Già nel lontano 1987, quando Steven Wilson ha 20 anni, comincia a uscire fuori tutta la sua carica di irrequietezza. Da qualche tempo il musicista porta avanti il progetto art pop No-Man con il cantante Tim Bowness, ma probabilmente non gli basta, vuole esplorare nuovi mondi musicali, espandere la sua coscienza grazie a suoni che prendono spunto tanto dalla psichedelia inglese degli anni ’60 quanto da certa etno-trance-elettronica che da lì a poco esploderà grazie a gruppi come Orb, Future Sound of London, Psychic Warrior of Gaia, Ultramarine. Steven si inventa quindi una band fittizia, dietro alla quale non ci sono altri che lui, che pubblica una serie di cassette destinate a far parlare di sé nel sottobosco inglese di fine anni ’80. Bisognerà attendere il 1992 perché si arrivi al primo album.
Quello che sembrava il tentativo di un nerd di riempire di stranezze (ma anche di delizie) psych da lì a poco sarà il seme che farà sbocciare una splendida band con una serie di musicisti d’alta levatura: il tastierista Richard Barbieri (già nei Japan di David Sylvian), il bassista Colin Edwin e il batterista Chris Maitland, poi sostituito dal fuoriclasse Gavin Harrison, in seguito nei King Crimson. Wilson invece si occupa di cantare e suonare la chitarra senza eccessivi sfoggi ma facendo da collante tra i vari musicisti e offrendo il gancio, grazie a melodie sempre azzeccate, per non perdersi nell’ampio marasma sonoro.
I Porcupine Tree sono un fenomeno, di quei fenomeni che non capisci bene come sia possibile ottengano successo, vista la qualità di nicchia della loro proposta, ma che per qualche strano motivo diventano un culto assoluto. Specie in Italia la band ha raccolto da subito grandi consensi che via via sono cresciuti fino a fare ottenere a Steven e i suoi contratti con major discografiche e tour sold out pressoché ovunque. Andando a un loro concerto il motivo di tanto successo si può capire meglio: ampie melodie, fluttuazioni chitarristiche degne di David Gilmour, trip allucinogeni, una tecnica fornita dai vari musicisti che non può far altro che lasciare a bocca aperta, una perfetta fusione tra stilemi del passato e nuove sonorità che non lascia indifferenti gli ascoltatori giovani come quelli più stagionati. I Porcupine Tree arrivano al punk, al progger, al metallaro, all’amante del jazz, dell’elettronica, della dance perché incorporano tutto il meglio di questi generi e lo shakerano in maniera nuova e originale.
L’animo in costante movimento di Steven Wilson non si è però fermato ai Porcupine Tree, nonostante siano stati il suo gruppo più celebrato si è spinto in mille direzioni con vari progetti e soprattutto ha imboccato una carriera solista che gli sta dando molteplici soddisfazioni. Ma i vecchi fan dimenticano ciò che la band è stata e la scoperta negli anni ’90 di un gruppo così vario e interessante. Nonostante il gruppo sia fermo dal 2009 sono moltissimi quelli che sperano in una reunion, così tanti che sembra che Wilson stia facendoci un pensierino. Nell’attesa andiamo a rispolverare i loro 10 album in studio cercando di capire quando hanno toppato e quando invece hanno dato il meglio. Buon trip!
10. “The Incident” (2009)
L’ultimo album prima della pausa a tempo indeterminato è anche quello meno riuscito del lotto. E dire che le premesse erano ottime, soprattutto pensando alla lunghissima (oltre 55 minuti!) suite che occupa un intero cd. Non che la tecnica e la produzione difettino di qualcosa, anzi, sono i brani in sé ad avere poco da dire, appaiono stanchi, scialbi, ripetitivi, un mix di cose dette già troppe volte. È indubbio che dopo un disco del genere una pausa fosse necessaria.
9. “Lightbulb Sun” (2000)
Se vi piace il lato pop dei Porcupine Tree questo è il disco che fa per voi. L’album con il quale Steven Wilson cerca di raggiungere i mai sopiti sogni di gloria tramite canzoni semplici ma mai banali. Del resto è quello che sta facendo anche con la sua carriera solista: è partito con dischi 100% prog e poi si è spostato sempre più verso certo pop. Detto ciò Lightbulb Sun contiene gli straordinari 13 minuti di Russia on Ice.
8. “Deadwing” (2005)
I Porcupine Tree prog metal mi hanno sempre convinto poco, mi è sembrato uno dei tanti modi che all’epoca Wilson adottava per far colpo su una platea piuttosto che un’altra. Con questo non voglio dire che Deadwing sia un brutto disco, anzi, in questa lista di dischi brutti non ce ne sono, solo che è è rivestito di una pesantezza che non rende giustizia alla grazia prog-psichdelica dei nostri, ben evidente in momenti come la conclusiva Glass Arm Shattering.
7. “In Absentia” (2002)
I precedenti afflati pop e quelli futuri in direzione prog metal qui si sposano ottimamente con la vena più pinkfloydiana della band. In Absentia è il disco dell’armonia raggiunta prima che le cose si facciano eccessivamente pesanti. Le canzoni sono belle, inventive, dotate di tutti gli elementi in grado di colpire l’attenzione senza per questo diventare ruffiane. In questo disco i Porcupine Tree inventano il loro particolare modo di concepire il rock alternativo, e una canzone di grande bellezza come Blackest Eyes è lì a dimostrarlo.
6. “On the Sunday of Life…” (1992)
Sono particolarmente affezionato a questo disco che nel lontano 1992 mi ha fatto scoprire questa misteriosissima band che poi band non era, visto che a quei tempi Wilson faceva tutto da solo. On the Sunday of Life… è una splendida accozzaglia di psichedelia elettronica che mi lasciò a bocca aperta per quanta roba ci fosse dentro. Anche cose francamente evitabili, che si sente sono un po’ artigianali, ma quando arriva Radioactive Toy fermi tutti! Si tratta di uno dei brano-simbolo dei Porcupine Tree, la miglior canzone che i Pink Floyd non hanno mai inciso. A quel punto si è capito che lo sfuggente Steven non era un burlone, ma un genio in nuce.
5. “Stupid Dream” (1999)
Tra la maturità di Signify e la sbandata pop di Lightbulb Sun c’è Stupid Dream che cerca una via “progressiva” alla canzone e ci fa capire come mettere insieme i ritrovati del miglior rock evolutivo dell’epoca (Radiohead) con le istanze sperimentali portate avanti dal gruppo. Il tutto con grande attenzione affinché i brani siano azzeccati da tutti i punti di vista. Ne cito uno che mette insieme tutto il meglio del gruppo in quel momento: Even Less, manifesto del talento compositivo wilsoniano con un ritornello straordinario. Da cercare anche la seconda parte del pezzo, contenuta nel CD singolo Stranger by the Minute, insieme formano una Echoes del 3000.
4. “Up the Downstair” (1993)
Due anni dopo l’esordio arriva Up the Downstair a sistemare le imperfezioni e a offrire un prodotto meno eterogeneo e più compatto. Con pezzi di prog psichedelico costruiti con originalità e dotati del giusto appeal per non lasciare indifferenti. Steven fa ancora quasi tutto da solo (con già Barbieri ed Edwin nei dintorni), ma cazzeggia meno e si occupa di buttare giù cose come la cosmica title track o la sublime Small Fish, bozzetto lisergico di due minuti che letteralmente spalanca le porte della percezione.
3. “Fear of a Blank Planet” (2007)
Mi rimangio quanto detto prima affermando che i Porcupine Tree prog metal non sono un granché. Qui il prog metal lo hanno fatto alla grande. C’è qualcosa che Fear of a Blank Planet possiede e che non ritrovo in Deadwing, ovvero una pesantezza resa leggera da corposi innesti della solita psichdelia che il gruppo sa così bene plasmare. Quando si riesce a creare un amalgama che resta in equilibrio tra i due fattori non può che esserci un lavoro del genere. E quando si sprofonda nei 17 minuti di Anesthetize non c’è altro da dire.
2. “Signify” (1996)
Oramai i Porcupine Tree sono una band completa, non più il progetto di un singolo, e con questo album e il successivo raggiungono la maturità. Signify ha in sé la vena lisergica degli inizi, la propensione al pop che da lì a poco verrà e anche qualche accenno al rock più corposo che lascia presagire sviluppi futuri. In generale è un gran disco che dimostra quanto il prog non sia un genere solo legati ai fasti dei ’70 ma bensì in costante evoluzione, basta sapere scegliere i giusti ingredienti. Valga per tutti Dark Matter a far capire che grande rivoluzione sia stata questa band.
1. “The Sky Moves Sideways” (1995)
Il posto più alto nel mio cuore lo occupa questo disco. Il terzo del lotto nel quale Steven spazia a 360 gradi tra tutto il meglio della musica: si parte dai consueti accenni ai Pink Floyd e si arriva agli Orb, nel mezzo si incontrano appigli etnici a là Dead Can Dance insieme a bozzetti di folk lunare degno di Nick Drake. Da grande ascoltatore, Wilson mette insieme le sue influenze con gusto e inventiva. I 35 minuti di The Sky Moves Sideways sono il miglior manifesto di questa nuova musica, antica e modernissima allo stesso tempo, che purtroppo non ha fatto molti proseliti ma che è stata in grado, per un momento, di fare pensare che realmente non esistevano confini.