Tutti i dischi dei Dream Syndicate, dal peggiore al migliore (secondo Steve Wynn) | Rolling Stone Italia
Una band, due vite

Tutti i dischi dei Dream Syndicate, dal peggiore al migliore (secondo Steve Wynn)

Abbiamo chiesto al musicista di mettere in fila gli otto album in studio della band. Pensate che ‘Medicine Show’ sia il migliore? Lui no

Tutti i dischi dei Dream Syndicate, dal peggiore al migliore (secondo Steve Wynn)

La prima formazione dei Dream Syndicate: Dennis Duck, Kendra Smith, Steve Wynn, Karl Precoda

Foto: Lisa Haun/Michael Ochs Archives/Getty Images

Tre cose che è bene sapere prima di leggere la classifica in cui Steve Wynn mette gentilmente in fila, su nostra richiesta, gli otto album dei Dream Syndicate. Prima cosa: a 64 anni, Wynn non è un tipo nostalgico e anzi tiene a sottolineare il valore del repertorio successivo alla reunion del 2012. Non sta cercando di venderlo, lo difende con entusiasmo, pare sincero. Allo stesso tempo, è un critico severo delle incisioni meno riuscite dell’epoca. La seconda è che di recente ha pubblicato un’autobiografia che a gennaio uscirà anche in lingua italiana col titolo Non lo direi se non fosse vero, il racconto dell’ascesa interrotta di una band straordinaria e straordinariamente disfunzionale, un gruppo che forse non ha dato tutto quel che poteva dare, o forse sì. La terza è che al libro è legato un disco solista intitolato Make It Right e che di tutte queste cose abbiamo parlato in questa intervista.

Nati a Los Angeles a inizio anni ’80, nel periodo in cui anche altre band si riallacciavano al passato glorioso del rock psichedelico mettendoci l’energia del punk, i Dream Syndicate erano diversi da tutti gli altri, erano un mix di Velvet Underground (i loro primi santini) e post punk, con un impatto sonoro ferocia, una certa epoca dei testi e mille altre cose. Sono stati tra i beautiful losers degli anni ’80. Anzi, loser fino a un certo punto, visto che sono stati amatissimi negli Stati Uniti e in Europa, hanno aperto per gli amici R.E.M. e per gli U2, hanno avuto e bruciato il loro momento di popolarità.

Hanno fatto due dischi grandiosi e altri due più o meno buoni prima di sciogliersi per scelte sbagliate, mancanza di comunicazione, troppo alcol e forse anche per la scelta poco lungimirante ma normale per l’età di buttarsi nelle cose a capofitto, senza pensarci troppo. «Era una follia, una turbolenza dietro l’altra, un cambiamento dopo l’altro». Si sono poi rimessi assieme con una line-up meno disfunzionale e più stabile, pubblicando altri quattro dischi meno feroci, ma pieni di cose buone. L’hanno fatto perché, come dice Wynn, «meritavamo un finale migliore».

Ecco allora la loro storia discografica secondo il cantante, autore principale, chitarrista, anima, leader, nonché grande fan delle classifiche. «Sono felicissimo di farne una», dice. Anzi, metterebbe in fila volentieri tutti i suoi 33 dischi, non solo quelli della band, e dà una notizia: i Dream Syndicate hanno riacquisito i diritti di uno dei loro album più famosi, Medicine Show, di cui pubblicheranno nel 2025 un box set.

8

Out of the Grey

1986

«L’ho sempre trattato male, ma ora che lo abbiamo rimasterizzato mi piace, così come mi piacciono tutti gli altri album dei Dream Syndicate. La mettiamo come premessa? Mi piacciono tutti». Gli piacciono tutti, ma questo un po’ meno. Arrivato dopo due album notevoli, Out of the Grey è la pecora nera della discografia anni ’80 del gruppo. Le band del debutto The Days of Wine and Roses e di Medicine Show si sono dissolte, la line-up è di nuovo cambiata (fuori il chitarrista Karl Precoda e il bassista Dave Provost, dentro Paul B. Cutler e Mark Walton). Dal vivo sono fenomenali, come dimostra Live at Raji’s, in studio appaiono più blandi e meno affamati, più mainstream (si fa per dire) e meno disperati. «All’epoca è stata una grande delusione, forse per colpa della produzione che fa tanto metà anni ’80». Riascoltato oggi e senza fare paragoni coi due lavori che l’hanno preceduto non è mica male, anche perché contiene pezzi come Boston o Forest for the Trees. «Vero», conviene Wynn. «Ma eravamo la band di Live at Raji’s. Quella band avrebbe dovuto entrare in studio e fare il più grande disco della storia. E invece…».

7

Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions

2022

Prodotto con John Agnello, è l’ultimo album pubblicato (almeno finora) dai Dream Syndicate, il quarto della loro seconda vita. Lo trovo piacevolmente morbido, senza picchi, né scossoni, e non è un complimento. «Secondo me è il nostro disco di più facile ascolto», dice Wynn, «ha qualcosa di pop, di accessibile. Ci sono album, e non parlo solo dei miei, che sono giusti dal punto di vista tecnico, che sono buoni, dove fila tutto liscio. Ecco, questo è uno di quelli». L’altra faccia della medaglia: «Non ha niente di notevole, lo so che è tremendo che lo dica proprio io». Allora lo dico anch’io e vado olte: è il disco più debole della discografia dei Syndicate.

6

Ghost Stories

1988

Nell’ultimo album prima dello scioglimento il suono si fa ancora più elettrico e aggressivo (produce Elliot Mazer, vedi alla voce Neil Young), ma allo stesso tempo ci sono tracce del cantautorato rock di Steve Wynn, che due anni dopo debutterà come solista con Kerosene Man. «Io lo sento come un lavoro emotivamente tosto», dice oggi Wynn. «Sicuramente è stato doloroso viverlo, scriverlo e registrarlo, ma da ascoltare è eccitante». Verissimo, tant’è che io lo avrei messo in una posizione migliore in questa classifica, ma alzo le mani, qui decide Steve.

5

These Times

2019

Dopo sei mesi in tour con i classici e le canzoni di How Did I Find Myself Here?, i “nuovi” Dream Syndicate si allontanano via via dal suono anni ’80 fino a pensare d’essere una nuova band «che ha lo stesso nome e fa delle cover di quella di 30 anni prima». Quando rientrano in studio fanno un disco che a Wynn piace ancora perché «è un po’ strano, con canzoni dall’umore volubile» che spesso hanno ritmi ripetitivi, quasi da trance, e che cercano di raccontare il presente, con almeno un paio di pezzi rimasti delle session del primo album post reunion. Ma è chiaro che la foga di un tempo non c’è più.

4

How Did I Find Myself Here?

2017

«Non sapevamo cosa sarebbe uscito, se un bel disco oppure una schifezza. Ci siamo detti: facciamolo e vediamo che succede». È il primo album dopo la reunion, con una diversa formazione che oltre a Wynn comprende il nuovo chitarrista Jason Victor, oltre al bassista Mark Walton e al batterista Dennis Duck già presenti nell’ultima line-up anni ’80. Alle tastiere c’è l’amico Chris Cacavas. Già presente in passato, diventerà una presenza costante nei dischi del gruppo. È un distillato dello stile della band e dei dischi rock solisti di Wynn, col ritorno in un pezzo dell’amica Kendra Smith, che aveva mollato dopo il primo album. Gli 11 minuti della title track servono a rinverdire i fasti di John Coltrane Stereo Blues. Attenzione: «How Did I Find Myself Here? è probabilmente la mia canzone preferita di sempre dei Dream Syndicate».

3

Medicine Show

1984

«Contiene alcune fra le canzoni che preferisco tra quelle che ho scritto», dice Wynn. Siamo tutti d’accordo. È uno dei dischi più amati del gruppo, quello che gli fa fare il salto da una piccola (Slash) a una grossa etichetta (A&M). Ha un’energia in certi passaggi maniacale. Prodotto da Sandy Pearlman, uno che aveva lavorato coi Blue Öyster Cult, ha un suono più vario e potente, più rock in senso tradizionale. Molti lo metterebbero al primo posto di questa classifica (eccomi). Registrarlo è stata però un’esperienza lunga e tormentata specialmente per Wynn, che si è sentito in qualche modo escluso dalla finalizzazione del sound di cui si sono occupati Pearlman e il chitarrista Karl Precoda. La notizia: «Dopo una battaglia legale di cinque anni con la Universal, in estate siamo rientrati in possesso dei diritti. Nel 2025 lo ripubblicheremo come box set in versione rimasterizzata e con altre tracce risalenti a quello stesso periodo».

2

The Universe Inside

2020

«So che questa scelta risulterà sorprendente», dice Steve Wynn. Effettivamente, non molti considerano il terzo album post reunion meglio di Medicine Show, ma se è qui, un motivo c’è. Anzi, più di uno. Intanto è un gran bel disco e merita effettivamente più degli altri post reunion. È forse il più strano dei Dream Syndicate, che per realizzarlo decidono di prendere un singolo aspetto del loro stile, l’improvvisazione e le jam alla John Coltrane Stereo Blues, portandolo alle estreme conseguenze, «spingendo le canzoni oltre i loro limiti razionali, oltre lo sfinimento e il senso di ripetizione, per portarle nello spazio interstellare». Infine, è per Wynn «il disco che mai avrei pensato di fare. Ci sono album che vengono fuori facilmente, senza fatica, esattamente come li hai pensati. È il caso del primo dei Gutterball, di Melting in the Dark o Here Come the Miracles. E poi ci sono dischi che fai con una grande idea ambiziosa in testa, un’idea che spesso riesci a realizzare solo al 90% e questa cosa ti fa impazzire perché non fai che pensare a quel 10% mancante. The Universe Inside è un disco ambizioso in cui per una volta è andato tutto come doveva andare. Roba da non crederci».

1

The Days of Wine and Roses

1982

«Questo disco mi ha cambiato la vita. Se non esistesse, non sarei qui». È il 1982 e dopo aver pubblicato un EP di quattro pezzi, Steve Wynn, il chitarrista Karl Precoda, la bassista e cantante Kendra Smith e il batterista Dennis Duck esordiscono con un album in cui si sente lo spirito selvaggio del post punk, ma anche un gran senso della storia. Le influenze sono in bella evidenza, da Tell Me When It’s Over ispirata da Save It for Later degli English Beat a When You Smile mezza sgraffignata dai Soft Boys, passando per Velvet Underground, Fall, Black Flag, Iggy Pop, Gun Club, Bob Dylan per la title track (vedi Tombstone Blues). Tutto però diventa distintamente personale. All’epoca Wynn diceva che in un buon disco rock ci devono essere quattro elementi chiave: deve essere sexy, ma non in modo gratuito o sfacciato; deve essere divertente, nel senso che la band non deve prendersi troppo sul serio; devi metterti un po’ di paura perché deve rappresentare un viaggio pericoloso anzitutto dentro sé stessi; deve essere caotico e imprevedibile, dare l’idea che tutto stia per crollare da un momento all’altro. Sono gli elementi che fanno grande The Days of Wine and Roses.

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