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Tutti i dischi di Peter Gabriel, dal peggiore al migliore

È il compleanno di Peter Gabriel e noi restiamo in vigile attesa di un suo nuovo album. Nel frattempo, ecco la classifica di quelli che ha pubblicato finora. No, al primo posto non abbiamo messo il best seller 'So'

Foto: Rob Verhorst/Redferns

Dai bizzarri travestimenti con i Genesis ai videoclip all’avanguardia, dai primi CD-Rom ai palchi avveniristici, Peter Gabriel ha sempre sentito l’impellente bisogno di rendere il suo messaggio sonoro un’esperienza da vedere. Si è anche dato da fare affinché la musica potesse aiutare ad affrontare temi sociali e ha fornito il suo apporto a una miriade di associazioni umanitarie.

Si rischia di dimenticare che l’essenza del musicista sono i suoi album, le innovazioni che ha apportato tramite le canzoni. Sarà che la sua discografia non è enorme, solo nove lavori in studio (contando anche Scratch My Back e New Blood) e quattro colonne sonore in 45 anni di carriera solista. La quantità non conta tanta è la massa di idee messe in campo, che non solo hanno reso molte di queste opere eccellenze assolute a livello qualitativo, ma hanno anche influenzato e spinto a mettersi in gioco tanti altri artisti.

Mentre restiamo in vigile attesa che il musicista inglese metta fine a un silenzio discografico che dura oramai da vent’anni (esclusi live, raccolte e album di cover), ecco la classifica dei suoi album utile a scoprire quanto l’apporto di Peter Gabriel sia imprescindibile quando si parla di popular music e quanto la sua fusione di rock, tecnologia, world music, arte e commercialità rappresenti una delle basi sulle quali poggia il pop moderno.

13“Long Walk Home” (2002)

Colonna sonora di Rabbit-Proof Fence (in Italia La generazione rubata), diretto dal regista australiano Phillip Noyce, Long Walk Home rappresenta il lavoro più “classico” di Gabriel in ambito cinematografico, con effetti naturali, i suoni del didgeridoo a evocare i paesaggi australiani, squarci ritmici più sostenuti e liquidi passaggi ambient. Al disco non manca la classe dell’autore, ma una precisa personalità slegata dalle immagini.

12“Up” (2002)

È finora l’ultimo album di canzoni inedite di Gabriel e contiene momenti di grande songwriting e potenza creativa come Darkness, Signal to Noise e The Drop. Altre canzoni sono poco incisive e fin troppo ripetitive, con uno schema pop-world già ampiamente sfruttato.

11“Peter Gabriel” (1977)

Per il suo primo lavoro post Genesis Gabriel ha tantissime idee, ma non ancora una direzione chiara. I tempi sono quelli del punk, ma l’esperienza prog non è del tutto dimenticata, Gabriel cerca quindi una sorta di ibridazione tra le due correnti musicali in antitesi e il risultato è a tratti esaltante, altrove poco a fuoco, la ridondante produzione di Bob Ezrin poi non aiuta. Qui dentro però c’è Here Comes the flood, primo autentico capolavoro gabrieliano.

10“Scratch My Back” (2010)

Nel 2010 Gabriel pubblica un album nel quale reinterpreta in chiave orchestrale una serie di brani che ha nel cuore da sempre. Da Heroes di Bowie a Listening Wind dei Talking Heads passando per Philadelphia di Neil Young. Le scelte sono decisamente eterogenee, le versioni toccanti e sentite, con le canzoni spogliate di ogni orpello e ricondotte alla loro essenza. Stupisce su tutte una Street Spirit con la voce che si incrina dolente, al limite di una perfetta imperfezione.

9“New Blood” (2011)

Ancora meglio l’anno successivo fa New Blood nel quale Peter Gabriel riserva ai propri brani il trattamento orchestral-minimale del disco precedente: San Jacinto, Intruder, Wallflower, The Rhythm of the Heat… Private della ritmica e dei substrati elettronici e world, le canzoni emergono in tutta la loro primigenia autenticità, sembra quasi di poterle penetrare fino a scorgerne l’anima.

8“Us” (1992)

Us arriva sei anni dopo il mega botto di So e si prodiga in tutti i modi per diventarne la copia. La cosa riesce solo in parte, ci sono però gemme luminose di soffice soul-pop come Washing of the water e numeri che portano avanti alla grande il cammino art pop, Come Talk to Me, Only Us, Digging in the Dirt e Fourteen Black Paintings su tutti.

7“Birdy” (1985)

Per la prima volta Gabriel si misura con una colonna sonora. Succede quando Alan Parker gli affida il suo Birdy (in Italia Birdy, le ali della libertà). Invece di comporre materiale nuovo al 100%, Gabriel prende una serie brani già pubblicati dal mood prevalentemente cupo e li rivisita, a volte in chiave strumentale. Il risultato funziona benissimo anche senza le immagini.

6“Peter Gabriel II” (1978)

È il disco new wave di Peter, quello con i suoni più aspri, con la voce che esce tagliente e cruda, senza alcun effetto ad abbellirla. Si chiama ancora una volta Peter Gabriel come il primo (la consuetudine andrà avanti per altri due album), è prodotto nientemeno che da Robert Fripp e in alcuni brani racconta la storia di Mozo, figura enigmatica di alieno che può esprimersi solo con l’aiuto delle onde radio.

5“Ovo” (2000)

Nel 2000 viene allestito uno spettacolo all’interno del Millennium Dome di Londra, basato sulle musiche e su un concept di Gabriel: la storia di una famiglia che attraverso tre generazioni descrive la parabola dell’umanità. Il risultato si chiama Ovo ed è un vero mappamondo musicale così pieno di spunti da fare girare la testa: rap, industrial, celtica, prog, ambient, folk, soul… Con tanti ospiti e le bellissime voci di Elizabeth Fraser e Alison Goldfrapp.

4“Passion” (1989)

Lo stato dell’arte della world music, un suono che parte dal Medioriente e si fonde con l’elettronica e con suggestioni classicheggianti. Il tutto per la colonna sonora di The Last Temptation of Christ (L’ultima tentazione di Cristo), pellicola che nel 1988 costa al regista Martin Scorsese aspre critiche per avere affrontato la storia di Cristo in maniera tutt’altro che canonica. Gabriel inserisce la musica dei luoghi in cui si svolgono le azioni e le rivisita a suo modo dando vita a una delle massime espressioni nelle fusione tra diverse culture.

3“Peter Gabriel III” (1980)

Nel terzo album Peter Gabriel si apre al futuro: i piatti della batteria vengono rimossi a favore di un suono elettro-tribale, le note di chitarra centellinate, i suoni di tastiere assottigliati, la voce si denuda a scavare dentro il subconscio ma anche a denunciare una delle più grandi ingiustizie della storia recente: il delitto dell’attivista sudafricano Stephen Biko. Gabriel diventa allo stesso tempo messia art pop e paladino dei diritti civili.

2“So” (1986)

So getta un ponte tra sperimentazione e voglia sfrenata di canzone pop, a tratti anche venata dall’amore di Peter per il soul/r&b. È la piena consacrazione del fenomeno Peter Gabriel, che arriva ai vertici delle classifiche di tutto il mondo con un disco in perfetto equilibrio tra arte e commercialità. Per descriverlo è sufficiente citare alcuni titoli: Sledgehammer, Don’t Give Up, Red Rain, In Your Eyes.

1“Peter Gabriel IV” (1982)

La descrizione di un’Africa in penombra e di riti più antichi dell’uomo. L’essenza del continente che viene messa accanto ai più moderni ritrovati elettronici (il Fairlight CMI, primo computer digitale musicale) per dare vita a qualcosa di inaudito. In quegli anni Brian Eno cerca il suo “quarto mondo” fondendo tribalità e modernità. Gabriel fa di più, ci costruisce un pacchetto di canzoni tra le quali spicca una particolarissima hit come Shock the Monkey. Dentro IV c’è Carl Gustav Jung alle prese con ritmi che sconvolgono la percezione, c’è l’iniziazione di un giovane guerriero Apache, i desaparecidos sudamericani, il desiderio e la ritrosia del contatto umano. È un Peter Gabriel perfettamente centrato nella ricerca del suono, della parola, dell’esplorazione.

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