«Era un periodo in cui mi impegnavo tantissimo, mi allenavo continuamente. Passavo giornate intere ad ascoltare i dischi di Charlie Parker e Dizzy Gillespie per studiarne la lunghezza dei fiati. Ero pazzo». Questo racconta Gigi Proietti nell’autobiografia Tutto sommato qualcosa mi ricordo a proposito dei suoi esercizi per irrobustire l’emissione vocale, di fronte di un padre, già allibito per la sua scelta di fare teatro, che lo guarda praticare allo specchio.
La dipartita di Proietti nel giorno del suo compleanno, che sa di eterno ritorno più che di morte, è stata un duro colpo per il teatro italiano e soprattutto per quello romano. Proietti era uno dei re di Roma che incarnavano perfettamente quel misto di vitale anarchia, cazzeggio, pigro nichilismo e verace “core” infaticabile degli abitanti della capitale, la cui vita – così come quella dei napoletani che Gigi tanto amava – è come un palco sul quale recitare. È vero anche che Proietti, prima che attore, è stato cantante e musicista. I suoi esordi sono infatti caratterizzati da lunghissime notti nei night club, cantando per mantenersi durante gli studi dalle 10 di sera alle 4 del mattino, tra americani impaccati di soldi ai quali “solava” cospicue mance “‘mbriacandoli” preparando lo spumante con le polverine (stratagemma antesignano delle varie mandrakate). Era una passione che aveva fin da ragazzino: da piccolo era abile con la fisarmonica, il contrabbasso, il pianoforte e non disdegnava la chitarra. Insomma, un musicista completo che poi passa al teatro quasi naturalmente, a ragione della sua maggiore forza performativa, in cui più mondi possono interagire.
Vogliamo quindi ricordare il Proietti cantante e autore, che ci ha lasciato canzoni che, oltre ad essere patrimonio di tutti, sono anche la perfetta e particolare diapositiva di un uomo in cui il tragico e il comico e il popolare andavano a braccetto con la sperimentazione (ricordiamo le sue collaborazioni con Carmelo Bene e col teatro off, esperienza che magicamente riuscirà a inserire in un più ampio spettro “di massa” senza snaturarne l’impatto straniante).
“Nun je da’ retta Roma” (1973)
La canzone simbolo del film Tosca diretto da Luigi Magni nel 1973 rappresenta uno dei picchi del film in cui Proietti interpreta Mario Cavaradossi il quale è confinato nel 1800 a Castel Sant’Angelo per aver dato rifugio al patriota evaso Cesare Angelotti, che si suiciderà per non cadere nelle mani della polizia pontificia. Quest’ultima però lo impiccherà da morto per dimostrare la sua efficienza e per terrorizzare il popolo. Nella canzone il protagonista dialoga con Roma invitandola alla rivolta: Roma risponde facendo muro, incastrata nel suo fatalismo e nel facile autocompiacimento dei suoi stornelli, ovvero il passato.
È un brano ancora attualissimo nella sua analisi politica, all’epoca conteneva una stoccata alle autorità italiane e non è difficile vedere delle allusioni al caso Pinelli e a molte altre pagine nere della nostra Repubblica. Un must, ovviamente, per la splendida musica di Armando Trovajoli e i testi taglienti dello stesso Magni, ma soprattutto per la grandissima interpretazione di Proietti, che rende il pezzo un commovente classico della canzone romana. Un classico scomodo, però, cui infatti non sempre è stata resa la giusta importanza: e per questo ancora più prezioso.
“Lettera ad un amico” (1974)
Brano di ampio respiro che sarebbe stato bene nel repertorio degli Stereolab stile Space Age Bachelor Pad Music, è una canzone in cui Proietti interpreta due voci dello stesso personaggio, quella interiore e quella della lettera (forse ispirandosi al “doppio” contenuto in Pensieri e parole di Battisti). Una lettera scritta a un amico al quale Proietti “scippa” la ragazza, nelle cui righe confessa la faccenda. D’altronde l’amico ha scelto la carriera al posto dell’amore e sardonicamente Proietti canta “divertiti col tuo lavoro” . La cosa interessante di questo brano (scritto da Vito Tommaso e lato B dell’intensissima e mezza prog Che brutta fine ha fatto il nostro amore) è che è probabilmente servita come base di partenza per L’anno che verrà di Lucio Dalla (“Caro amico ti scrivo…”) pubblicata molto più tardi, nel 1979. L’apertura melodica è molto simile, così come il tema della lettera sembra preso di sana pianta. Proietti d’altronde a Una storia da cantare leggerà il testo di Disperato Erotico Stomp di Dalla come fosse un suo testo teatrale, per ricambiare e ricordare l’amico.
“Me so’ magnato er fegato” (1975)
Uno dei pezzi più belli quanto più amari di Proietti inizia come una specie di ricordo di un amore che inizia alla grande, con la caratteristica ironia dell’attore, fatta di piroette linguistiche in dialetto e guizzi surreali: “T’ho incontrata / Mo non me aricordo quanno / Me dicevi che parevo un Marlon Brando”. Tutto bene, poi improvvisamente il brano prende una piega diversa, la storia d’amore finisce in disastro con il nostro che non può più fuggire da questo “amore utopico” perché “ma chi me vole / ma nemmanco mamma mia”.
La melodia malinconica a presa rapida e il generale tono dark del pezzo sono opera, udite udite, di un giovane Claudio Baglioni affiancato dal suo storico paroliere Antonio Coggio. Proietti forse è tra i primi a capire il valore del giovane “cantastorie dei giorni nostri”, che in effetti ha sempre avuto nelle sue musiche quella patina romantica da stornello romano, da serenata. Nel 1975 Baglioni è già una star, ma il pezzo, scritto nel 1972, era stato rifiutato sia da Nada (la quale lo recupererà solo negli anni ’90), sia da Monica Vitti. Viene recuperato nel 1975 da Proietti che lo adatta al maschile e ne fa uno dei suoi brani più accorati. I due duetteranno eseguendo il pezzo nel 1999 per il programma tv L’ultimo valzer, in perfetta simbiosi romana.
“Ballata di Carini” (1975)
Sempre nel 1975, Proietti interpreta la sigla iniziale dello sceneggiato tv L’amaro caso della baronessa di Carini di Daniele D’Anza, un poemetto di tradizione orale siciliana musicato da Romolo Grano (tra le altre cose anche autore elettronico e sperimentale), imparando le parole dopo una prova soltanto e incidendo direttamente il giorno dopo quella che è una delle sue interpretazioni più potenti di sempre. Lo sceneggiato narra appunto di un delitto cinquecentesco per motivi d’onore nel quale la baronessa perde la vita per mano del padre: molti dei ragazzini d’epoca appena ascoltavano la sigla d’apertura avevano la pelle d’oca e venivano subito proiettati nel dramma grazie alla potenza vocale di Proietti che, a volte, oltre a fare ridere, sapeva anche fare paura come tutti i grandi interpreti.
“Sono un uomo semplice con i peli sul petto” (1976)
Nel 1976 Proietti canta il brano portante dell’assurdo film Languide baci… perfide carezze di Alfredo Angeli, in cui Gigi è protagonista. Il pezzo è scritto dagli Oliver Onions (ovvero Guido e Maurizio De Angelis), la supercoppia famosa per le colonne sonore di Bud Spencer e Terence Hill. Gigi in questo brano sembra imitare lo stile di Louis Armstrong, pronunciando parole incomprensibili come filtrate elettronicamente (ma il filtro è invece prodotto dalla stessa ugola di Proietti, tecnicamente al top della forma), una specie di brano proto demenziale che rimane uno dei più curiosi e misconosciuti del suo repertorio.
“Er tranquillante nostro” (1972)
Tra i brani qui citati non poteva mancare quello che è diventato un pezzo di culto per tutti i “beoni”. Eppure Proietti di questo brano conservava ricordi sbiaditi, rimanendo quindi sorpreso per il successo a posteriori, sorte che è toccata anche al film Febbre da cavallo, all’epoca un flop e poi diventato un classico della commedia italiana. Ebbene Il tranquillante nostro vede Proietti in stato di grazia interpretare perfettamente il testo del regista Marcello Ciorciolini, scritto nel 1972 durante il periodo del film Meo Patacca di cui quest’ultimo era regista e Proietti protagonista. Il brano recita parole non solo profetiche oggi, ma probabilmente sempre valide: “So proprio ritornati i tempi cupi / De quanno se viveva in ansietà / Qua tutti so nevrotici e puro pisicastenici/ Noi invece n’semo gnente e sai perché? / Er tranquillante nostro è solo er vino zumpappà”. Che altro aggiungere? Un brindisi alla tua, Gigi!
“Il piacione” (1982)
Brano atipico nella produzione di Proietti, Il piacione è un gajardo pezzo simil disco del 1982, con spruzzate di elettronica e sintetizzatore, a cura di Lerici e del grande compositore Gianni Ferrio (il preferito di Mina per intederci). Il testo si riferisce ai personaggi che oggi potrebbero essere considerati “acchiappalike”, quelli cioè che cercano di ottenere il più alto gradimento rubando di qua e di là e seguendo le tendenze di massa in maniera acritica e meramente strumentale. Proietti spinge sulla sua vena black, a volte anche citando/imitando le performance vocali di Rino Gaetano, lanciandosi a gamba tesa nel moderno.
“Cesso” di Pippo Franco (1981)
Non molti sanno che Proietti è stato anche un papà del punk, come testimonia un vecchio video ritrasmesso da Rai Storia in cui si prodiga in un pezzo contro la produttività assassina di Milano, con parole forti come “perché la nebbia è la nostra cocaina”, brano che parte come un tipico stornello per poi diventare uno schiacciasassi quasi hardcore, ovviamente tutto solo voce e chitarra classica. Questo stesso spirito iconoclasta si ritrova anche in alcune collaborazioni storiche, come quella con Pippo Franco che produrrà un grandissimo disco, un classico della canzone demenziale, ovvero Cara Kiri. Cesso è uno dei brani di punta dell’LP, in cui con una serie di doppi sensi una canzone d’amore si trasforma in un’ode alla defecazione. È scritta a quattro mani con Franco, ma l’ago della bilancia nelle invenzioni linguistiche e nei paradossi esilaranti pende dalla parte di Proietti: ascoltatela e non avrete alcun dubbio.
“La vita è un’osteria” (1975)
E per finire, non potevamo non mettere il lato B di Me so’ magnato er fegato. La vita è un’osteria è il testamento di Proietti (che figura tra gli autori), una riflessione agrodolce sul tempo che passa, sulla solitudine, sulla vecchiaia e quindi sulla morte: che va accolta come un aspetto della vita che passa dentro come il vino “che sta vita è un’osteria / si ce pensi è na bottega / poi si chiude e così sia / che sta vita è come er vino / più lo bevi e più te frega / da mbriachi è na poesia”. E allora grazie ancora Gigi, per tutta la poesia che ci hai donato, ‘mbriacandoce della tua arte.