Mettiamo le mani avanti: provare a dare sostanza a una summa esaustiva, qualitativamente ordinata, soddisfacente e – soprattutto – non divisiva della produzione discografica dell’artista che, più di ogni altro, ha sdoganato il concetto di maschera – nel senso pirandelliano del termine – all’interno del mercato musicale italiano è un compito non facile.
Non fosse altro che, nell’arco di quasi trent’anni di carriera, abbiamo conosciuto diversi Caparezza, tutti animati da una sorta di ossessione per la frantumazione dell’Io in identità molteplici e diversissime tra loro: il rapper improvvisato e tentato da velleità cantautoriali, che rivendica in pubblica piazza la scelta di non volere cantare di vita di strada e, per scontare questa aberrazione, finisce nel mirino della “scena” fin dal primissimo istante; l’hikikomori ante–litteram che rivendica il suo posto nell’immaginario “Mediaset–oriented” e pastasciuttaro del Bel Paese puntando il dito contro le degenerazioni della movida in salsa italiana, dei reality e di una società sempre più incentrata sul culto dell’immagine; l’agitatore culturale che porta avanti un certo tipo di discorso anti–casta (alle volte elaborato e puntuale, altre un po’ facilone) simile a quello che si potrebbe scorgere sfogliando un libro di Gian Antonio Stella; il romanziere distopico e un po’ complottista che tratteggia futuri tragici per una nazione funestata dall’azione invisibile di squadre e compassi, poteri occulti e grandi agglomerati industriali; il dadaista istrionico che tenta di de–politicizzare la sua produzione per riconciliarsi con l’arte e, infine, l’eremita dalle fascinazioni lacaniane che racconta senza filtri l’inferno della sua mente.
Immergiamoci, dunque, in questo tentativo – assolutamente soggettivo e imperfetto – di classifica, provando a sistematizzare in una cornice di senso il lavoro di un artista complesso, che non ammette zone grigie – il suo fandom lo idolatra innalzandolo a icona messianica, i suoi detrattori non perdono occasione per stigmatizzarlo all’inverosimile – e che, a prescindere da come la si possa pensare, ha aperto un piccolo solco, sfruttando il viatico del mainstream per veicolare al maggior numero di persone possibile concetti complessi travestiti da tormentoni da spiaggia.
8?! (2000)
Primo album della “resurrezione” di Michele Salvemini, reduce dalle sue esperienze brevi e poco esaltanti nelle vesti di MikiMix – pochi anni di scorribande alla disperata rincorsa di un discorso commerciale e orecchiabile che, però, gli hanno portato in dote due dischetti pop dimenticabilissimi, Tengo duro e La mia buona stella, e una partecipazione a Sanremo che il nostro vivrà per lunghi anni come un’onta da espiare. Come costringere alla damnatio memoriae una parentesi macchettistica di quella portata? Come cancellare con un colpo di spugna versi discutibili come «Tranquillo come dentro il pigiamino, stringo come un bambino il mio cuscino» dalla memoria collettiva? Semplice: abiurando solennemente sé stessi. E il processo di costruzione della maschera non poteva che iniziare da ?!, il mito fondativo del Caparezza che conosciamo oggi. È un disco sicuramente difettoso, l’opera prima di un artista interessante e con un mondo da raccontare ma che, al contempo, conserva ancora qualche ingenuità sul fronte della scrittura e della capacità di esperire ciò che lo circonda. A farla da padrone un ampio utilizzo di campionamenti che rimandando alla canzone italiana d’autore – Tutto ciò che c’è contiene un frammento di La filastrocca di Raoul Casadei e La fitta sassaiola dell’ingiuria una parte di Confessioni di un malandrino di Angelo Branduardi – e un celebre incastro con cui Capa prova a dissociarsi da tutti i cliché della declinazione nostrana della street credibility – “Non fumo, non mi canno, non mi drogo, non bevo / A volte penso di essere il vero alternativo”. Un incastro un po’ moralistico e bacchettone che, riletto oggi, sembra scritto da un animatore di Azione Cattolica appena rientrato dalla Giornata mondiale della gioventù di Cracovia, ma tant’è: senza imperfezioni, le operette giovanili non sarebbero operette giovanili.
7Le dimensioni del mio Caos (2008)
Album sicuramente più maturo e ben scritto dell’abbozzato e traballante ?!, ma ancora ben distante dai livelli a cui il cantautore di Molfetta ci ha abituati negli anni. Nella produzione artistica di Caparezza, Le dimensioni del mio Caos rappresenta una specie di punto di svolta, dato che, almeno in teoria, si tratterebbe di un concept album: l’ambizione, insomma, è quella di raccontare una storia; il problema è che questo motivo ispiratore viene soddisfatto soltanto in parte. La narrazione, infatti (una specie di distopia operaia che parte dalla celebrazione del quarantennale della rivoluzione del Sessantotto per raccontarci il viaggio dell’eroe di Luigi delle Bicocche, un manovale che stringe la cinghia per tirare a campare e rifiuta di sottomettersi alle logiche del bar e delle macchine da gioco, sullo sfondo di una Puglia futuristica dilaniata dalle trivelle, dal malaffare, dalla spazzatura e da logge deviatissime) si traduce in una serie di raccordi parlati tra una traccia e l’altra che, però, finiscono per distaccarsi moltissimo dall’effettivo contenuto dei brani: la sensazione che ne scaturisce è quella di un viaggio riuscito soltanto per metà, costellato però da alcuni alti. Ad esempio, il revisionismo storico che alcuni docenti ideologicamente orientati danno in pasto senza pietà ai propri alunni, tematica portante di Pimpami la storia, e l’intelligentissima denuncia sociale camuffata da tarantella dalle velleità discotecare di Vieni a ballare in Puglia, capace di proiettare al primo posto di tutte le classifiche una canzone che parla di migranti sfruttati dai caporali, devastazioni ambientali, turismo di massa e morti sul lavoro. Buon disco, per carità, ma lontanissimo dai picchi che l’artista pugliese ha raggiunto con altri album – menzione speciale per Eroe, riuscitissimo inno nazional–popolare da maxi–concertone del Primo Maggio e, forse, ultimo tentativo di uno dei marchi di fabbrica della “fase uno” di Caparezza: il racconto della classe operaia in tempi di berlusconismo.
6Verità supposte (2003)
Verità supposte segna il momento di massima affermazione del nuovo alter–ego salveminiano: condensa tutte le tematiche care al Caparezza che abbiamo conosciuto fino al 2011, dando corpo a una specie di bignami del Capa–pensiero pre Il sogno eretico. Il bisogno di distaccarsi dalla scena rap italiana espresso tre anni prima in ?! viene ripresentato con una nuova modalità, non più attraverso invettive avvelenate e “cielline” nei brani, ma per mezzo di nuove sperimentazioni sonore che mettono in luce le sue simpatie per il nu–metal – basta ascoltare Dualismi, brano ispirato all’omonima poesia di Arrigo Boito, per apprezzare la fascinazione che Caparezza prova per le linee di basso di Tim Commerford e, più in generale, per i Rage Against The Machine –, per i sintetizzatori, per il reggae e per la musica popolare pugliese. È, inoltre, l’album in cui prende piede in maniera più visibile e compiuta la coscienza politica di un Michele Salvemini in primissima fila nella difesa dei diritti civili, dall’antirazzismo di Vengo dalla luna e Nessuna razza all’anti–bellicismo di Follie preferenziali – e poi, sì, c’è anche Fuori dal tunnel, va bene.
5Habemus Capa (2006)
Prima de Le dimensioni del mio Caos, Caparezza aveva già pensato di percorrere la strada del disco di concetto: nello specifico, il concept di Habemus Capa, nelle sua idea originaria, avrebbe dovuto corrispondere a una sorta di rilettura della Divina Commedia alla luce dei tic e dei malcostumi che infettavano la società di inizio anni Duemila, in cui ogni canzone avrebbe dovuto mostrare una particolare faccia della società e il contrappasso a essa legato – nel libro Saghe mentali. Viaggio allucinante in una testa di capa, Caparezza ha raccontato al giornalista Michele Monina le ragioni alla base del rifiuto di questa opzione, ossia la difficoltà di ricercare una pena alternativa per ogni malanno sociale che si proponeva di analizzare – tuttavia, alcune tracce di questa idea di base si possono trovare nei brani Gli insetti del podere (dove l’establishment corrotto viene trasformato, kafkianamente, in una colonia di minuscoli insetti) e Torna Catalessi (la tesi, in soldoni, l’ha espressa lo stesso Capa nel summenzionato Saghe mentali, dove spiega che Catalessi «è sì un cane scappato di casa, ma anche un sostantivo che denota uno stato di immobilità, il cui ritorno è fondamentale per contrastare il subbuglio dello shopping selvaggio». Insomma: una società “catatonica” è il vero antidoto al logorio della vita moderna). Habemus Capa è un album che ha fatto il suo tempo, ma capace di azionare un meccanismo da macchina del tempo interessante: catapulta l’ascoltatore in un’atmosfera da metà anni Duemila che, ormai, ha tutto l’aspetto di una fotografia sbiadita, riportando la mente agli editoriali di Travaglio durante Anno Zero, ai raduni di Pontida e ai leghisti (quelli veri, apertamente razzisti e xenofobi, che benedicono le acque del Po e sostengono la causa dell’indipendentismo padano, mica i rammolliti odierni), ai cori di indignazione per le leggi ad personam, alla televisione spazzatura propinata da Mediaset e alle polemiche contro i contenuti delle trasmissioni di Maria De Filippi.
4Il sogno eretico (2011)
Il sogno eretico è l’album della maturazione artistica definitiva di Caparezza: a partire da questo momento, Salvemini taglia i ponti con la politica (strillata o meno) per iniziare a fare sul serio, servendosi di una dose booster di surrealismo e consacrando il suo status di eretico del rap a partire dalla riproposizione, in chiave contemporanea, dell’epopea di figure iconiche come Giovanna d’Arco, Girolamo Savonarola, Giordano Bruno e Galileo Galilei. La scrittura è decisamente più brillante rispetto ai lavori precedenti, anche nell’utilizzo della punteggiatura come parte integrante dei testi – ascoltare Ti Sorrido Mentre Affogo per credere – e la denuncia sociale è, finalmente, immunizzata da ogni tipo di tentazione nazional–popolare, sintetizzata alla perfezione dalla strizzata d’occhio agli anni Ottanta di Goodbye Malinconia, impreziosita da un Tony Hadley in stato di grazia e diventata, negli anni, una piccola canzone di conforto per chi vive la condizione di emigrante per necessità.
3Prisoner 709 (2017)
È il disco della “fase tre” di Caparezza, quella che inaugura un percorso del tutto nuovo e in cui le maxi-inchieste da cestone di Autogrill vengono sostituite da altre ossessioni letterarie, come Lacan, Fromm, Harlow e Fisher. Quell’artista che cantava di logge massoniche deviate, appalti truccati, imprenditori senza scrupoli e metalmeccanici privi di diritti non esiste più: è stato fagocitato da un asceta che riflette sulla sua finitezza, che tenta di porsi in connessione con le sentinelle dell’inconscio, nella convinzione che nessun uomo possa realmente coincidere con sé stesso, che ciascuno di noi sia sempre altro rispetto a ciò che crede di essere. Un viaggio interiore inaugurato da un fischio nelle orecchie fastidioso ma rilevatore, un terremoto capace di innescare un vortice di ragionamenti che sfociano nella consapevolezza di non essere, per gli altri, ciò che si è per sé stessi: un album bellissimo, complesso e ragionato, primo squillo di un artista – forse – fin troppo severo con sé stesso e in preda a una crisi d’identità irrisolvibile, come si può evincere dal ritornello pervasivo e disturbante di Prosopagnosia: “If you call my name I don’t recognize it”. E se, come abbiamo accennato in apertura, il piccolo superpotere di questo artista risiede anche nella capacità di camuffare concetti stratificati e complessi in canzoncine ritmate e a buon mercato, beh, questa tendenza è più apprezzabile che mai in Ti fa stare bene: il recupero dell’entusiasmo bambinesco come antidoto al male di vivere e alla competizione senza freni, con tanto di coro di scolaresca in stile Mariele Ventre a ribadire il concetto, la chiusura dei ponti con ogni pretesa di impegno politico e sociale, con le aspettative di pubblico, etichette discografiche e addetti ai lavori e, in un certo senso, con tutte le etichette che gli sono state affibbiate negli ultimi anni – «Sono l’evaso dal ruolo ingabbiato di artista engagé» – e un video difficile da dimenticare: tutto perfetto.
2Exuvia (2021)
La prosecuzione del discorso iniziato con Prisoner 709: una lunga seduta di psicanalisi tra Mikimix (il prodotto mai posizionato sul mercato discografico), Michele Salvemini (l’uomo) e Caparezza (la maschera), che una volta terminata porterà all’individuazione di un nuovo essere musicale, umano e artistico. Giunto alla soglia dei cinquant’anni, Caparezza ha ormai le spalle abbastanza larghe per affrontare i demoni del proprio passato e instradarsi in un lungo, difficile percorso a ritroso che potrebbe consentirgli di disfarsi per sempre di ciò che è stato. Una rinascita simboleggiata metaforicamente anche dalla presenza di Mishel Domenssai che, nel video di El Sendero (e, per una splendida coincidenza, anche nella realtà) porta un figlio in grembo. Quello che scaturisce da Exuvia è un artista radicalmente decostruito: l’ansia da prestazione è scomparsa, l’esigenza di allinearsi alle aspettative di chi lo ascolta sembra soltanto un lontano ricordo, così come la pretesa – irrealizzabile – di essere finalmente “capito”.
1Museica (2014)
Il primo posto non poteva che accaparrarselo Museica. Si tratta di una specie di terra di mezzo nella discografia di Caparezza, sia per quanto riguarda i temi trattati (i riferimenti politici sono appena abbozzati, mentre la psicanalisi è ancora un territorio inesplorato) sia dal punto di vista delle sonorità ricercate: un esperimento di rock dadaista nella forma di una maxi–guida che conduce l’ascoltatore in un museo itinerante, il grimaldello narrativo di cui Caparezza si serve per intavolare un discorso che esplora la drammaticità del vivere contemporaneo attraverso il fil rouge dell’arte. Dai figli d’arte costretti a essere schiacciati dal peso dell’eredità dei genitori ai costi insostenibili della cultura, non più un bene di necessità primario ma un lusso riservato a pochi eletti (Non me lo posso permettere docet), fino alla vera e propria gemma del disco, China Town, lettera d’amore dedicata a tutti gli scrittori da cameretta e a quelle anime agitate e complesse che trovano pace solamente a notte fonda, quando la candela è accesa e la penna scorre sul foglio. Altro punto a favore, Museica mischia influenze diversissime e diventa un disco “meticcio” nel senso migliore del termine, ricco di spunti, riferimenti artistici, musicali e letterari e mixato da un titano come Chris Lord-Alge: c’è spazio per il sottofondo a metà tra il folk e il gitano della summenzionata Non me lo posso permettere, per la contaminazione tra metal e dubstep di Argenti Vive e per l’elettro–punk schizofrenico di Comunque Dada – a parere di chi scrive, una delle più pregiate canzoni anti-patriottiche e contro la guerra scritte in Italia negli ultimi anni.