Primi anni ’80: imperano lustrini e disimpegno. In un contesto del genere arrivano tre tipi dall’aria emaciata e scontrosa. Uno di loro non fa mai intravedere gli occhi, celati sotto un paio di occhialini tondi a specchio. Ma quando canta è come un temporale in un’afosa giornata estiva.
I tre si chiamano Mark Hollis, Paul Webb e Lee Harris. Il primo canta e suona la chitarra, il secondo è impegnato al basso, il terzo alla batteria (della formazione hanno fatto parte anche i tastieristi Simon Brenner e Tim Friese-Greene). Provengono da Londra e si sono formati sulle ceneri di un misconosciuto gruppo punk chiamato Reaction. Sono un po’ strani rispetto ai personaggi che girano all’epoca, ma la loro musica è piena di fascino. Fanno una specie di pop elettronico, come tanti all’epoca, ma nel modo di cantare di Hollis, nei suoni usati e nel modo di comporre c’è qualcosa di particolare, una specie di malinconia, di senso di perdita, quasi di imbarazzo. C’è anche tanta forza, certo, ma è come smorzata dall’introversione del leader. Basta vederlo nel video di una delle loro hit, Such a Shame, impacciato ad anticipare quel modo disagiato che caratterizzerà alcuni protagonisti del decennio a venire.
Mark Hollis diventa in breve l’alieno degli anni ’80. E anche la musica del suo gruppo fatica a muoversi tra le catene dorate del pop, infatti sin dall’inizio è anche altro. A un certo punto succede però che questo altro non può essere contenuto e sempre più si fa manifesto fino a esplodere. Le avvisaglie si sentono in modo particolare nel terzo album The Colour of Spring, ma è dal quarto che la band si trasforma, si trasfigura completamente. In che modo lo leggerete più sotto, nella classifica dei loro dischi che, in questo caso più che mai, non può essere “dal più brutto al più bello” perché quasi ogni disco dei Talk Talk è un capolavoro, ma va inquadrato nell’ambito di un percorso che è di un coraggio stupefacente.
Gli artisti che hanno rinunciato al successo per dedicarsi a sperimentare si contano sulle dita di una mano: i Radiohead ad esempio hanno fatto una strada simile ma il cammino è stato più graduale e anche il loro disco più ostico è comunque apprezzato dalla grande massa di fan che si sono conquistati. I Talk Talk invece hanno spiazzato in un modo così profondo che si sono visti da un disco all’altro passare dalle stelle alle stalle. Ma la strada era segnata ed è stata assolutamente consapevole da parte di Mark Hollis che a un certo punto ha anteposto l’amore per la musica intesa come atto artistico ai sogni di gloria. Col senno di poi sappiamo che ha fatto bene, al netto della sua triste scomparsa avvenuta nel 2019 Mark ha fatto capire che a volte non ci sono soldi e fama che tengano, se il proprio cuore indica una via bisogna seguirla, a meno di non volere mettere in piedi una farsa disonesta nei confronti di se stessi e del pubblico. Hollis è stato onesto, di un’onestà che ancora oggi brilla di luce intensissima.
(A integrazione dei dischi in classifica si consiglia di ricuperare anche l’unico omonimo album solista di Mark Hollis, pubblicato nel 1998, un disco nel quale la rarefazione già messa in atto in Spirit of Eden e Laughing Stock tocca vette altissime: otto “canzoni” che mettono in scena un intenso dialogo tra suono e silenzio. Dopo un lavoro del genere non poteva che esserci il nulla).
5. “The Party’s Over” (1982)
L’esordio è un disco di puro synth pop che va a riempire gli scaffali della corrente new romantic, con Duran e Spandau a dettar legge. Ma che i Talk Talk siano qualcosa di diverso lo si capisce subito, c’è un qualcosa che sfonda la coltre di batterie elettroniche e sintetizzatori per comunicare una profonda introspezione. Anche i numeri più vivaci (come gli eccellenti singoli Talk Talk e Today) racchiudono un grumo di inquietudine esistenziale assente nella musica dei colleghi. La soffusa Candy a fine disco fa già presagire futuri sviluppi positivi.
4. “Laughing Stock” (1991)
La trasfigurazione dei Talk Talk è completa. Rispetto agli esordi questo è completamente un altro gruppo. Paul Webb se ne è andato e sono rimasti solo Hollis e Harris contornati da una pletora di strumentisti a dar vita a uno tra i più alti esempi di sperimentazione rock. Qui siamo oltre, non per nulla da questo disco si inizia a parlare di post rock, di un qualcosa che è andato al di là, che è diventato materiale in continuo mutamento e che ingloba forme del jazz più astratto come della musica contemporanea. La voce di Mark è quella di uno spettro, gli strumenti prima dialogano col silenzio e poi esplodono in cacofonie celestiali.
3. “It’s My Life” (1984)
Il secondo passo consegna già un gruppo che ha fatto un balzo enorme rispetto a solo due anni prima. It’s My Life è puro pop ’80 con un’anima avventurosa e una manciata di canzoni belle e inafferrabili. Il singolo omonimo sfreccia tra grida di animali in una pianura selvaggia e libera. “È la mia vita…” canta Mark e lo senti che sta dicendo la verità. Poi c’è Such a Shame e non ti capaciti come un singolo così meravigliosamente strano abbia avuto successo, con lui allucinato che nel video è l’anti-Simon Le Bon per eccellenza. E poi Renée, Tomorrow Started, Dum Dum Girl…
2. “Spirit of Eden” (1988)
Nel 1988 si aspettava con grande curiosità il disco post The Colour of Spring: cosa combineranno stavolta, dove si spingeranno? Il risultato va oltre qualsiasi aspettativa, non perché il disco sia più bello o brutto, ma perché i Talk Talk diventano un altro gruppo, buttano via ogni sogno di successo e gloria e si appropriano della loro musica, senza compromessi. Ci son ancora echi dell’album precedente ma tutto è su un piano differente, il Miles Davis di Get Up With It, i Soft Machine più lunari, il post punk sospeso dei Durutti Column. Tante cose che non ti aspetti. Metti il disco e sulla prima facciata trovi i 20 minuti di The Rainbow/Eden/Desire, prima non ci credi ma poi capisci che sono sempre loro, solo che ti stanno portando su un altro livello. Dischi del genere aiutano a capire veramente cos’è certa musica, a non averne paura.
1. “The Colour of Spring” (1986)
Dopo It’s My Life il passo decisivo che poi porterà alla trasfigurazione di cui sopra. Questo disco fa capire perché i Talk Talk sono stati un fantastico gruppo pop e sono stati un fantastico gruppo sperimentale. Tutte e due le istanze le hanno rese al meglio, ma The Colour of Spring le raggruppa in maniera completamente armonica, senza eccedere in una direzione o nell’altra. È la perfezione che si spoglia dell’elettronica a tutti i costi e viaggia in un suono caldo tra l’adrenalina di Living in Another World, la pressione oscura di Life’s What You Make It (il singolo) e lo struggimento di I Don’t Believe in You. Ma a un certo punto arrivano i sussurri che si incrinano a un passo dal sogno: April 5th e Chameleon Day, tra il Peter Hammill più dolente e il quarto mondo di Jon Hassell. È il 1986, tutto il pianeta danza ma tu capisci che sta per succedere qualcosa.