È impossibile stilare una lista di dischi di Francesco De Gregori che vadano dal più brutto al più bello. Il cantautore romano non ha infatti mai fatto un disco brutto. Si può discutere, volendo, di produzione, che spesse volte ha danneggiato la qualità di canzoni sempre molto belle, di qualche brano minore (quando eccede nell’approccio latino/sudamericano), dove anche lì è l’arrangiamento a penalizzare i brani, ma in quanto a produzione nel suo complesso, De Gregori come i colleghi della sua generazione, Guccini ad esempio, si è sempre tenuto a un livello alto.
Così questa lista va quindi dal disco meno bello al più bello. Sono esclusi i live (ovviamente, visto l’altissimo numero, anche se contengono diversi capolavori inediti come La valigia dell’attore, ad esempio), quelli in coppia, solo due, Theorius Campus con Antonello Venditti e Il fischio del vapore con Giovanna Marini, quest’ultimo poi comprende a parte una ripresa della sua L’abbigliamento di un fuochista, solo brani della tradizione popolare e il disco di brani tradotti di Bob Dylan.
Che dire dunque? Francesco De Gregori è un’eccellenza, come si usa dire oggi, della musica d’autore italiana con pochi rivali. L’unica cosa che si potrebbe rimarcare, essendo lui un cantautore nato all’insegna della musica d’autore americana (Bob Dylan, ma anche Leonard Cohen), cosa che lo segna tutt’ora, è che è un peccato che non si sia mai rivolto a un produttore americano, invece di imitarne il sound. Ve lo imaginate un disco di De Gregori prodotto da T Bone Burnett o Rick Rubin (d’altro canto lo ha fatto anche Jovanotti)?
18“Per brevità chiamato artista” (2008)
Una produzione praticamente inesistente e molti brani appena abbozzati, che ripetono i cliché del cantautore in modo apparentemente svogliato. Se la title track riprende The Window di Cohen, Finestre rotte pesca invece da Someday Baby di Dylan. Spiccano solo due pezzi, L’angelo di Lyon, bellissima composizione dei cantautori americani Tom Russell e Steve Young tradotta dal fratello Luigi, e Celebrazione, coraggiosa presa di distanza dai miti del ’68 anche se dal vivo troverà la sua definizione perfetta, con l’aggiunta di un accattivante bridge che qui manca, segno della frettolosità con cui il disco è stato inciso.
17“Scacchi e tarocchi” (1985)
Un disco che contiene due brani capolavoro come La storia e A pà (dedicata a Pasolini) per forza di cose non può essere brutto. Peccato che il resto del lavoro non si innalzi mai a questi livelli, penalizzato poi dall’insopportabile e invecchiato male suono degli anni ’80, con la batteria che suona come un martello pneumatico specie nella fastidiosa title track. Eppure ci sono altri gioielli, come la dolcissima Ciao ciao (per Luigi Tenco) e la cattivissima Poeti per l’estate, in completa solitudine, che il cantautore ha poi rinnegato perché «troppo astiosa».
16“Sulla strada” (2012)
A tutt’oggi l’ultimo disco di canzoni inedite di De Gregori. Differenti ambientazioni musicali lo rendono un po’ un pastiche, dal rock banale e uguale a cento altri già incisi della title track, a canzoni intrise di romanticismo zuccheroso, come il valzerone di Showtime, Omero al Cantagiro che per l’ennesima volta rimanda alle atmosfere latine di Titanic, la stucchevole Falso movimento e la narcisistica Guarda che non sono io. Belle invece La guerra e Passo d’uomo.
15“Prendere e lasciare” (1996)
Alcune delle più belle canzoni in assoluto di De Gregori (Baci da Pompei, Compagni di viaggio, L’agnello di Dio, Rosa rosae, Un guanto, Stelutis Alpinis) massacrate dalla produzione del chitarrista Corrado Rustici. Registrato a Berkeley in California con anche l’apporto del mago delle tastiere David Sancious, il suono è disconosciuto oggi dallo stesso De Gregori che si pente di averlo lasciato in mano altrui. Chi è causa del suo male pianga se stesso. La bella Prendi questa mano zingara viene inclusa e poi esclusa dal disco per stupidi motivi legali.
14“Terra di nessuno” (1987)
Tastiere ed effetti tipicamente anni ’80, da cui il De Gregori di questo e del disco precedente non riesce a fare a meno non rovinano l’intensità di canzoni come Pilota di guerra, Capatàz, Pane e castagne e Il canto delle sirene, dove emerge forte la sua capacità di pescare nella melodia popolare italiana con sensibilità e capacità uniche. Mimì sarà, benché incisa anche da lei, non è dedicata a Mia Martini, mentre la bella ballata Spalle larghe è una delle sue tipiche confessioni autobiografiche nascoste. Banale invece I matti nella classica descrizione pseudo romantica che non tiene conto del dolore autentico.
13“Amore nel pomeriggio” (2001)
Un disco che soffre di troppi alti e bassi. Se da una parte abbiamo uno dei suoi classici più amati, Sempre e per sempre, la coraggiosa Il cuoco di Salò (arrangiata e prodotta da Franco Battiato), la feroce e epica Condannato a morte, l’intensa Caldo e scuro, dall’altra abbiamo riempitivi come Canzone per l’estate (scritta con Fabrizio De André negli anni 70) e Spad VIII S2489 composta da Guido Guglielminetti e Alessandro Arianti e brani di medio calibro come Quando e qui.
12“La donna cannone” (1983)
Chissà se De Gregori aveva previsto che questo brano, scritto per il film Flirt, sarebbe diventato il suo più famoso e amato di sempre, tanto da obbligarlo a ripeterlo all’infinito ogni sera, a discapito di brani similari ma più belli come La valigia dell’attore? La perla però di questo EP di soli 5 pezzi è la splendida La ragazza e la miniera.
11“Mira Mare 19.4.89” (1989)
Forse il disco più arrabbiato di Francesco De Gregori. Ritratti amari di una società fatta di parvenza, ipocrisia, bullismo dei potenti, nichilismo, “legalizzare la mafia”, analfabetismo emotivo, “l’apocalisse, in un racconto di fantascienza”, dottori obiettori di coscienza che fanno aborti in cliniche private. De Gregori descrive un futuro che accadrà da lì a poco, per chiudere con una delicata preghiera dove, nella solitudine e nel ritiro, è ancora possibile scorgere una “luce sopra di noi”. Dall’interno di un cosmodromo messicano.
10“De Gregori” (1978)
Il ritorno alla musica dopo due anni di ritiro in seguito al “processo proletario” subito durante un concerto al Palalido di Milano. De Gregori esce da quel periodo buio e allontana gli anni ’70 con un disco arioso, quasi pop, con suoni e arrangiamenti piacevolmente radiofonici. L’hit single è Generale, Raggio di sole è la dedica felice ai figli appena nati, ma non mancano i riferimenti cupi a un passato non troppo lontano, come L’impiccato e una toccante, quasi jannacciana, Due zingari.
9“Calypsos” (2006)
Ingiustamente dimenticato anche dall’artista stesso, è forse il disco dove le influenze dylaniane sono maggiori. È un lavoro assolutamente godibile, molto intimo e riflessivo, contenente forse la più bella canzone d’amore di De Gregori, la straziante e commovente Cardiologia. C’è spazio anche per un rock aggressivo come ormai il cantautore e la sua band sanno fare (Mayday) e per una bellissima ballata notturna e visionaria, Per le strade di Roma. Da rivalutare.
8“Viva l’Italia” (1979)
Il disco della consacrazione e del tentato lancio internazionale, dopo i fasti del Banana Republic Tour in coppia con Lucio Dalla. Con la produzione illustre di Andrew Loog Oldham, l’uomo che aveva lanciato i Rolling Stones, e musicisti inglesi, De Gregori produce uno dei suoi capolavori, impreziosito dall’inno alternativo d’Italia della title track. Ma ogni canzone è di classe superiore. Venne registrata anche una versione in inglese che però è rimasta nei cassetti.
7“Canzoni d’amore” (1992)
La rabbia del disco precedente emerge anche qui, nei confronti di speculatori, ipocriti, stragi mafiose, critici musicali e addirittura Bettino Craxi, con lo strumming dylaniano de La ballata dell’Uomo Ragno, composta in clima di Tangentopoli, ma poi ripudiata. Ma sono tre i pezzi, di lunghezza inusuale per il cantautore (uno di oltre otto minuti) che fanno venire i brividi: le bellissime Tutto più chiaro che qui, Povero me e Rumore di niente. Meditazioni sulla morte, la solitudine e la difficoltà di stare al mondo.
6“Pezzi” (2005)
L’apertura è affidata alla incalzante (e dylaniana) title track seguita dal rock blues di Numeri da scaricare e quindi la furente Il panorama di Betlemme. Un triplete rock come mai prima, senza le esagerazioni alla Rustici, ma anzi con una dimestichezza ormai acquisita in modo esemplare dalla sua live band ormai da tempo. A questi brani si aggiungono intense ballate dal sapore anni ’70 e altri brani elettrici, tanto da farne uno dei dischi più omogenei e americani del nostro. Testi duri, politici, ma anche tanta malinconia del passato.
5“Titanic” (1982)
Forse il suo disco più amato e di più facile accesso, grazie a successi diventati popolari come La leva calcistica del ’68 e la title track. Sorta di concept album impostato sulla tragedia della nave affondata come metafora di un mondo in balia dell’apocalisse, recupera ambientazioni folk di inizio carriera come L’abbigliamento di un fuochista in compagnia della vecchia amica Giovanna Marini e apre il primo spiraglio verso la grande musica popolare italiana di inizio Novecento in I muscoli del capitano. Splendida e toccante San Lorenzo, inutile e banale Centocinquanta stelle.
4“Alice non lo sa” (1973)
Gli arrangiamenti un po’ barocchi e un po’ prog come vuole la moda dell’epoca non inficiano quello che è uno degli esordi più fulminanti della canzone d’autore italiana, benché fortemente debitore di un artista come Leonard Cohen dal punto di vista musicale e Bob Dylan da quello dei testi. Un disco che spezza in due la scena musicale italiana, inserendo un linguaggio nuovo, di altissimo livello poetico, fatto di intime riflessioni ma anche denunce coraggiose del moralismo imperante (Alice) tanto da subire la censura. Saigon, unico brano dall’incedere rock, riflette l’atmosfera politica del tempo.
3“Francesco De Gregori” (1974)
Scarno e asciutto, acustico e dylaniano al midollo (Cercando un altro Egitto), quasi del tutto ripudiato da De Gregori che arrivò a definirlo «il disco più brutto che ho fatto», è invece una raccolta di canzoni bellissime, che affondano nella confusione ideologica e personale del periodo storico, autentico manifesto poetico degli anni ’70. Non c’è un brano minore, dalla splendida Informazioni di Vincent alla commovente Bene. Un disco che andrebbe ripresentato per intero dal vivo oggi.
2“Bufalo Bill” (1976)
Il sogno americano, inevitabile per qualunque giovane cresciuto tra anni ’60 e ’70. Ma anche incubo americano, dalla strage operata dai marine in un cinema al pilota precipitato nel canale di Sicilia (che poi è un rifermento al giornalista Mauro De Mauro ucciso dalla mafia). E ancora: Luigi Tenco, gli immigrati meridionali, il ’68 come distruzione dei miti. C’è tutto in questo disco, fortemente influenzato dal Dylan di New Morning e di John Wesley Harding nel suono, ma soprattutto forse il suo capolavoro assoluto, la struggente e tenerissima Santa Lucia.
1“Rimmel” (1975)
Il disco perfetto, registrato di nascosto. Qualità sonora incredibile per i tempi, accompagnamento strumentale semplice ma elegante, canzoni raffinatissime e coinvolgenti. Dalla perla indimenticabile che intitola l’album a piccole istantanee amorose come Pezzi di vetro, dall’inno proletario (frainteso) di Pablo, la prima collaborazione con Lucio Dalla, al fascismo descritto in pura poesia come nessuno ha mai saputo fare in Le storie di ieri, fino alla citazione di Buonanotte fiorellino, tutto qui suona come la maturità assoluta di De Gregori. E pensare che aveva solo 25 anni.