I critici cattivelli di una volta accusavano i Gentle Giant di proporre una musica pomposa e barocca, piena di astrusi e prolissi riferimenti medievali; in più, visto che ogni componente del gruppo suonava una miriade di strumenti, li ritenevano pallosissimi virtuosi. Erano insomma l’emblema di tutto quello che il rock non dovrebbe essere.
E dire che quando la loro storia era iniziata i tre giovani fratelli scozzesi Derek, Ray e Phil Shulman si dedicavano a uno scoppiettante rhythm’n’blues con i Simon Dupree & the Big Sound, band che, tra le altre cose, ospitò per un breve periodo tale Reginald Dwight prima che questi si lanciasse nella carriera solista con il nome di Elton John. Al passaggio di decennio poi cambiarono formazione e ragione sociale, arrivò il “gigante gentile” (con tanto di storia dettagliata delle sue origini contenuta nel primo album) e la musica prese a veleggiare verso i reami del progressive, facendo esplodere la fantasia.
Memore delle robuste impalcature r&b della passata esperienza, il sound di Gentle Giant era anzitutto corposo e appassionato. Non pochi i momenti nel quale strabordava in un torrido hard rock coadiuvato dalla rocciosa chitarra di Gary Green. A quel punto il cantante/sassofonista/bassista Derek Shulman si impossessava del microfono lanciando al galoppo la band. Suo polo opposto era il tastierista/violoncellista/vibrafonista/ecc Kerry Minnear, dotato di una voce fatata che decorava i momenti più visionari. Tra hard rock e visioni c’era di tutto: uno dei più riusciti amalgama tra rock, madrigali a cinque voci che sembravano mille (c’è da credere che i Queen abbiano ascoltato parecchio i Gentle Giant), jazz, folk e atonalità.
I migliori Gentle Giant (ovvero quelli dei primi sette album) non rinunciavano mai a rendere i loro brani dei veri puzzle con incastri ritmici impossibili e arrangiamenti che se ascoltati con attenzione rischiano di provocare un senso di vertigine. Ogni strumento compariva e svaniva, lo si sentiva in un punto e lo si ritrovava altrove quasi avesse fatto un salto dimensionale, un tripudio di frammenti sonori che pazzeggiavano nello spettro acustico facendo smarrire le coordinate. Vogliamo poi parlare degli esaltanti momenti funk-prog che spesso facevano capolino? Funk e Medioevo, roba kitsch sulla carta, ma una figata nella realtà parallela marchiata GG.
Una parola poi sul loro virtuosismo: è vero, erano dei campioni, ma non usavano tali capacità per sfoggiare una vuota maestria. Ogni acrobazia era perfettamente utile ai brani. Da giovani in larga parte autodidatti, cresciuti in un ambiente proletario, i fratelli Shulman & co. usavano l’estro per sputare in faccia tutta la loro sfrenata voglia di andare oltre qualsiasi barriera, sociale e musicale, sfruttando unicamente le proprie brillanti intuizioni.
I Gentle Giant hanno avuto vita breve, solo dieci anni. Passato il momento dorato del prog si videro costretti a semplificare sempre più la loro proposta, visto che quelle cose astruse non le voleva sentire più nessuno. Un gran peccato per musicisti di quella risma che infatti a un certo punto, piuttosto che piegarsi ai gusti imperanti, preferirono gettare la spugna. Ci restano i loro album a farci capire cosa vuole dire prendere il rock e fargli un upgrade.
Giant For a Day
1978
Già la copertina, con il mitico gigante ridotto a un maschera da ritagliare e indossare, non lascia presagire nulla di buono. All’ascolto poi le cose si rivelano anche peggiori. Il fatto è che i Gentle Giant non c’entrano nulla con il rock facilotto di questo disco. Certo, ci sono i cori, la consueta perizia strumentale e qualche sorpresina sparsa, ma le canzoni non si possono sentire.
Interview
1976
Il primo passo falso, i brani cominciano a essere scarsamente ispirati e c’è una gran voglia di esplorare nuove strade. Purtroppo l’influenza diffusa di certo rock americano (con il benestare di Derek Shulman, che da lì a pochi anni diverrà A&R della PolyGram e metterà sotto contratto i Bon Jovi) mal si amalgama con il sound del gruppo. In Give It Back ci provano addirittura col reggae.
Civilian
1980
È il canto del cigno del gruppo, ma rappresenta la zampata che non ti aspetti. Solita semplificazione degli schemi, ma stavolta brani mediamente più centrati, con una svecchiata ai suoni di tastiere e una positiva propensione rock/wave che faceva presagire interessanti scenari futuri.
The Missing Piece
1977
Brioso e scattante, The Missing Piece fa meglio di Interview e mostra la strada intrapresa dai Gentle Giant nel triennio ’74-77: non modificano più di tanto la loro proposta ma rendono più accessibili i consueti rebus sonori. Anche se i bei tempi sembrano trascorsi il disco diverte, con Memories of Old Days che torna alle atmosfere del passato e fa scappare una lacrimuccia.
The Power and the Glory
1974
Nel secondo concept la band comincia ad alleggerire il suono. Qua e là emergono i primi dettami prog-funk, cose veramente gustose con un Clavinet alla Stevie Wonder a creare una sorta di ibrido col pop che avrebbe meritato migliori sviluppi. Proclamation è una bombetta che quando non te l’aspetti deflagra con tutti i cori dell’universo.
Gentle Giant
1970
Il primo album non si scorda mai. E non si può rimanere indifferenti al fascino antico che questo lavoro mette in campo, a tratti par di sentire il profumo di certe leggende della tradizione inglese mentre ci si rolla una canna nel bosco e si affonda al suono di Funny Ways, dall’animo incantato che a tratti si amplia in squarci cosmici. Poi il gruppo esplora atonalità assortite, vengono a galla minuetti, si omaggia la regina (ai Queen continuano a fischiare le orecchie) e si incazza brutalmente nel manifesto Giant.
In a Glass House
1973
È uno dei lavori più magnificamente contorti mai pubblicati, nonché la prova più ardua e sperimentale dei Gentle Giant. Ci vuole veramente del genio a immaginare brani che sono dei veri enigmi e non si capisce mai dove vogliano andare a parare, nei quali si rischia di perdersi con facilità. Ma i Gentle Giant sono bravissimi a tessere il loro filo di Arianna e condurre alla meta, storditi e increduli. Non dico altro, vi invito solo a entrare nel labirinto.
Three Friends
1972
I Gentle Giant arrivano al primo concept album mettendo in scena le vicende di tre amici dalle diverse esperienze che a un certo punto si riuniscono per analizzare i propri percorsi esistenziali. Il disco ha punti di assoluta bellezza come Schooldays, prima nervosa poi impalpabile e sospesa, con un vibrafono che un attimo è jazz e presto muta in avanguardia. Poi scende la calma serafica e un Kerry Minnear angelico evoca scenari di toccante malinconia. Al termine la title track ascende ai reami del prog più possente.
Free Hand
1975
Esperimento: mettere su On Reflection, secondo brano di Free Hand, e farla ascoltare a una persona che non conosce i Gentle Giant. Vi maledirà in eterno o se ne innamorerà perdutamente. On Reflection è uno dei più pazzeschi deliri di tutto il prog, con armonie polifoniche vocali in più parti, contrappunti, canoni, i cantanti che schizzano ovunque e quando li hai persi tornano magicamente insieme. Poi, mentre sei immerso in una dolce nenia rinascimentale, partono col ritmo e ti inchiodano. È la supernova del prog.
Octopus
1972
Octopus è il disco “classico” dei Gentle Giant, quello più volte citato e amato dai fan. Primo nelle classifiche di vendita italiane (mentre in patria erano snobbati, come i Genesis) e fasciato in una mirabolante copertina di Roger Dean, il quarto album della band è un ottimo bignami di tutti gli elementi che caratterizzano il gruppo, dai madrigali pazzi alle sfuriate hard passando persino per una struggente love song (Think of Me with Kindness) rivista secondo i loro parametri.
Acquiring the Taste
1971
Acquiring the Taste non è un disco, è un trattato di alchimia. È l’immagine di un medioevo allucinato nel quale spettrali presenze si muovono su un palco di marionette, con la musica che esplora sabba persi nella notte dei tempi e poi si innalza tra le alte navate di una cattedrale gotica. È un album notturno, con un gatto nero che muove i suoi passi felpati tra dissonanze misteriche. Non mancano sprazzi di luce abbagliante, ma è un’illusione, è il clima soprannaturale a farla da padrone, ammaliando irrimediabilmente.