La notizia del ritorno discografico dei Jesus Lizard con il nuovo album Rack è stata annunciata poche settimane dopo la morte di Steve Albini, nume tutelare del gruppo di Chicago e suo produttore per tutti e quattro gli album sulla Touch and Go, etichetta di culto del rock indipendente. Il settimo album non è prodotto da Albini, ma da Paul Allen: nulla di male, anche se ci sarebbe piaciuto un suo ultimo suggello in veste di produttore su quella che lui stesso non esitò a definire la «migliore band degli anni ’90».
Di sicuro il cuore del noise rock americano di quel decennio è racchiuso in alcuni tra i capisaldi prodotti da Steve Albini coi Jesus Lizard (soprannome del basilisco piumato, una lucertola che corre a pelo d’acqua, agitando vorticosamente le zampe). La storia di questi ultimi, nati dallo scioglimento degli Scratch Acid (leggendario gruppo noise-punk texano, da cui provengono il cantante David Yow e il bassista David Wm. Sims), si intreccia non solo con quella di Albini, ma anche con quella dei Nirvana di Kurt Cobain, grande estimatore degli Scratch Acid e dei Jesus Lizard: insieme i Nirvana e i Jesus Lizard condividono il singolo split Puss / Oh, The Guilt (1993), ma appare subito chiaro che la musica dei Jesus Lizard è troppo ostica per raggiungere il grande pubblico e ambire al successo commerciale: il canto belluino e sguaiato, a tratti psicotico, dello scalmanato David Yow, con la sua ossessione per le immagini truculente e scatologiche, l’affilata e tagliente chitarra di Duane Denison (nel cui stile affiorano le influenze non solo del punk e del blues, ma anche della musica contemporanea di Cage, Nono, Berio, Stockhausen e Glenn Branca), la sezione ritmica possente e martellante di Sims e Mac McNeilly (alla batteria) non hanno nulla di melodico, sfidano ogni regola armonica, assurgendo a perfetta colonna sonora del nichilismo e dell’inquietudine dell’uomo contemporaneo.
Quella dei Jesus Lizard non è una musica accomodante, conciliante, ma disturbante, claustrofobica, ossessiva. Potrà sembrare a un primo ascolto monotona e ripetitiva, ma in realtà ha uno stile assolutamente unico e riconoscibile, seppur debitore del blues malato dei Birthday Party, del primo Nick Cave, della follia dadaista di Captain Beefheart e del blues-rock ad elevato tasso alcolico dei Beasts of Bourbon.
Ne ripercorriamo la vicenda artistica, attraverso i sette album in studio, tutti con titoli di una sola parola di quattro lettere.
Blue
1998Nel sesto album Blue, prodotto da Andy Gill dei Gang of Four, con Jim Kimball (Laughing Hyenas e Mule) alla batteria al posto del dimissionario Mac McNeilly, la band tenta l’effetto sorpresa, percorrendo strade insolite rispetto al suo tipico sound. L’annunciata e tanto vociferata svolta post rock consiste in realtà in un suono più ricercato, in cui affiorano effetti elettronici e tastiere di ascendenza new wave. I Jesus Lizard sono quasi irriconoscibili, artefici in certi passaggi di un rock innocuo, scontato e prevedibile, in bilico tra sperimentalismi assortiti e scialbo hard rock da classifica. Fanno eccezione le frenetiche e convulse I Can Learn e Cold Water, degne dei momenti migliori. Non è un caso che dopo i due lavori su major, Shot e Blue, la band si scioglierà.
Shot
1996Con Shot, quinto album della band e prima uscita per il colosso major Capitol, ha inizio la parabola discendente: inevitabile sarà la rottura da un lato con Albini, noto per la sua avversione al grande mercato discografico, dall’altro col pubblico più intransigente, che interpreta il passaggio alla major come un tradimento dell’originario spirito punk. Il disco riceve critiche contrastanti: per alcuni è un coraggioso tentativo di evolversi, per altri una prova minore. Il produttore Garth Richardson (in arte GGGarth) smussa le asperità e leviga il suono, che perde in cattiveria ed efferatezza e tende a uno stile più classicamente hard rock: nulla da eccepire sull’esecuzione strumentale, come al solito eccelsa, ma già si avverte un certo calo di ispirazione.
Rack
2024Nessuno si sarebbe mai aspettato nel 2024 un ritorno dei Jesus Lizard con un nuovo album, Rack, il settimo della discografia, pubblicato dall’etichetta indipendente Ipecac di Mike Patton (Faith No More, Fantômas, Tomahawk, Mr. Bungle). Nonostante la non più giovane età dei componenti della band, tornata alla formazione originale (già nella sua line-up classica con la reunion del 2009), i Jesus Lizard sono ancora in forma smagliante e non hanno perso un briciolo della loro carica, potenza e forza d’impatto. Non siamo certo ai livelli dei loro capolavori Goat, Liar e Down, ma il gruppo è tornato a picchiare duro come faceva un tempo, con il suo tipico noise/punk-rock granitico e corrosivo, che ricorda più il suono impetuoso di Liar che quello più addomesticato delle prove precedenti. Non è il migliore album dei Jesus Lizard, ma è il migliore che potessero realizzare dopo una lunga pausa.
Head
1990La drum machine dell’EP d’esordio Pure (1989) viene finalmente sostituita da un batterista in carne e ossa, il versatile Mac McNeilly, grande appassionato di jazz, capace di spaziare tra lo swing del jazz e le ritmiche più esagitate del punk e del noise. Il primo album Head porta a un’ulteriore maturazione tecnica la formula della band: la fanno da protagonisti l’elegante tocco jazzato della batteria, i fraseggi boogie-rock e blues di chitarra e soprattutto la vocalità esasperata di Yow che, col suo canto sgraziato e il suo biascicare perverso e contorto a metà tra Captain Beefheart, il primo Nick Cave, David Thomas dei Pere Ubu e una voce beffarda alla Johnny Rotten, mette in scena i suoi testi iperrealisti dai contenuti osceni.
Down
1994Down è il quarto album della band, il più professionale e sofisticato della loro discografia. Masterizzato presso gli Abbey Road Studios di Londra, è il lavoro che concede più spazio alla melodia, quello in cui la tecnica strumentale si affina e la formula del quartetto giunge a un perfetto equilibrio tra ispirazione e maturazione compositiva. Il canto di David Yow quasi si normalizza, mentre a impressionare è soprattutto la chitarra affilata ma elegante del geniale Duane Denison, con tutto il suo sconfinato repertorio di effettistica e una capacità camaleontica di suonare gli stili più disparati. Maggiore è l’attenzione alla forma canzone e agli arrangiamenti, come dimostrano il passo felpato d’impronta jazz-blues di The Associate e la struggente ballata Horse, impreziosita dalle tastiere di Sims e dalle urla sofferte e disperate di Yow.
Liar
1992Nel terzo album Liar, il più duro e granitico mai realizzato dal quartetto, il noise-blues sconvolto di Goat lascia spazio a un suono ancora più corrosivo, brutale e dinamitardo, ottimamente prodotto, che fa emergere le mai troppo celate influenze roots (il rock-blues sudista degli ZZ Top, prima di tutto). Le velleità sperimentali di Goat sono canalizzate in brani più strutturati dove prevale il formato canzone (definizione da prendere con le dovute cautele) e appare evidente l’ulteriore maturazione tecnica della band: alcuni brani (tra tutti, Boilermaker, Gladiator, Puss) sono sconquassanti e laceranti cannonate sonore, marchiate a fuoco dalle rasoiate chitarristiche di Denison.
Goat
1991Con Goat, il secondo album in studio, il gruppo si fa notare al di fuori dei ristretti confini del circuito underground: non è un caso che la rivista Spin (una delle più mainstream che ci sia negli Stati Uniti) si accorgerà di loro e ne tesserà le lodi. In effetti, potenza e perizia tecnico-strumentale sono ai massimi livelli e Goat è ancora oggi per molti il capolavoro insuperato dei Jesus Lizard, uno dei più brillanti e geniali esempi di rock “deviato” degli anni ’90, un classico assoluto del noise rock, che farà scuola per molte formazioni a venire. La sezione ritmica è potentissima, gli strumenti si incastrano con precisione chirurgica e la musica è un’urticante miscela a base di noise rock, hardcore punk, hard boogie e blues. Il disco mette in fila nove brani incendiari e devastanti, dal trittico iniziale mozzafiato (Then Comes Dudley, Mouth Breather, Nub) all’epica Monkey Trick, tra i vertici della loro discografia.