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Tutti i dischi di David Gilmour, dal peggiore al migliore

Analisi di una discografia solista partita bene e finita (almeno per ora) anche meglio. Se fosse proprio l’ultimo ‘Luck and Strange’ il suo album migliore?

Foto: Anton Corbijn

Se Roger Waters è fuoco, David Gilmour è aria. Sarà per questo che i due si fanno la guerra da anni. Le loro sono visioni totalmente opposte della vita, della politica, finanche della musica. E dire che per 15 anni si sono sopportati facendo sì che le diverse prospettive che li caratterizzavano si fondessero in una gloriosa armonia. Nei Pink Floyd ci sono stati tre quiet ones. David Gilmour, Rick Wright, Nick Mason erano personalità tranquille, paciose verrebbe da dire, gente che non voleva rotture di palle, solo suonare senza tante menate. C’era però chi di menate viveva: Roger Waters, madre attivista, personalità da leader, spirito critico ai massimi livelli, incazzoso, prevaricatore. Ma anche l’uomo che sapeva stimolare gli altri a tirare fuori il meglio. Se si frulla insieme tutto ciò, ecco i Pink Floyd.

Ritorniamo a spezzettare il puzzle. Isoliamo la personalità di Gilmour: Fat Old Sun, A Pillow of Winds, Childhood’s End, Breathe, i colossi Wish You Were Here e Comfortably Numb, pur scritti col bassista. Tutti momenti ariosi, rilassati, comodi, verrebbe da dire. Gilmour non ama le asperità, non ama gli scossoni, i testi al vetriolo, le musiche aspre, troppo sperimentali (e chissà quanto ha penato quando gli è toccato di buttare già alcune parti di The Narrow Way, su Ummagumma). È il suo carattere, è in primis un tranquillo bluesman, lo si sente distintamente negli assoli, infuocati quanto si vuole ma sempre con quel mood che strappa l’anima senza bisogno di inanellare mille note al secondo. David è cool, occhio azzurro, labbro carnoso, sguardo sornione che ti dice, ehi, vai tranquillo, la vita è bella. Pensiamo a tutto questo e poi a Waters. Di nuovo: ecco i Pink Floyd.

Al netto di tutto ciò risulta chiaro che quando si è trattato di creare una parallela carriera solista, Gilmour ha optato per fissare su disco esattamente il suo essere Gilmour. La sua musica scorre beatifica, senza scossoni, concedendosi ogni tanto qualche ammiccamento più rock, mai cadendo in astrusità sperimentali o psicodrammi su pazzia, isolamento, animali e muri.

Dal 1978 a oggi David se l’è presa comoda: solo cinque album a suo nome in 46 anni. Dischi pensati a fondo, con la dovuta calma, pubblicati solo quando aveva veramente qualcosa da dire. Nei quali infondere non solo musica, ma una filosofia di vita, specchi opposti a quelli del suo acerrimo nemico. Eccoli, in classifica.

5

Rattle That Lock

2015

Si sa che Gilmour non è uomo dalle mille sorprese compositive, ma qui proprio non ce la fa a mettere in scena musiche che possano quantomeno incuriosire. Rattle That Lock si trascina tra dissertazioni para-new age, soul, classiche ballate, lamentazioni sinfoniche e un rockaccio senza senso (la title track), che dalla sua personalità tanto aggraziata non ce lo si aspetta proprio. Detto ciò, qui dentro ci sono Phil Manzanera, Robert Wyatt, Graham Nash, David Crosby, Roger Eno e il compianto Rick Wright (solo in un campionamento della sua voce). E la chitarra, come al solito, muove alle lacrime. Come a dire: sarà anche il peggio, ma è un peggio di classe.

4

About Face

1984

Nel 1984 David ne ha piene le palle di Waters e delle sue (superbe) farneticazioni post-belliche. Lasciatosi alle spalle The Final Cut, nel quale ha avuto null’altro che un ruolo da comprimario (ma che splendore i suoi assoli in quel disco), respira un po’ di libertà con il suo secondo disco solista. Si sente distintamente la voglia di scrollarsi di dosso le paranoie watersiane e di ricominciare a suonare ciò che gli sgorga dal cuore: pop-rock semplice ma d’impatto, con canzoni solide, assolazzi da paura, delay a manetta e un tessuto di fondo che paga pegno all’AOR americano e che sa farsi notevole in brani come Until We Sleep o Let’s Get Metaphysical. Gilmour è sorretto da una serie di musicisti tosti e compatti (Pete Townshend fa capolino) per un disco che è una bella boccata d’aria fresca, nonché il preludio ai suoi Pink Floyd.

3

On an Island

2006

Basta prendere in mano la copertina, dice già tutto. Gilmour adesso ha la sua isola felice, i Pink Floyd sono stati archiviati, ha stretto un fecondo rapporto artistico con la moglie-musa Polly Samson, ha una bella famiglia, case, studi di registrazione, soldi. E chi lo ammazza? Si può concedere un bel ritratto di vita chiamato On an Island, con dieci brani da gustare in spiaggia al tramonto, sorseggiando un drink. La formula prevede grandi spazi corali alla CS&N (infatti ci sono Crosby e Nash), bei momenti blues, orchestrazioni mai sopra le righe e accenni strumentali che riportano ai bei tempi della band madre. Il tutto sempre a un passo da una certa melensaggine che gli si perdona volentieri. La lacrimuccia in Then I Close My Eyes, con la tromba suonata da Robert Wyatt, è inevitabile.

2

David Gilmour

1978

Anche l’esordio solista arriva in un momento in cui i nervi sono a fior di pelle. L’In the Flesh Tour a supporto di Animals non è stato una passeggiata e nuovi scontri creativi attendono il chitarrista alle prese con ciò che diventerà The Wall. In mezzo un’oasi di pace tanto agognata. Si chiude ai Super Bear Studios, nel sud della Francia, e chiama fargli compagnia due vecchi amici dell’epoca dei Jokers Wild: Rick Wills (basso) e Willie Wilson (batteria). In David Gilmour il leader suona la chitarra, canta e si cimenta alle tastiere in brani che spaziano tra strumentali e non, con tanta voglia di relax: There’s No Way Out of Here (cover degli Unicorn, band prodotta dallo stesso David), la struggente So Far Away, la sospesa Short and Sweet scritta con l’amico Roy Harper e la strumentale Mihalis sono le perle più rilucenti di un disco scevro da tensioni, 100% Gilmour.

1

Luck and Strange

2024

Dopo decenni di onorata carriera, quando tutti i giochi sembravano fatti, ecco la zampata. A 78 anni David piazza il colpaccio che mette ko coloro che lo vedevano come una mummia imbalsamata del bel tempo che fu. Luck and Strange è fiero, vitale, colmo di sorprese brano dopo brano, dal bleusaccio in pink (con una vecchia registrazione di Wright) della title track, al bel coinvolgimento della figlia Romany nella cover dei Montgolfier Brothers. In mezzo momenti jazz, le usuali chitarre atmosferiche che fanno tanto Shine On, succose intuizioni armonico/melodiche, come in The Piper’s Call, e via sorprendendo nel suo disco più vario e creativo, arricchito dai bei testi di Samson che disquisiscono della caducità della vita. Il top arriva però alla fine: Scattered è la master song della carriera solista di Gilmour, un tuffo nel mare floydiano da sette minuti e passa, nonché la sua traccia più avventurosa. Con tanti riferimenti (mai buttati a caso, ma con un loro senso piacevolmente nostalgico) alla band del nostro cuore e relativo assolone che strappa la pelle e vorresti non finisse mai. Grandi applausi, David, non ce lo aspettavamo.

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