King Crimson è il rumore della lama, del metallo, dello stridore in contrapposizione alla melodia. È il sorriso bianco della luna, dell’insieme di note e armonie che in qualche modo regolano la vita nell’universo.
A oltre 50 anni di distanza dal primo album, la creatura di Robert Fripp è ancora un mistero assoluto per la sua capacità di prendere il rock e plasmarlo verso tutte le declinazioni possibili. Potrei fare la solita tiritera di quanto sia importante una band che ha saputo fondere rock, classica, jazz, avanguardia, elettronica, folk e via andare. Ma l’ho già detto mille volte parlando di coeve formazioni prog. Con i King Crimson non si può semplicemente dire che essi fondono più generi, il gruppo è esso stesso un magma dove si passa indistintamente da uno stato a un altro, è un qualcosa che ha più a che fare con l’alchimia. Non ci sono stili accostati, c’è bensì una perfetta fusione, un amalgamarsi, uno sciogliersi e poi un consolidarsi. King Crimson non è un’orchestra che suona rock, o viceversa, è la musica che perde completamente i suoi contorni e si ricrea in nuove forme, in nuove sensazioni.
Da un certo punto di vista, King Crimson è la più importante idea musicale degli ultimi 100 anni. Un qualcosa che ha contribuito a definire il prog rock, certo, ma che poi è diventata subito altro. Andate a nominare a Fripp gli Yes, gli Emerson Lake & Palmer, i Genesis… vedrete la sua faccia schifata. Perché lui e la sua creatura sono sempre stati altro, giustamente. Perché nei King Crimson non sono il 7/4, il Moog o la cavalcata classicheggiante a contare, è qualcosa di più. È quel movimento del rock verso la nobiltà della classica che poi però sa inglobare il pop e trasformarsi ancora, in un movimento costante. Non è ripetizione degli schemi (come il prog è presto divenuto), ma continuo cambiamento, perpetua progressione.
Anche tutti i cambiamenti di organico, quanti sono stati? Mai una formazione fissa, un tourbillon di musicisti che ruotano intorno alla figura di Fripp. Lui è il re, Belzebù, lo scarlatto, il più grande intellettuale del rock. L’uomo con una visione, che ha visto oltre la musica stessa e ha cercato di incarnare la sua idea in movimento in dischi e formazioni sempre cangianti. Fripp, il più grande chitarrista del mondo che fa di tutto per andare contro l’immagine di guitar hero, sempre in ombra, a cesellare, a tirare fuori magari una nota, a insistere fino allo sfinimento su quella che è essenziale. La ripetizione come forma di cambiamento che poi però si inerpica in scale a velocità folle. Lui e il suo strumento, un tutt’uno che va di pari passo con la capacità nella composizione, che fa di lui lo Stravinskij dell’era moderna.
Non si può dire «i King Crimson sono questo disco, sono questa musica», si può al limite dire che i King Crimson sono le mille facce di Robert Fripp, album dopo album, concerto dopo concerto, formazione dopo formazione. Fripp ha cercato di mettere in piedi la sua idea di musica universale, che se ne fotteva del prog, che se ne fotteva di tutti i generi codificati per essere qualcosa di nuovo.
Ancora oggi, come non pensare di essere di fronte a un qualcosa di alieno, quando ci si trova davanti al mostro a nove teste con tre batterie e tutto uno schieramento di bassi e chitarre da paura. E si sente un suono che travolge nel suo essere aria e fuoco, inferno e paradiso, la più nera sporcizia del rock e la più candida essenza della melodia. Fripp ha studiato il cosmo, il sole e i pianeti, le isole, il clangore del metallo e i movimenti dell’anima, le parole, gli sguardi, le guerre, la paura, il passato, il presente e il futuro, tutto ciò che è stato e che sarà. Non ha un’idea fissa di vita, di fatti e accadimenti. E tutto questo, da 50 anni a questa parte diventa lo specchio della sua avventura con la creatura chiamata King Crimson, che nella sua esistenza ha dato vita a un numero impressionante di album tra studio, live, box, collaborazioni sparse.
Il succo del succo è però concentrato nei 13 album in studio che dal 1969 al 2003 hanno caratterizzato la storia del gruppo. Storia che non può dirsi certo conclusa e che in qualche modo evolve sempre, ma Fripp da 20 anni a questa parte ha preferito concentrarsi sui live e sugli archivi, mettendo da parte nuove creazioni. Poco male, in quei 13 album c’è materiale a sufficienza per studiare la storia del gruppo, anche per tentare una classifica che possa fare intuire quello che è il suo cammino. Un cammino di costante trasformazione alchemica.
13. “The ConstruKction of Light” (2000)
Non c’è nulla di peggio che vedere un’idea come quella crimsoniana girare un po’ a vuoto su se stessa. Chiaro, dopo tutti gli anni passati l’inventiva non può essere sempre ai massimi livelli, ma diciamolo, Fripp ci ha abituati bene. The ConstruKction of Light non ha nulla che non vada in sé, ma lo sferragliare chitarristico sembra un po’ fare il verso a coloro che al gruppo si sono ispirati: Don Caballero e altri post math rocker su tutti. Certo, quando Fripp si lancia (con la bella complicità di Adrian Belew) nel dissacrante blues cibernetico di ProzaKc Blues o quando sfodera un title track che inanella una serie di riprese di temi passati (Larks’ Tongues In Aspic Part 4, Fractured) il cuore non può che spezzarsi.
12. “The Power to Believe” (2003)
In The Power to Believe i King Crimson si ritrovano quartetto: Fripp, Adrian Belew, Pat Mastellotto e Trey Gunn. A oggi è l’ultimo lascito in studio del gruppo e tenta di mischiare le carte tra la secca irruenza new wave anni ’80 e i suoni nu metal di band che proprio su certe istanze crimsoniane hanno costruito una carriera (Tool su tutti). Quindi schitarrate sghembe e tempi dispari massicci come se piovesse, con un senso un po’ di trito e ritrito. Ma in mezzo anche tutta la grazia melodica crimsoniana basata sulla voce vellutata di Belew: Eyes Wide Open, ed è subito paradiso.
11. “Beat” (1982)
Succede che a inizio anni ’80 Fripp decida di rimettere in piedi la barca con nuovi connotati derivati dalla sua recente passione per il post punk e certe pop-tribalità assortite di scuola Gabriel-Talking Heads. Il primo disco di questa nuova fase è un botto assoluto (vedi più sotto), il secondo paga pegno a un po’ di fiacchezza. La formula pare girare su se stessa, nonostante le star coinvolte: Bill Bruford, Tony Levin e Adrian Belew. Sono le canzoni a dare qualche segno di scarsa ispirazione, insieme a sperimentazioni poco a fuoco. Nondimeno il baldanzoso singolo Heartbeat riesce ancora nell’intento di far battere corpo e cervello.
10. “Three of a Perfect Pair” (1984)
Meglio vanno le cose con il terzo tassello anni ’80. Qui l’equilibrio regna in brani che sanno assimilare tutta la modernità del periodo al servizio di strutture in larga parte pop. Pop stralunato, fuori dagli schemi, allucinato, a modo suo commerciale. Almeno nella prima facciata (denominata The Left Side, con le tracce più accessibili) che vede su tutti il colossale incontro tra i King Crimson e la dance di Sleepless. I vecchi fan strabuzzano gli occhi, ma quel riff di basso di Tony Levin è goduria pura. L’altro lato (The Right Side, che si può leggere come “il lato giusto”) è più contorto e metallico, ma offre begli spaccati di retro-modernità sperimentale, tanto che a concludere ci piazzano addirittura una Larks’ Tongues in Aspic Part III.
9. “THRAK” (1995)
I ’90 vedono Fripp fare un capitombolo e cominciare a guardarsi un poco indietro. Nel frattempo Bob si è preso un’altra pausa, quasi 11 anni, e ha messo insieme una serie di esperienze di alto rango (su tutte la collaborazione con David Sylvian per The First Day, 1993). Quando la band torna in scena lo fa con la formazione anni ’80 Fripp-Belew-Levin-Bruford alla quale si aggiungono Trey Gunn allo stick e Pat Mastellotto alla batteria. Fripp chiama il mostro a sei teste “doppio trio”, due bassi, due chitarre, due batterie. È il prodromo all’orchestra dei nostri giorni. THRAK ricupera le atmosfere di metà anni ’70, quelle telluriche con Wetton & co, ma le mette assieme ai guizzi di Belew. Tra le schegge elettriche anche luminose ballate come Walking on Air e One Time.
8. “Starless and Bible Black” (1974)
Durante gli anni ’70 Fripp inasprisce il linguaggio, le sue chitarre si fanno sempre più acide, i suoni introversi, le ritmiche contorte. Sembra di assistere a una sorta di rappresentazione di qualche girone infernale, Belzebù docet. Nel delirio non mancano però l’afflato melodico, le pennellate di Mellotron, i momenti sospesi e impalpabili. Starless and Bible Black è molta improvvisazione, pezzi eseguiti dal vivo e poi rielaborati in studio con tutte le caratteristiche di cui sopra: molta oscurità alternata a sciabolate di luce lunare. Almeno un capolavoro assoluto, The Night Watch, con una parte di chitarra che è un sogno. Poi Fracture, 11 minuti di clangore che è già 2000 nel 1974.
7. “Larks’ Tongues in Aspic” (1973)
Bill Bruford (Yes) alla batteria, John Wetton (Family) al basso e alla voce, David Cross al sax e Jaime Muir alle percussioni. Nel 1973 Bob opera un re-impasto. Lasciate da parte le atmosfere romantiche dei primi quattro album e fatto a meno dei testi esoterici di Peter Sinfield, si ritrova alla guida di una macchina bollente, già avanti anni luce rispetto al prog coevo. Con i King Crimson ’73-74 abbiamo molto del rock futuro, abbiamo il post, abbiamo il nu metal. Tra pezzi di pura avanguardia rock (la title track), mazzate testosteroniche (Easy Money) e ballate diafane che prendono il versante più onirico del gruppo e lo fanno diventare il miglior pop degli anni a venire.
6. “Islands” (1971)
Islands conclude la primissima fase crimsoniana e lo fa con un’eleganza e un pathos che ancora oggi lasciano a bocca aperta. Ogni tassello di questo album è un pezzo d’emozione, dalle atmosfere beatlesiane di Ladies of the Road a uno dei momenti chitarristici top di Fripp, The Sailor’s Tale, nel quale tira fuori un assolo ad accordi che mai prima si era sentito e mai si sentirà. Poi c’è il bozzetto classicheggiante di Prelude – Song of the Gulls e, su tutto, il brano che titola il disco. Islands è forse la cosa più bella mai composta da Fripp, con la voce trasparente di Boz Burrell, la cornetta di Mark Charig, il Mellotron in crescendo e il pianismo acquatico di Keith Tippett a trasportare direttamente l’ascoltatore tra le isole del cosmo.
5. “In the Wake of Poseidon” (1970)
Spesso descritto come copia sbiadita dell’esordio, In the Wake of Poseidon rafforza invece le peculiarità del progetto. La struttura è la stessa di In The Court, si parte con il brano teso e metallico (Picture of a City), segue la ballata intrisa di acustico romanticismo (Cadence & Cascade, con la voce sabbiosa di Gordon Haskell a sostituire il fiabesco Greg Lake), arriva il Mellotron bombastico della title track, con una melodia che c’è da piangere a ogni ascolto e il drumming di Mike Giles che è una vera danza. Nella facciata B lo scaltro pop free jazz di Cat Food, il pozzo nero di The Devils Triangle, mutato dalla Mars di Gustav Holst, e i bozzetti di Peace a incorniciare una roba che se non è non è creatività allo stato puro non saprei come descriverla.
4. “In the Court of the Crimson King” (1969)
Orrore, sacrilegio! Come mai In the Court of the Crimson King non è al primo posto? Nessuno ha mai osato tanto. C’è un perché. Se vogliamo mettere avanti a tutto la portata rivoluzionaria del gruppo allora non possiamo non ravvisare nell’esordio ancora qualche piccola pecca. Manifesto metallico di 21st Century Schizoid Man a parte (vero pezzo d’arte mille anni avanti nel futuro) il resto per quanto bellissimo paga un poco l’influenza di Beatles e Moody Blues. Il Re non è ancora Re al 100%. Poi il tentativo avanguardista tra suono e silenzio di Moonchild parte tanto bene, ma si smarrisce in una lungaggine anche troppo rarefatta. In generale il disco è un manifesto d’importanza capillare, non ci piove, ma a livello di originalità e compattezza Fripp saprà fare di meglio.
3. “Red” (1974)
Kurt Cobain lo ha definito «il disco più importante della storia del rock». Non aveva torto, l’impulso, la voglia di spaccare, di deflagrare in maniera devastante e attuare una rivoluzione è tutta qui. Rock intellettuale, vero, ma mai anche così fisico, così libero di muoversi tra tempi e controtempi, essere infuocato ma anche dotato di gusto e melodia. Red è tutto quello che si può desiderare dal rock. Nell’ultimo parto dei ’70 i King Crimson sono ormai un trio con Fripp, Wetton e Bruford (e ospiti i vecchi Ian MacDonald e David Cross) e sono liberi di esprimersi con un brano, la title track, che contiene il riff di tutti i riff. Concludono poi il tutto con la sempiterna Starless, mezza ballata mellotronica sulle nuvole e mezza apocalissi sonora. La ripresa finale del tema suggella la perfezione del rock crimsoniano.
2. “Discipline” (1981)
Si parla sempre dei primi King Crimson come quelli che hanno inventato il prog con tutti gli annessi e connessi. Ma spesso molti dimenticano quale bomba incredibile siano stati i Crimson dei primi anni ’80. Al tempo c’era l’art rock di Talking Heads, di Bowie, di Eno…. Poi Fripp decide di rimettere su baracca e burattini (dopo un’assenza che perdurava dal 1974) e sbaraglia tutti. Discipline è un capolavoro di pop instabile con mitragliate minimaliste pari-dispari, chitarre incrociate melodiche-a-melodiche. Tira dentro Adrian Belew (già con i Talking Heads, Bowie e Zappa!) e, cavolo, questi compongono Frame by Frame, Matte Kudasai, Elephant Talk, Thela Hun Ginjeet… Robe pazzesche, ritmo, Africa, elettronica, ciò che resta del prog nella sua essenza, rock che fa pensare e muovere le gambe. Con Bill Bruford dall’esperienza precedente a unire le Simmons con la batteria acustica e il mostro multidita Tony Levin. La perfezione.
1. “Lizard” (1970)
Ma c’è un passo più in alto, difficile da crederlo, ma è così. Lizard, il disco in cui dimostrano maestria assoluta nel mettere insieme sacro e profano. Davanti a una cosa del genere non bisogna dire molto, solo ascoltare. Sono sempre andato fuori di testa per un momento particolare in questo disco, durante la suite Lizard, nel movimento denominato Bolero – The Peacock’s Tale. Si parte classicheggianti, un tema di oboe che muove al pianto, poi il tessuto muta, si fa jazz, si fa free, esplode in una miriade di colori strumentali. Tutto in maniera fluida, senza scossoni, dimostrando quanto malleabile possa essere il magma di quella cosa chiamata rock, se solo lo si sa plasmare come è stato in grado di fare Santo Bob. Lizard è capitale proprio per la dimostrazione di quanto il rock possa ambire a essere una vera forma d’arte.