Dicono che X Factor sta morendo. È una diagnosi che si legge da qualche anno, tra media sociali e asociali. Viene motivata dai cali di ascolti, la puntuale sparizione nel nulla dei giovani artisti apparsi nel circo pop di Sky, la sempre minore #viralità dei suoi momenti clou. Pare di capire che non sia servito mettersi all’occhiello presumibili esperti di hit come Sfera Ebbasta, Emma Marrone, Rkomi: evidentemente, nemmeno tutti i soldati e tutti i cavalli delle classifiche italiane possono rimettere insieme il piccolo regno in declino. Chissà, forse la fioritura dei Måneskin cinque anni fa ha inaridito la sorgente di X. Un po’ come Alberico con l’oro del Reno, la band romana è fuggita con tutto lo hype di una trasmissione che aveva messo la figosità musicale al centro della propria chiesa – a differenza dei trionfanti DeFilippistan e Sanremo, che a qualsiasi cosa hanno sempre anteposto la tv e il suo target principale: la famiglia italiana e la sua voglia infinita di pummarola emozionale. In questo lustro, hanno tratto lustro da X Factor solo giudici e autori: a pagare per il lungo funerale della X sono i concorrenti.
Per questo, il solito critico che non guarda X Factor (e non per mancanza di tv in salotto: c’è, e contiene tante app idiote) si domanda: la X, sapendo di avere le ore contate, ci lascerà con un bang, o con un gemito? Giudici e autori saranno riusciti a portare i finalisti al traguardo di una canzone che ricorderemo almeno per un po’? Nella totale ignoranza di percorsi e comfort zone, coreografie e attitudini, questo è ciò che è arrivato al critico in questione dall’ascolto “alla cieca” degli inediti che verranno presentati nella puntata di stasera, giovedì 17 novembre.
“Matto” Omini
Ah, che secchiata di Yungbludismo – e volendo, anche di MachineGunismo. Al primo ascolto è irritante, al secondo – quello distaccato e zen – ricorda migliaia di altri pezzi piaciucchioni vecchi e nuovi e facilmente assimilabili, cosa che peraltro nella logica della musica in lattina non è un male (a meno che non compriate una bibita in lattina sperando in un sapore a sorpresa). Per chiunque abbia più di 17 anni, niente di interessante tranne una cosa: il testo. Estrapolandolo da una musica tutta suonata in maiuscolo, potrebbe essere adattato con effetto straniante a un accompagnamento acustico desolato alla Luigi Tenco. Chi lo sa: forse in anni meno cretinetti, gli Omini – chiunque siano – avrebbero potuto giocarsi meglio le loro cartine.
“Non è così male” Santi Francesi
Qui invece c’è del Cosmo, e altre piccole stelle di quel cosmo (Margherita Vicario, La Rappresentante di Lista) verso il quale il pubblico italiano alza gli occhi di rado, quello della dance decente con i testi struggenti. Di non aver preso la strada del consenso virale lo sanno benissimo da soli: il sentiero che hanno preso è rischiarato solo a tratti da qualche fugace meteora. Ma non è così male.
“Fiori sui balconi” Linda
Qualcosa non torna – la canzone sembra il vestito di qualcun altro su una persona che non sapeva cosa mettersi a una festa. Troppe furbizie da producerz nell’arrangiamento e da fabbrichetta di pucciosità pop nel testo. La voce tenta eroicamente di rendere il tutto convincente. Potrebbe riuscirci, anche i fiori finti fanno la loro figura sui balconi giusti.
“DCP” Disco Club Paradiso
Pare di sentire il tema principale di uno sbarazzino film italiano sui giovani italiani di trent’anni fa, con la partecipazione amichevole e italiana di Umberto Smaila nella parte dell’adulto italiano simpaticamente complice dei nipoti scavezzacollo ma simpatici, e soprattutto italiani. Curiosamente, come spesso succedeva con molte canzoni italiane di quel periodo, ricorda in modo sospetto un pezzo non italiano (Watermelon Sugar di Harry Styles), ma sappiamo tutti che quel che conta è la simpatia.
“Molecole” Lucrezia
C’è dell’ambizione, ma anche un approccio vocale dolente da incompresa del liceo. Ma prima di considerarlo un aspetto negativo, ragioniamo: quanti sono, in Italia, gli incompresi all’interno delle scuole secondarie di secondo grado – generalmente note come scuole superiori? Ogni classe ne comprende – senza realmente comprenderli – almeno due (che non si comprendono realmente tra loro) e arrotondando per farla breve, là fuori c’è un pubblico potenziale di 100 mila utenti dolenti che magari non interessano ai brand ma alla fine sulle piattaforme di streaming contano realmente qualcosa, sono molecole che unite generano una forza dolente.
“Sopravvissuti” Joėlle
Qui è dove ipotizziamo che Nanni Moretti (è un regista, casomai googlate) avrebbe potuto dire: «Ma dove siamo, in un disco dei Coldplay?».
(Qui è dove ci fermiamo e controlliamo che faccia fate quando appare il nome Coldplay).
Qui è dove scriviamo: «Bleah, i Coldplay, vade retro, hanno rovinato il pianeta, essi debbono ardere per li loro infiniti peccati».
Qui invece è dove scriviamo: «Averne di Coldplay, oh – magari non proprio tutta la produzione però provate ad aprire la top 50 di Spotify ora, poi ne parliamo».
Qui è dove, qualunque faccia abbiate fatto, concludiamo: «Quindi, in definitiva, vedete un po’ voi».
“Se$$o” Beatrice Quinta
$entito il $ound, $pogliarsi $arebbe $oluzione $agace: $alverebbe la $ituazione.
“Cringe Inferno” Tropea
Sembra il pezzo di una tribute band di Amanda Lear. C’è della filologia, a partire dal fraseggio, però anche nel testo e nell’immaginario traspare una mezza intenzione di scavare un tunnel che dal 2022 porti agli anni ’70. Cioè, in definitiva, a X Factor.