Rolling Stone Italia

Non smetteremo mai di guardare ‘Get Back’

Le battute e i battibecchi, i capolavori nati dal nulla, le conversazioni segrete, la paura della fine, ma soprattutto la gioia: ecco i 24 momenti più esaltanti del documentario di Peter Jackson sui Beatles

Foto: Linda McCartney/Apple Corps Ltd.

È uscito da pochi giorni, eppure il mondo prima di Get Back è già un lontano ricordo. La docuserie di Peter Jackson è finalmente arrivata su Disney+ e ci ha regalato una sorpresa dopo l’altra. C’è tanto da assorbire. Tanto da discutere. Prendete dieci minuti a caso dal film e troverete un’infinità di frasi da citare e dettagli musicali difficili da cogliere alla prima visione. Ma statene certi, questo non è un evento che si dimenticherà in fretta. Get Back è un instant classic che i fan continueranno a guardare e riguardare per anni.

Nelle prime recensioni si è cercato in tutti i modi di evitare gli spoiler. Non è stato facile, visto che in quelle otto ore ci sono segreti a cui nessuno aveva mai accennato, neanche tra i fan più accaniti (alcuni hanno a che fare con microfoni nascosti in una pianta). Ma ora che la docuserie è uscita, siamo liberi di svelare tutto. Ecco 24 momenti che rendono Get Back un’esperienza al pari di Anthology o A Hard Day’s Night, qualcosa che ci porteremo dietro per sempre.

1. Il concerto sul tetto, la gioia di vedere Maureen Starkey, la moglie di Ringo, che muove la testa a tempo con Get Back. Nessuno su quel tetto era più fan di Mo. Era una delle ragazze scatenate del Cavern Club, l’unica persona lì ad aver fatto la fila e pagato il biglietto per vedere quella band (la prima volta che ha incontrato Ringo gli ha chiesto un autografo). Aspettava quel concerto da anni. Alla fine, Paul si gira e le dice «grazie, Mo». È un momento splendido che riassume tutto quello che erano i Beatles e anche quello che rappresentano adesso, ed è per questo che la loro storia non verrà dimenticata.

2. Poco dopo lo show, i Beatles sono tutti in sala missaggio. Sono stanchi e sollevati. George sospira, dice che «non ci saranno più concerti sul tetto». Ma si vede anche che Paul e Mo sono gli unici davvero tristi. Poi parte la musica. George chiude gli occhi e va in paradiso. John sorride. Ehi, quelli siamo noi. C’è un’inquadratura straordinaria dei loro piedi che battono a tempo. In un attimo la stanza è piena di tante Maureen Starkey. Le dobbiamo ogni cosa.

3. Quando lavorano a possibili armonizzazioni per Don’t Let Me Down John è contento, Paul anche. George borbotta: «Penso che siano orrende, in realtà». E finisce lì, per fortuna. Più avanti il regista propone di fare lo show su una nave da crociera. George risponde: «È un’idea totalmente folle». Rispetto per George, sempre pronto a fare il leader antipatico quando ce n’era bisogno.

4. Il premio per la persona più insopportabile di questo film (e di molti altri) va a Michael Lindsay-Hogg, il regista del documentario del 1970 Let It Be. Non riesce mai a capire quand’è il momento di tacere, anche quando i Fab alzano gli occhi al soffitto di fronte alle sue assurde idee («Perché non fare il concerto in un orfanotrofio? Cosa ne pensate?»). Dopo aver visto Get Back, sembra che l’atmosfera amara di Let It Be fosse frutto delle idee di MLH. Era nervoso, così ha fatto un brutto film. Oggi la sua presenza è una piccola nota a margine nella storia di Get Back.

5. Una mattina Paul arriva con un riff in testa, lo accenna mentre George e Ringo gli sbadigliano in faccia. Poi se ne accorgono. George inizia ad accompagnarlo. Ringo batte le mani. Stanno scrivendo Get Back sul momento. Ma che diavolo succede? Qualunque sia il reale valore del pezzo (non è tra i miei preferiti), si vede che amano suonarlo. Quel riff era come un club in cui potevano divertirsi e conversare. «Un pezzo semplice», come direbbe George Martin (prometto che non dirò nient’altro di brutto su MLH, ma com’è possibile che abbia tolto questa scena dal suo Let It Be? È una specie di sabotaggio).

6. Ma quand’è che George ha iniziato a usare il cravattino? Non me n’ero mai accorto, ma per un po’ sembrava davvero una fissa. Il suo gusto in termini di scarpe e cappelli da mago è impeccabile. Detto questo, è George Harrison nel gennaio del 1969, poteva indossare qualsiasi cosa e sarebbe stato figo.

7. Parliamo di un’altra bomba: dopo l’abbandono di George, John e Paul si appartano per parlare in segreto, solo loro due. Non sanno che la pianta sul tavolo è microfonata. Ho gridato da solo nel mio appartamento, esattamente come quando ho visto la scena del cameriere nei Soprano. Eticamente discutibile, ma wow. Eccoci qui ad ascoltare quella conversazione privata. John dice che il poco rispetto per George ha causato «una ferita che si è infettata» e che «non gli abbiamo dato nulla per medicarla». Una settimana fa nessuno sapeva dell’esistenza di quella conversazione, e nessuno poteva immaginare quanto fosse empatica, pura e onesta. È così che parlavano quei due? Sì, è proprio così. Sì, è tutto vero. È intenso, soprattutto quando Paul specula su un futuro che tutti meritavano. «Quando saremo vecchi andremo d’accordo. E canteremo tutti insieme».

8. È esilarante vedere i Beatles prendersi in giro tutto il giorno, e allo stesso tempo rimettere a posto chiunque guardi storto uno del gruppo. Quando Glyn Johns chiede a Ringo di mettere una sordina per smorzare il suono della batteria, John grida: «L’unico che smorza qui sei tu, Glyn Johns!». Dopo alcuni commenti dalla regia, Paul e John dicono: «Siamo delle star, sapete» e «senti, testa di cazzo, non giudicare!». Mi hanno fatto venire in mente una delle mie frasi preferite di John, direttamente dall’intervista per Rolling Stone del 1970: «Io sì che posso prendermela coi Beatles, non permetto che lo faccia Mick Jagger».

9. Billy Preston. Tutto cambia non appena entra in scena. Si siede al piano elettrico e trasforma Don’t Let Me Down, mentre John grida: «Ci stai tirando su, Bill!». Un’altra scena figa: John e Billy trasformano il discorso “I have a dream” di Martin Luther King in I Want You (She’s So Heavy).

10. Un altro dei miei momenti preferiti dura giusto un paio di secondi. Ringo viene preso in giro dagli altri dopo aver ordinato purè di patate per pranzo, così fa una faccia triste per la telecamera, poi sfodera un sorriso fantastico. Penserò a quel sorriso per il resto della vita.

11. Paul è talmente fan dei Beatles da inventare le sue fan fiction. Suonando Two of Us, nota come quelle canzoni sembrino parte di un concept album. «È come se dopo Get Back stessimo tornando a casa… c’è una storia! E poi c’è Don’t Let Me Down». La risposta di John: «Sì, è come se fossimo due amanti». Paul: «Sì». Mentre parlano si spostano nervosamente i capelli dal viso. George e Ringo cercano con pessimi risultati di ignorare la conversazione, ma se non altro ci provano. Penserò a questa scena per il resto della vita.

12. Mal Evans, road manager e factotum del gruppo, ruba la scena a tutti. È evidente quanto sia fidato e necessario. Recuperava le chitarre. Teneva a bada la polizia. Il suo momento migliore: l’espressione sorpresa quando Paul gli dice «abbiamo bisogno di un martello e di un’incudine» (in più, ora abbiamo la prova visiva che a tutti i Beatles Maxwell’s Silver Hammer piaceva davvero moltissimo, almeno il primo giorno in cui l’hanno suonata).

13. John canta una versione alternativa di Friendship di Cole Porter, un brano reso famoso da Judy Garland. “If you’e ever in a jam, here I am / If you’re ever in the shit, grab my tit!”.

14. Quando Peter Jackson pubblicherà la sua versione di 18 ore, dovrà assolutamente inserire le riprese complete di George che canta Mama, You Been on My Mind e I Threw It All Away di Bob Dylan. L’audio gira da tempo come bootleg, ma vedere George sarebbe un’esperienza del tutto diversa.

15. Il rispetto e il riguardo della band verso Yoko, Linda e Maureen è straordinario, soprattutto se paragonato a come si comportavano tutti gli altri musicisti maschi nel 1969. È difficile immaginare Mick Jagger che dice: «Linda è una cameraman». C’è un sorriso di Yoko che fatico a togliermi dalla testa, quando Ringo le passa una gomma. Lei la spezza a metà e ne dà un pezzo a John. Il sorriso tra lei e Ringo è uno di quei momenti perduti e rimasti in archivio per 52 anni. Quando la band parla del viaggio in India – filmati che basterebbero per un altro documentario di Peter Jackson – Paul parla bene di Cynthia Lennon, Jane Asher e Pattie Harrison. C’è anche molto rispetto per le Apple Scruffs, le giovani fan che li aspettano fuori dallo studio, Eileen Kensley e Sue Ahearne. È Paul l’unico che le nota. Non fa il melenso, non saluta, né sorride, ma ha bisogno di sapere che sono lì. Per lui era quello il punto.

16. Mi sono chiesto chi fosse il figo nell’angolo con i capelli alla Mick Jagger del periodo December’s Children. Ho scoperto, con una certa sorpresa, che era Alan Parsons – sì, quello degli Alan Parsons Project. La cosa mi confonde. O come direbbe John, «mi butta giù, mi fa andare fuori di testa e mi fa volare».

17. Il livello di scontrosità di George è misurabile grazie alla sua barba. Sembra che si rasasse solo nelle giornate buone, quando poteva farsi vedere sorridente. La barbetta, invece, significava problemi. Anche quando rientra nel gruppo, aveva l’aria guardinga e ovviamente non si era rasato. È quando si ripresenta completamente sistemato che capiamo che sì, si sentiva ancora un Beatle. Here comes the sun.

18. Linda e Paul sono fan di Help!, la commedia del 1965 di cui si parla sempre male. Se Peter Jackson vorrà farne una versione di otto ore, sappia che sono pronto a sostenerlo.

19. Ringo accenna Octopus’ Garden al pianoforte. Tutti ridono. Poi arriva George, ha in mano la chitarra e lo aiuta a trasformarla in una vera canzone. Non si prende nessun merito nonostante fatichi a far prendere in considerazione i suoi pezzi. Quel momento di generosità dice molto di quei due. Durante lo speciale per il suo ottantesimo compleanno, Ringo ha spiegato che George lo aiutava a comporre: «So scrivere, ma non riesco a chiudere i pezzi, lo faceva lui per me!».

20. Alla fine del secondo episodio John, George e Ringo suonano I Lost My Little Girl – il primo pezzo scritto da Paul, a 14 anni, sulla morte della madre («Abbastanza ovvio», ammetterà più avanti). È un momento pesante ma educato: nessun altro sapeva di cosa parlasse la canzone o il suo significato. Come sempre, la band parlava nel “Beatle code”, come lo chiamava John. Una lingua segreta che solo quattro amici potevano condividere.

21. La piccola Heather, figlia di Linda, una rockstar. Quando grida nel microfono, John risponde con «Yoko!». Il momento migliore: sono tutti seduti in regia per discutere la produzione di The Long and Winding Road (a proposito di conversazioni sprecate). Heather salta addosso a Paul e inizia a spazzolargli i capelli.

22. George riflette sul suo disco solista. «Farò le mie cose per un po’». Spiega il suo piano per «preservare i Beatles» e fare tutti musica personale. John suggerisce addirittura di suonare tutti sul suo disco solista. Detto questo, è terribile che All Things Must Pass, Dehra Due e Old Brown Shoe non siano finite sul disco. Isn’t it a pity?

23. Sul tetto: la gioia che appare sul volto di John mentre canta Dig a Pony. Aveva dimenticato la forza che gli aveva permesso di fare musica così. Tutti e quattro i Beatles s’affacciano di sotto cercando di scoprire cosa succede laggiù. John si entusiasma e grida «Pace sulla terra!». George fa l’indifferente, ma non riesce a resistere e guarda giù. Lo sguardo di Ringo è il migliore: sorride e resta lì un momento in più degli altri.

24. La scena in cui Paul si domanda se la band sopravviverà. Quel dialogo gira come bootleg da anni, ma nessuno aveva mai visto le riprese. «Ascolta, il film è potente», ha detto Peter Jackson. «Conoscevo quell’audio, ma vedere le emozioni sui loro volti è impressionante». È questo il mistero di Get Back: com’è possibile che continuiamo a ritrovarci in quella musica? Gente di tutto il mondo, di diverse culture e generazioni, anche chi non era nato in quel periodo. Perché il mondo continua a sognare i Beatles? «Sono icone perché la musica era straordinaria», ha detto Jackson. «In quelle canzoni c’era gioia. Non importa il tempo che passerà, comunque resterà. Non verrà mai cancellata. Quella gioia contagiosa fa parte della psiche collettiva». Ed è in tutto Get Back.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

Iscriviti