Il 16 agosto del 1969 quattrocentomila persone radunate a Woodstock per il più famoso festival rock della storia si entusiasmarono per la musica dei semisconosciuti Santana, una inedita fusion meticcia che gettava ponti tra Stati Uniti, Messico e Africa, tra il blues rock dei Fleetwood Mac e dei Blues Project, l’improvvisazione psichedelica, i ritmi latinoamericani, il jazz di Willie Bobo e la musica nigeriana percussiva di Babatunde Olatunji. Lo chiamarono da subito latin rock e fece il giro del mondo spalancando le porte del mercato pop e delle case discografiche a uno stuolo di giovani band che coltivavano un’idea musicale non dissimile. Gruppi multietnici e a prevalenza ispanica composti da ragazzi con i capelli lunghi e ricci, il pizzetto e i baffoni spioventi, gilet in pelle, baschi e canotte di cotone, un po’ hippie e un po’ street gang. Chicanos che sbandieravano con orgoglio il loro dna e le loro origini, figli di immigrati che avevano valicato il confine tra il Messico e la California diventando cittadini degli Stati Uniti.
La loro era una musica variopinta, torrida, ritmata e dai colori accesi. Organi Hammond e chitarre elettriche che, ispirandosi allo stile di Carlos Santana, rincorrevano note sostenute vibrando di effetti wah wah, fitti intrecci poliritmici tra batterie, bonghi, congas e timbales, ricche sezioni fiati con trombe, tromboni, flauti e sassofoni di scuola jazz e rhythm & blues. Era la colonna sonora di tempi intensi e turbolenti, di una presa di coscienza che ispirandosi a Martin Luther King e a Malcolm X, ai movimenti per i diritti civili e alle Pantere Nere sfociava nel Chicano Power e in gruppi di liberazione paramilitari come i Brown Berets, nelle proteste studentesche e nelle rivendicazioni di chi era stufo di essere trattato come un cittadino di serie B, disoccupati, lavoratori sottopagati e giovani esclusi dalle università spediti in Vietnam come carne da macello.
A San Francisco e a Los Angeles, i due poli della controcultura californiana a cavallo tra i ’60 e i ’70, nascevano band di rock latino spesso imparentate tra loro, nuclei dai confini mobili e in continua evoluzione, spore musicali che generavano cellule a catena. All’ombra del Golden Gate si facevano strada i Malo (con il fratello minore di Santana, José, alla chitarra), gli Azteca e i Sapo; 600 chilometri più a Sud, nei quartieri orientali di Los Angeles, nascevano El Chicano, Tierra, Macondo, Tango e Yanqui, gruppi la cui popolarità travalicava le comunità ispaniche e i confini nazionali, e che già nel nome rimarcavano la loro origine geografica e culturale a differenza dei rocker ispanici delle generazioni precedenti, il Ritchie Valens di La Bamba, Thee Midniters e Cannibal and the Headhunters a East L.A e dintorni, Sam The Sham (alias Domingo “Sam” Samudio) di Wooly Bully in Texas.
Qualcosa si muoveva nel frattempo anche sulla Costa Est, in una Miami popolata da esuli cubani e tra i nuyorican, i newyorkesi portoricani che però preferivano la salsa. Ma durò poco. Dopo la metà dei ’70, sulle sponde del Pacifico come su quelle dell’Atlantico, quello stile nel frattempo assimilato da altri gruppi multietnici come i War e i Mandrill stava già passando di moda, anche se ristampe di etichette specializzate e compilation (come la preziosa Chicano Power! Latin Rock In The USA 1968-1976 a cura della inglese Soul Jazz Records) sono servite a conservarne la memoria. Lo ricordiamo qui con 10 canzoni che ne sintetizzano la stagione migliore, quella in cui i Santana non erano gli unici ambasciatori del rock latino in America e nel resto del mondo.
“Chicano Power” Thee Midniters (1966)
Portabandiera di quell’Eastside Sound losangelino che nella prima parte degli anni ’60 aveva sdoganato il rock and roll, il garage e il rhythm & blues presso il giovane pubblico di origine ispanica, Thee Midniters sono ricordati soprattutto per la cover del classico soul Land of a Thousand Dances e per lo strumentale Whittier Boulevard. Pubblicato come singolo ma passato all’epoca quasi inosservato, Chicano Power è un altro strumentale dal suono ruvido e un po’ caotico, con un continuo vociare da barrio latino in sottofondo, un bel riff di chitarra e assoli di sassofono e batteria che ne esaltano l’atmosfera festosa e celebrativa. Assieme a The Ballad of César Chávez, ispirata alla figura del sindacalista e attivista per i diritti civili che fu tra i fondatori della National Farm Workers Association, è tra i primissimi pezzi a testimoniare la presa di coscienza e le istanze sociopolitiche dei cittadini americani di origine messicana.
“Viva Tirado” El Chicano (1970)
A partire dal nome che si sono scelti, gli El Chicano mettono in chiaro il loro progetto e i loro obiettivi. Nati a East L.A. sulle ceneri di un gruppo precedente (i V.I.P.’s) piazzano il maggior successo in carriera con il primo singolo, un million seller che rilegge in maniera efficace e originale uno strumentale composto dal trombettista, arrangiatore e bandleader Gerald Wilson in omaggio a un famoso torero messicano. La versione rallentata e ipnotica degli El Chicano ne conserva l’anima jazz nel fraseggio chitarristico in puro stile Wes Montgomery aggiungendovi poliritmi latini e un incisivo assolo di organo Hammond, ed è forse l’interpretazione più riuscita di uno standard ripreso da artisti diversissimi tra loro come Boots Randolph, Percy Faith, Fania All Stars, Augustus Pablo e 5th Dimension (una versione cantata e reintitolata Viva!).
“Cayuco” Harvey Averne Presents The Barrio Band (1971)
Il più celebre gruppo latin rock newyorkese, espressione di una scena musicale vivace ma per lo più incapace di varcare i confini locali (tra i nomi più significativi: Toro, Benitez, Seguida e Mother Night, oltre ai Chango residenti a Woodstock) prende forma intorno al vibrafonista e futuro discografico Harvey Averne, capace di assemblare nella Barrio Band la crema dei session men latinoamericani della Grande Mela. Cayuco, il suo più grande successo commerciale, è un pezzo firmato da Tito Puente poi ripreso sull’altra sponda degli States dagli El Chicano e dai Macondo, un cha cha cha irrobustito e aggiornato con le sonorità di una chitarra elettrica che nel testo cita Puerto Rico e nella musica getta un ponte verso la salsa, la musica più popolare tra gli ispanici residenti a New York.
“Too Late” Black Sugar (1971)
Nei primi anni ’70 gli Usa non hanno il monopolio del latin rock. Tra i migliori esponenti del genere spiccano infatti i Black Sugar, peruviani di Lima ma con un sound molto simile a quello che nello stesso periodo prendeva forma migliaia di chilometri più a nord. Intro quasi cinematografica, fiati scattanti e andamento mosso tra salsa e brown-eyed soul, Too Late non avrebbe affatto sfigurato in un disco dei Malo, degli Azteca o degli El Chicano.
“Suavecito” Malo (1972)
Quasi dimezzata nella durata rispetto alla versione inclusa nel primo album della band di Jorge Santana e Arcelio Garcia Jr. (tre minuti e 25 secondi invece di sei minuti e 36 secondi), nella primavera del 1972 Suavecito raggiunge il numero 18 delle classifiche di vendita statunitensi e diventa a furor di popolo il nuovo “inno nazionale chicano”, sparato a tutto volume dalle autoradio dei Lowrider, le auto cromate e con le sospensioni abbassate che i giovani chicani amano guidare sulle strade del quartiere. Come il titolo suggerisce, si tratta di una ballata soft e sentimentale, dalle tonalità morbidamente soul e con un clima sonoro sognante simile a quello di Crystal Blue Persuasion di Tommy James & The Shondells (di tre anni antecedente). A cantarla è l’ospite, percussionista e coautore Richard Bean, poi cofondatore dei Sapo accanto al fratello Joe; nel 1999 il suo riconoscibilissimo e soave ritornello riaffiorerà in Every Morning, grande hit dei Sugar Ray.
“Pana” Malo (1972)
Stampato dalla major Warner Brothers e accompagnato da una splendida copertina che ritrae un guerriero azteco con una principessa tra le braccia, il primo LP dei Malo è un disco dalle tante sfumature, con pezzi funk e psichedelici come Just Say Goodbye (che nella struttura ricorda molto la santaniana Incident at Neshabur), grintosi r&b che sfociano in improvvisazione jazz (Peace) e canzoni di atmosfera più decisamente latineggiante. Tra queste Pana, dove i grandi protagonisti sono la tromba di Luis Gasca, virtuoso session man già membro della Kozmic Blues Band di Janis Joplin, e le percussioni di Coke Escovedo e Victor Pantoja (nomi noti ai fan dei Santana), e Nena, un boogaloo pubblicato anche su 45 giri come lato B di Suavecito: entrambe rispolverate da Zucchero per La sesión cubana, il suo album latino uscito nel novembre del 2012.
“Non Pacem” Azteca (1972)
Fondati a San Francisco, dopo una parentesi alla corte dei Santana, dai percussionisti Coke e Pete Escovedo (il padre di Sheila E.), gli Azteca sono un supergruppo che nell’omonimo album di debutto su etichetta CBS (in copertina una rielaborazione multicolore della Piedra del Sol azteca conservata nel museo nazionale di antropologia di Città del Messico) conta ben 17 elementi. Tra questi fuoriclasse come il trombettista jazz Tom Harrell, il batterista dei Return To Forever Lenny White III, il bassista Paul Jackson (componente originale degli Headhunters di Herbie Hancock), il chitarrista Neil Schon in transito dai Santana ai Journey e altri personaggi del giro santaniano come l’angelica cantante Wendy Haas e il formidabile percussionista di Spanish Harlem Victor Pantoja detto El Negrito. Non Pacem è un ottimo esempio di un sound prismatico e scoppiettante in cui convivono jazz, latino, funk e soul, frutto dell’interazione tra quattro cantanti, due chitarristi, un bassista, tre percussionisti, altrettanti tastieristi e quattro fiatisti.
“Tell Her She’s Lovely” El Chicano (1973)
Top 40 negli Stati Uniti e hit radiofonica, uno dei più popolari singoli degli El Chicano è un pezzo easy, accattivante e ritmato con tutti gli ingredienti al posto giusto: fraseggio chitarristico rock e spagnoleggiante, ritmica funk, organo Hammond, melodia radiosa, testo in inglese che incita a uscire dall’isolamento e inneggia al peace & love quando ormai l’estate dell’amore californiana è finita da un pezzo.
“Been Had” Sapo (1975)
Terza forza del rock chicano di San Francisco, i Sapo di Richard Bean ricalcano nel modulo comprendente doppia chitarra, tastiere, sezione fiati e percussioni assortite la formula dei Malo o degli Azteca (in formazione un altro suonatore di conga che ha militato nei Santana, Raul Rekow); a differenza dei colleghi, all’epoca distribuiti a tappeto anche in Italia, faticano però a farsi conoscere all’estero. Tuttora attivi — come altre storiche band latin rock del periodo — pubblicarono all’epoca un solo album di scarsa fortuna commerciale, ma oggi considerato tra i più rappresentativi del genere. Lo apriva Been Had, un pezzo cantato in lingua inglese e dall’impianto robusto con un groove trascinante, trombe e sax di marca r&b, chitarra effettata e break jazzato di piano elettrico.
“Sun God” Tierra (1975)
Nati a Los Angeles per iniziativa dei fratelli Rudy e Steve Salas, già componenti dei Jaguars e degli El Chicano, i Tierra raggiungono la massima popolarità con la cover di Together degli Intruders pubblicata nel 1980. Per quoziente Latin rock nulla si avvicina però ai loro primi due album editi nel 1973 e nel 1975, Tierra e Stranded. Inserita in quest’ultimo e pubblicata anche come lato B della molto più convenzionale My Lady, con i suoi loop di sintetizzatori ronzanti e la sua struttura da mini suite caratterizzata da cambi di tempo e di atmosfera, Sun God spicca come un originale esempio di Latin prog arricchito da trombe, colori fusion, cori e un basso funky suonato da Conrad Lozano, già allora componente di una band alle prime armi che oggi tutti identificano con il rock chicano di East L.A., i Los Lobos.