Metropolis dei Kraftwerk, ma ben cinque anni prima – fagocita “un altro al posto mio è già arrivato”, in un continuo, reiterato sfruttamento di migranti da parte di un sistema economico che dà la libertà solo a chi può comprarsela.
Oltre il confine
Antonello Venditti
2011Venditti ha bene o male sempre scritto canzoni di solidarietà e a sfondo sociale. Sul tema emigrazione, ad esempio, la struggente Il treno delle sette ne Le cose della vita. Quello era un grande disco in cui – solo voce ed Eminent – Venditti toccava l’apice del “no compromise”. Poi negli anni è diventato patinato, rassicurante, per pantofolai. Nonostante questo, nel 2011, scrive questa canzone semplice ma efficace, senza retorica vittimista ma dal punto di vista di un migrante che è riuscito a toccare terra, il cui rischio è stato premiato dal destino: viene accolto da una mano sconosciuta, dalla lingua a lui ignota, che lo tira su dal mare, “qui sei al sicuro… vai”. Mosso dal desiderio di costruire “una nuova città”, proprio su quel confine che lo respinge, in alto mare alla ricerca della libertà, che assume un significato quasi religioso perché inseguita “con l’aiuto di Allah”. Fare nascere i figli lontani dall’orrore dei fondamentalisti, “in un’altra realtà”, è per loro un dovere morale. Venditti insiste sui ragazzi, perché solo loro possono costruire un futuro senza bandiere né muri, e senza distinzione di razza.
Senza frontiere
Pooh
1988I Pooh, tramite i testi di Valerio Negrini, hanno sempre lanciato messaggi contro le frontiere, le bandiere, il militarismo, e soprattutto a favore del viaggio come cambiamento, come salto nel vuoto che può diventare il più grande dei tesori (ascoltare ad esempi Passaporto per le stelle e Per noi che partiamo). Nel 1988 scelgono come canzone trainante del disco Oasi un pezzo altamente politico, un brano pop ispirato al glam metal, dall’esplicito titolo Senza frontiere, in cui Negrini dice che Milano sta per trasformarsi in Pretoria, prevedendo l’ascesa di un’allora in erba Lega Lombarda, poi Lega Nord, e di una serpeggiante intolleranza verso gli immigrati di colore (“la piccola gente vi guarda male / fa finta di niente ma non vi vuole / futuro qui non ce n’è”). Oltre a ricordare al gentile popolo italiano che “anche a noi… ci hanno fatto emigrare / anche a noi neri dentro la pioggia ci hanno fatto spogliare” e a tirare frecciate all’Europa che fa la vaga (“siete qui naufragati tra noi / da frontiere lontane / (…) nella libera Europa / a dormire in stazione”), Negrini amplia la questione anche a “barriere di lingua di razza e sesso / e intanto il 2000 ci cade addosso / e non impariamo mai”. Il ritornello indica la via: “Dammi speranza in un tempo migliore / con gli occhi aperti ma senza frontiere / e dove non comandi la pazzia / di qualunque parte sia / nel mondo non saremo uguali mai / ma il mondo è tutti noi”. Alla faccia del gruppo nazional-popolare…
Tutt’ egual song’ ‘e criature
Enzo Avitabile
2004Grande amico di Battiato, Enzo Avitabile tocca l’argomento più importante quando si tratta di guerre, catastrofi e quindi di emigrazione: i bambini. Costretti a perdere la loro innocenza, con i fucili in mano in Afghanistan, comprati dagli occidentali per abusarne, affamati in Africa. La soluzione è quindi partire, cercare un futuro diverso per loro perché “tutti uguali song ‘e criature / nisciun è figlio e nisciuno / tutti nati dall’ amore / si sa come si nasce ma nun se sape come se more”. È meglio rischiare che rimanere schiavi di un avvenire che non ci sarà mai. La canzone parla di profughi bambini, in modo non troppo esplicito, con l’intelligenza di evocare la fuga con la cruda descrizione della durezza della vita di queste creature innocenti. Non a caso Avitabile ha dedicato recentemente il pezzo ai bimbi e alle mamme ucraine in lotta per la sopravvivenza, in marcia verso confini da superare che sono già una speranza di salvezza.
Aprite le città
Nada
2016Nada è sempre stata una cantante/autrice senza peli sulla lingua, capace di avere una credibilità underground anche venendo dal manistream proprio per la tenace attitudine “ostinata e contraria”. E anche nel disco L’amore devi seguirlo c’è una spinta verso il migrare altrove, per salvarsi la vita. Aprite le città è uno dei brani di questo lavoro di alternative rock acustico minimale, messo su inizialmente dalla sola Nada usando GarageBand. È un’invocazione potentissima: smettiamo di fare tanti discorsi inutili, non ci arrampichiamo sugli specchi, non troviamo scuse alla nostra codardia, apriamo tutto, accogliamo l’altro da noi, salviamo invece di affondare, buttiamo giù i muri e siamo solidali con chi – un giorno – potremmo essere noi. È un messaggio universale, ma Nada ha spiegato che c’è molto di specifico: “Di fronte alle file chilometriche dei migranti, ai bambini che muoiono in mare, alla gente che non ha una terra in cui vivere, io dico di aprire le città, di spalancare le braccia”. Il Gennaro della canzone rappresenta l’outsider, il disadattato, l’inquieto, quello i cui parenti una volta emigravano per cercare l’America e che oggi rimane nella sua terra per accogliere gli altri. C’è una parte nel testo di Nada sul fatto che l’immigrazione è sempre stata parte della vita e sempre lo sarà: “C’eravamo conosciuti milioni di anni fa, ci siamo ritrovati oggi qua / e la storia non cambia / il discorso s’infanga tra le frange dell’anima / nella libertà”.
Le promesse del mondo
Flavio Giurato
2017Flavio Giurato è un genio del cantautorato italiano e un completo outsider, un visionario che ha pagato a caro prezzo le sue scelte di libertà. Il suo barcone è stata la musica sul mare in tempesta del mercato discografico, e non molti gli hanno teso la mano (i due grandissimi cult La scomparsa di Majorana e Marco Polo lo hanno anzi quasi fatto naufragare). Le promesse del mondo descrive la condizione del migrare. Che siano della Marina Militare, che siano spettatori, che siano scafisti, che siano fautori di porti chiusi o aperti, che siano bianchi neri o gialli, tutti fanno parte del naufragio chiamato sfruttamento economico. Giurato si ispira alle stragi di clandestini intorno a Ragusa e usa un linguaggio tra realismo sociale, psicanalitico e onirico. Versi come “Sul barcone incendiato / ma chi cazzo ha partorito? / Buttatelo in mare / che non ha pagato” sono una coltellata. I soccorritori della Marina pattugliano, si danno coraggio, salvano il salvabile, entrano anche in paranoia “la condizione appare disumana / coraggio cazzo / siamo la Marina Militare italiana”. Chi viene salvato si ritrova ben presto a cogliere pomodori, col collo piegato e sottopagato. “Le promesse del mondo / le vedo ora / che il viaggio è naufragato”. Finché non ci sarà giustizia sociale, nessuna promessa di cambiamento sarà umana. Ed è questo il nodo su cui riflettere, per non dover vedere più un’altra Cutro.