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Tutti gli album degli Eurythmics, dal peggiore al migliore

Quand'è che Lennox e Stewart sono stati più convincenti? Quando hanno esplorato il sound "sintetico" o quando hanno tirato fuori l'anima black? Ecco i loro dischi, per ricordarci che un altro pop è possibile

Foto: Bob King/Redferns

Ci sono gruppi che non vengono mai abbastanza ricordati per avere rivoluzionato il corso del pop internazionale, gente che ha messo in discussione la musica bianca come quella nera (e anche il genere sessuale), che ha creato best seller partendo da zero, che ha trovato un punto di forza nella cosiddetta “sfiga” e che in una manciata di dischi ha disegnato il futuro della musica elettronica sperimentale in un contesto da chart senza perdere un grammo di credibilità.

È il caso degli Eurythmics, duo fondamentale nel campo dell’ascolto intelligente, consegnati all’eternità dalla loro Sweet Dreams (Are Made of This) (cavallo di battaglia acquisito finanche da Marilyn Manson) che nel 1989 decidono di chiudere. Si riformano nel 1999 in un ideale festeggiamento del decennale, per un ultimo disco d’inediti, Peace, seguito da un tour i cui proventi (biglietti e merchandise) sono devoluti a Greenpeace e Amnesty International (i singoli inediti contenuti nella Ultimate Collection del 2005 saranno a tutti gli effetti outtake dello stesso). È giusto quindi ripercorrere le pubblicazioni della band per ricordare il loro effettivo peso specifico anche sull’epoca musicale che viviamo.

9“Peace” (1999)

Dave Stewart e Annie Lennox devono solo realizzare un paio di canzoni, ci prendono gusto e arrivano a chiudere un intero album. A fronte di una canzone dolcissima e disarmante come I Saved the World Today e di un inno di eterna giovinezza come 17 Again troviamo una manciata di pezzi onestissimi nel descrivere la nuova fase esistenziale quasi pacificata del duo, ma mancano dello spirito degli Eurythmics che conoscevamo, perduto nel tentativo di disegnare quadretti naïf, semplici, inni alla pace, ballate dal suono levigato e apertamente cristallino che però alla lunga suonano “sgonfie”. Da una parte è giusto così (non si può sempre stare a manetta come vuole il capitalismo), dall’altra è un’occasione mancata. Ad ogni modo Peace fa le scarpe a tanto giovanilismo indie di oggi.

8“We Too Are One” (1989)

 

 

Dopo tanti successi il duo sembra in crisi. Non tanto a livello commerciale (dettano ancora legge), ma a livello d’ispirazione e di stile musicale. Indecisi se percorrere la via del post cool jazz (Don’t Ask Me Why e Angel) o vendicarsi dei pallidi imitatori Roxette seguendo strade pop-rock (con (My my) Baby’s Gonna Cry), compongono un disco incostante che lascia molte perplessità nonostante la qualità innegabile della confezione, patinata fin dalla copertina. Come se dopo gli esperimenti di Savage fossero stati costretti dalla casa discografica ad abbassare la testa, cercando un compromesso con le tendenze in classifica, cosa che li snaturerà. Sarà il canto del cigno almeno fino a Peace, ma è una fine elegante, ci si ferma sul ciglio del baratro prima di consegnarsi tout court al sistema. Che non sia un disco molto amato dai nostri è evidente: nonostante le hit single tratte, neanche una è nell’Ultimate Collection.

7“Be Yourself Tonight” (1985)

Vero, è l’album che ha portato la loro musica a tutti, ma proprio per questo scricchiola. Trascinati dal revival anni ’60 e dal crescente boom della black music, recupero della Motown inclusa, i nostri operano inversamente rispetto ai loro album precedenti. Non più musica nera rivista in chiave sintetica e bianca, ma musica bianca che vorrebbe essere nera, con una chiara presa di posizione data dalla partecipazione di Aretha Franklin (nel manifesto Sisters Are Doin’ It for Themselves) e di Stevie Wonder all’armonica a bocca. Chiaro che come opera r&b il disco pulluli di hit, ma il tentativo del duo di ibridarlo alla loro forza sintetica riesce solo con There Must Be an Angel. Per il resto sembra un altro gruppo: chi all’epoca riscopriva Sweet Dreams si chiedeva a che pro una Would I Lie to You?. Un’abiura del passato forse giustificata, all’epoca, dall’eccesso di synth pop sul mercato da cui il duo vuole prendere le distanze, forse troppo frettolosamente.

6“Revenge” (1986)

Revenge è il titolo di una canzone di In the Garden, ma di quel disco a livello di influenze non rimane nulla. C’è invece un equilibrio tra le infatuazioni nere di Annie Lennox e l’anima sintetica del duo: è il vero senso della rivincita del titolo. Missionary Man è perfetta in questo senso, così come la spectoriana Thorn in My Side. Ci sono ibridi eurodance come Take Your Pain Away e A Little of You, così come uno strizzare d’occhio all’AOR in The Miracle of Love in cui si cerca di accontentare tutti. C’è maggiore equilibrio in questo album, ma una certa incertezza rimane: da che parte stare? Mainstream o ricerca? Sicuramente questo è il disco più segnato da Stewart, in cui la chitarra ha un ruolo primario, e viene premiato a livello di vendite. Ma c’è nell’aria l’idea che gli Eurythmics smettano momentaneamente di indossare i panni di star del pop e tornare a stuzzicare – e parecchio – le orecchie della gente.

5“1984 (For the Love of Big Brother)” (1984)

La colonna sonora del film omonimo di Michael Radford tratto da Orwell è già una roba mitologica solo per la presenza del duo. Che ci dà dentro in un’orgia fredda e sequenziata per lo più strumentale, con tinte da incubo techno pop che immaginano prevalere nell’epopea di Orwell. Chiaramente usando i suoni dell’anno nella quale è pubblicata (il 1984 appunto) in un cortocircuito filologico su una distopia che ai nostri eroi appare già realizzata. Sexcrime, il singolo scelto, è un pezzo perfetto, una canzone senza macchia in cui i campionatori la fanno da padrone. Purtroppo la storia non gli farà giustizia. Il regista si vede imporre dalla Virgin lo score degli Eurythmics, ma rifiuta di usarlo, ad eccezione dei titoli di coda con la stuporosa Julia. Il duo si dice all’osctuo degli accordi fra Virgin e regista. A suo modo, un LP che anticipa la chill wave.

4“Touch” (1983)

Dopo il botto di Sweet Dreams il duo deve andare oltre. Touch in un certo senso lo fa, spaziando da ballate orchestrali come Here Comes the Rain Again ai ritmi caraibici e inaspettati di Right by Your Side a ossessioni robotiche come Paint a Rumour. Il disco suona fresco e il duo intenzionato ad aprire la gamma sonora il più possibile, peccando solo di una certa indulgenza nei riempitivi quando i lati B risultano più interessanti (ascoltate ABC o You Take Some Lentils and You Take Some Rice). Ma i mezzi oramai sono all’altezza della situazione, tanto che il duo pubblicherà anche un disco di remix, Touch Dance, per andare incontro alle esigenze del clubbing. Si impone definitivamente il look androgino “pel di carota” di Annie Lennox, sempre più icona gender bender, mentre Stewart è il braccio destro asessuato che opera dietro le quinte, ma mai come in questo disco i due talenti sono in piena parità creativa, pronti a conquistare il mondo.

3“In the Garden” (1981)

Il primo disco degli Eurythmics non c’entra nulla con il resto della produzione, ma è un capolavoro di esperimento pop kraut con ai comandi il grande Conny Plank e ospiti illustri come tre diversi batteristi presi dai Can, dai Daf e dai Blondie. Il singolo Never Gonna Cry Again è meraviglioso e il disco contiene dei pezzi a tutti gli effetti antesignani dello shoegaze come Belinda e Caveman Head in cui possiamo sentire i My Bloody Valentine e i Curve prima del tempo (ricordiamo che proprio Dean Garcia sarà loro session man negli ’80). Ancora oggi batte tutti i dischi brit rock usciti in seguito, con la devastante English Summer a fare da spartiacque nel recente passato con i Tourists, sfortunata band nella quale militavano Dave e Annie prima di riciclarsi come duo e separarsi come coppia. In the Garden sarà un flop, tanto che i due crollano e si danno alle droghe. Come nelle migliori favole però certe peripezie non accadono per caso, ma anzi sono il prezzo da pagare per “dolci sogni”…

2“Sweet Dreams (Are Made of This)” (1983)

Che sia il disco più conosciuto del duo per i suoi dirompenti singoli è ovvio. Che sia forse uno dei primi esempi di electroclash della storia è – al contrario – sempre poco ricordato. Abbiamo roba micidiale stile Suicide come Jennifer o la meravigliosa elegia This City Never sleeps con uno Stewart che dimostra di essere un grande chitarrista in acido, insomma un must have che fotografa una band affamata, pronta a tutto e senza paura di sfoggiare uno stile synth blues sperimentale di fattura unica. Un disco registrato con due lire e composto con attrezzatura all’avanguardia (tra le tante la innovativa Drumatix) comperata con un prestito bancario, per il resto lo studio è casalingo, ricavato da una stanza in affitto sopra una segheria tanto che Annie per cantare deve aspettare che chiuda. L’album all’inizio sembra non decollare, ma in poco tempo sarà sulla bocca di tutti trasformando gli Eurythmics da tipici loser del rock a star internazionali pluripremiate.

1“Savage” (1987)

Dopo la sbronza di normalizzazione r&b, con Savage il duo cambia strada e decide di creare l’opera allucinata per eccellenza, innovativa nei suoni elettronici (massiccio uso di Synclavier) e nel concept (femminista, sui deliri di una casalinga) con un Alan Moulder in stato di grazia come ingegnere del suono prima che diventasse un simbolo dell’alternative dei ’90. Se Revenge era di Dave, Savage è di Annie. Ci sono un anti-singolo ostico e maligno come Beethoven (I Love to Listen to) (incredibilmente assente nei greatest hits), la bagnata di Lsd I’ve Got a Lover, l’epica Shame e la stupenda e martellante You Have Placed a Chill in My Heart, la quasi hard I Need a Man. Per i due è il loro disco migliore in assoluto ed è difficile nel 2021 dare loro torto: ha previsto il suono di ben due generazioni, quella neo industrial e quella HD.

A riprova che gli Eurythmics erano un duo la cui forza era nelle individualità, anche da solisti i due hanno inanellato successi. La Lennox raggiungendo vendite superiori addirittura alla band, Stewart come autore e produttore ricercatissimo. Se ci mancano insieme? Certo: soprattutto ci manca il loro esempio in tempi come questi. Al narcisismo che si nutre di se stesso, l’originalità; alla pappa tutta uguale, il continuo rimescolare delle carte. Perché «io credo che la musica sia la più fenomenale piattaforma di sviluppo del pensiero». Parola di Annie Lennox.

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