Quando si prende in esame l’opera di gruppi che hanno cambiato radicalmente il modo di concepire la musica rock nel Novecento come i Led Zeppelin, conta solo la qualità dei brani o il debutto ha più valore solo per il fatto di rappresentare l’inizio di tutto? È meno riuscito Presence o In Through the Outdoor? Come si mettono in ordine i primi quattro album? È davvero tutto oro quello che luccica come pensava la ragazza di Starway to Heaven? Abbiamo deciso di provare a sfidare noi stessi e le forze oscure che da sempre aleggiano intorno alla casa londinese di Jimmy Page. Sperando di non avere ripercussioni di sorta.
Coda
1982«Un album che non avremmo mai dovuto pubblicare». Questo ha sempre pensato Robert Plant dell’ultimo capitolo della storia dello Zeppelin, fatto di brani scartati negli anni precedenti. E se da una parte è difficile dargli torto, è pur vero che non tutto è da buttare. In primis Wearing and Tearing, sorta di risposta all’ondata punk e alle sue pernacchie nei confronti del gruppo, ma anche We’re Gonna Groove di Ben E. King e la versione di I Can’t Quit You Baby all’Albert Hall. Non basta nemmeno l’omaggio di Bonzo’s Montreux per rendere onore a un’epopea come quella dei Led Zeppelin.
In Through the Outdoor
1979L’ultimo album del gruppo con John Bonham in vita rappresenta un po’ l’opposto del precedente Presence: questa volta il sopravvento compositivo lo prendono Plant e Jones, con Page fuori uso a causa della sempre maggiore dipendenza da eroina e Bonham ormai alcolista conclamato. Il disco parte fortissimo con In the Evening, instant classic in cui Page sembra ancora in pieno possesso dei suoi talenti, ma tutto si spegne molto presto, con episodi quantomeno discutibili come Carouselambra e Hot Dog. I testi di Plant riflettono il tumulto interiore legato alla scomparsa del figlio, evidente soprattutto in All My Love. Una band ormai allo sbando, probabilmente giunta al capolinea prima della scomparsa del suo batterista. Considerato ciò che avevano fatto tra il ’69 e il ’75, il finale peggiore di carriera di sempre.
Presence
1976Con Plant costretto sulla sedia a rotelle dopo il brutto incidente stradale in Marocco, mentre Page è a Cefalù a cercare di comprare la casa di Aleister Crowley, gli Zep registrano l’album più chitarristico della loro carriera. Page, nel pieno della dipendenza, si chiude in casa e tira fuori alcune delle cose più pesanti mai scritte, anche se il songwriting risente della situazione complicata dei componenti della band. Ne usciranno solo due classici, Achille’s Last Stand e Nobody’s Fault But Mine, che comunque potrebbero valere intere carriere. Più quella perla nascosta di For Your Life, suonata per la prima volta solo alla O2 Arena nel 2007. Nel corso del tour successivo, funestato da incidenti di ogni tipo, Plant viene informato della morte del figlio di 5 anni. In qualche modo, qui finiscono i Led Zeppelin.
Houses of the Holy
1973Dopo un filotto di dischi come i precedenti quattro era francamente impossibile replicare una formula senza che questa apparisse quantomeno già sentita. Eppure la vena creativa di Page, Plant, Jones e Bonham sembra inesauribile. Houses of the Holy risente soprattutto del fatto di arrivare dopo l’album di Starway to Heaven, cosa che avrebbe demolito qualsiasi cosa e forse del fatto di non contenere brani dall’impatto immediato quali erano stati Whole Lotta Love, Celebration Day o Rock and Roll. Nel complesso, però, il disco è un monolito di potenza e classe senza tempo. No Quarter è il capolavoro, D’yer Mak’er l’esperimento reggae. Dopo i simboli del precedente, una copertina esoterica crea ulteriore fama al gruppo.
Led Zeppelin
1969L’inizio di tutto. Registrato di notte agli Olympic Studios di Londra quando la band aveva iniziato a suonare insieme da poco più di un mese, Led Zeppelin, insieme forse ai soli Are You Experienced?, The Doors e The Velvet Underground & Nico, rappresenta il debutto più sconvolgente della fine degli anni ’60. Il suono che non si era mai sentito prima e che, al contrario di Hendrix, viene compreso prima in America che in Inghilterra, lascia di sasso ancora oggi. Page aveva già perfettamente in testa prima di entrare in studio l’alternanza di luci e ombre che diventerà il canovaccio di tutte le opere successive. Spiccano la trasfigurazione di Babe I’m Gonna Leave You (nota in precedenza nella versione di Joan Baez) e la spettrale Dazed and Confused.
Led Zeppelin III
1970La quiete dopo la tempesta. Se Led Zeppelin II, pur contenendo episodi più rilassati come Thank You e in parte What Is and What Should Never Be, si era imposto per la violenza sonora, il terzo disco della band viene ricordato come quello bucolico, in cui nuovi elementi acustici e folk arricchiscono ulteriormente lo spettro sonoro degli Zep. Ancora una volta la scelta è dovuta a Page, che avverte il bisogno di allargare gli orizzonti. I risultati più evidenti sono Gallows Pole e That’s the Way, ma è il mood generale del disco a rompere col passato. Certo, quando la band decide di alzare i giri del motore ne escono pezzi come Immigrant Song e Celebration Day, ma la stampa, che prima li criticava per il motivo opposto, ora vede di cattivo occhio l’ammorbidimento del sound.
Led Zeppelin II
1969Una dichiarazione d’intenti tra le più iconiche della storia del rock. Se con l’album di debutto la band aveva mostrato molto di sé, stare on the road per un anno intero migliora l’intesa tra i musicisti, che ormai hanno piena consapevolezza delle proprie capacità. Plant inizia a scrivere i testi dei brani, dividendoseli ancora con Page, dando vita ad alcuni dei passaggi più ficcanti (e lascivi) dell’intera carriera. A sconvolgere, però, è la violenza sonora sprigionata dal disco, con le capacità produttive di Page che fanno un balzo in avanti grazie alla presenza in studio di Eddie Kramer. Da qui a metà anni ’70 sarà difficile trovare punti deboli di qualche tipo.
Led Zeppelin IV
1971Per molti (e come dar loro torto), il quarto lavoro dei Led Zeppelin non ha rivali. Non solo all’interno della discografia del gruppo, ma in generale nella storia del rock. Tuttavia è davvero complicato fare una scelta capace di accontentare tutti, soprattutto considerando la semiperfezione dei loro primi quattro lavori. Per spiegare l’immensità di questo disco basta pensare che, alla lunga, il brano a venire prima a noia è forse paradossalmente Stairway to Heaven, senza paura di risultare blasfemi. A partire dalla scelta dei quattro simboli ad indicare ogni membro della band, passando per la location scelta per la registrazione (la casa colonica Headley Grange nello Hampshire) passando per otto tracce che non presentano il benché minimo punto debole e una produzione che farà proseliti, tutto in Led Zeppelin IV è perfetto. Ecco, forse persino troppo per degli umani come noi.
Physical Graffiti
1975Un doppio album fatto in parte di scarti delle sessioni precedenti, con intatta la grandeur di Led Zeppelin IV e forse lo stesso numero di brani entrati nella leggenda. Aggiungeteci poi l’ennesima copertina entrata in tempo record nell’immaginario di qualsiasi amante del rock, forse ancora più delle precedenti. Se fosse uscito come disco singolo, scegliendo di eliminare il secondo lato, questo sarebbe probabilmente il disco rock, hard rock o come diavolo volete chiamarlo, migliore di tutti i tempi. Ma è proprio grazie ad alcuni episodi più particolari del secondo disco che la sua importanza supera persino quella del quarto disco. In Physical Graffiti è raccolta un’intera epoca e praticamente ogni sfumatura chitarristica conosciuta. Non c’è Stairway to Heaven? C’è Kashmir. Non c’è When the Levee Breaks? Prendetevi In My Time of Dying. Qui dentro c’è l’essenza del rock tutto, autoindulgenza compresa. È la summa del viaggio immaginato da Page alla fine del 1968. Dopo niente sarà più uguale, in primis per i Led Zeppelin.