Tutti i dischi di Robert Wyatt, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
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Tutti i dischi di Robert Wyatt, dal peggiore al migliore

Canzone e sperimentazione, una voce sottile e inconfondibile, suoni impalpabili e struggenti, tutto l’amore per il jazz: la classifica degli album dell’ex «batterista bipede» dei Soft Machine

Tutti i dischi di Robert Wyatt, dal peggiore al migliore

Robert Wyatt

Foto: Alfie Benge

La musica di Robert Wyatt gode da sempre di una stima illimitata, sin dai tempi in cui era batterista-cantante dei Soft Machine e poi alla fine di quell’esperienza (per lui una ferita mai sanata) e alla nascita dei Matching Mole (se lo si pronuncia alla francese diventa Machine Molle = Soft Machine). In entrambi i casi Wyatt contribuisce ad album destinati alla storia della popular music come Third dei Softs e Matching Mole. Poi però succede qualcosa di tragico: il 1° giugno 1973, durante la festa di compleanno di Gilli Smyth dei Gong e della poetessa/performer Lady June, un Wyatt strafatto e ubriaco si arrampica sul tetto per tentare di calarsi sul balcone del piano dove si sta svolgendo la festa e sorprendere tutti. Sono pochi passi ma sufficienti per cambiargli per sempre la vita. Appoggia male un piede, scivola e cade nel vuoto. Al suo risveglio in ospedale si ritrova paralizzato dall’addome in giù.

Quella è la fine del «batterista bipede», come Robert ha sempre definito la sua vita prima dell’incidente. La cosa sconvolge i suoi amici e la scena musicale tutta, e porta a bellissime iniziative come il concerto organizzato dai Pink Floyd (con i quali i Soft Machine avevano speso una buona parte dei ’60 in tour) il cui incasso è devoluto a Wyatt per le cure ospedaliere. Ma i link con i Floyd, lo si vedrà leggendo, non finiscono qui.

Supportato dalla fedele moglie/collaboratrice (è autrice dei tutte le sue copertine e di diversi testi) Alfreda Benge, detta Alfie, Wyatt mette da parte le inquietudini e le esagerazioni che hanno caratterizzato gli anni giovanili e si concentra su una musica che altro non può essere definita se non la musica di Robert Wyatt. Dentro ci sono echi della scuola di Canterbury (non potrebbe essere diversamente), prog, sperimentali, world. E c’è quel jazz che in definitiva rappresenta il più grande amore dell’artista. Ma soprattutto c’è la sua voce. Una voce che ha influenzato cantanti moderni (qualcuno ha detto Thom Yorke?) e che o la si apprezza in tutte le sue sfumature o la si rifiuta: sottile, sempre al limite dello spezzarsi, addirittura dell’andare fuori tono. Però dolce, sicura, riconoscibilissima, in grado solo con poche note di scaldare l’anima come un caminetto acceso in una notte di neve. Infine ci sono le sue canzoni e le molte cover con le quali spesso si è misurato: rarefatte, impalpabili, struggenti, solo sue. Ma anche agguerrite in altri momenti. Col tempo infatti Wyatt ha saputo mettere in atto un fiero impegno politico, schierandosi con il Partito Comunista Britannico e trovandosi coinvolto in iniziative umanitarie.

Dal 1974 al 2010 (anno del ritiro dalle scene) Robert ha dato alle stampe nove album (più una raccolta di singoli inediti inclusa in questa classifica), una gran varietà di singoli e si è reso disponibile per un numero impressionante di collaborazioni (da citare almeno quella con i C.S.I. per la cover della loro Del mondo cantata in italiano, e l’ultima in ordine di tempo con l’amico di vecchia data David Gilmour per il suo Rattle That Lock).

10

The End of an Ear

1970

Wyatt incide The End of an Ear quando è ancora in forza nei Soft Machine, per piazzare su nastro le molte idee che il gruppo non gli permette di esprimere appieno. Il suo primo disco solista è molto diverso da quelli che seguiranno, non ci sono canzoni ma solo abbozzi (dedicati a una schiera di amici) che si muovono tra il free jazz e la musica contemporanea. Sperimentazione pura con la voce di Wyatt (che suona tutti gli strumenti) a condurre le danze in un delirio frenetico. The End of an Ear può risultare orribile o estasiante, dipende dallo stato d’animo.

9

Comicopera

2007

Il problema di Comicopera è che per la prima volta Wyatt fa un po’ il verso a se stesso mettendo in campo poche invenzioni interessanti, questo nonostante la solita sfilza di collaboratori di prestigio (Paul Weller, Paul Manzanera, Brian Eno…) e testi pungenti con diverse stilettate al sistema capitalista. Per il resto pare più una raccolta di brani scartati da altri dischi che un’opera completa, ma qualsiasi raccolta di materiale “scarso” da parte di Wyatt è sempre un bel sentire.

8

Ruth Is Stranger Than Richard

1975

Arriva dopo lo straordinario esito di Rock Bottom ed è ancora una volta prodotto da Nick Mason dei Pink Floyd. Ma spariglia le carte in tavola sottolineando l’indole mai doma del suo autore che invece di adagiarsi sugli allori preferisce dar vita a un’opera più ruvida, dai contorni più improvvisativi. Wyatt  mette la voce e i testi a disposizione di un tessuto free messo in scena dai suoi collaboratori (tra gli altri Eno e Fred Frith degli Henry Cow) levando parecchia comunicativa alle canzoni.

7

Cuckooland

2003

È forse il disco nel quale l’amore per il jazz di Wyatt esce fuori in maniera più prepotente: atmosfere ovattate, notturne, felpate, distantissime da qualsiasi tentazione pop, con il leader accompagnato dai soliti Eno, Manzanera, Weller e in più un cameo di David Gilmour in Forest. Purtroppo una sensazione di monotonia da un certo punto in poi si fa strada. Non mancano i momenti felici, vedi la toccante Lullaby for Hamza e il sax di La Ahada Yalam.

6

Nothing Can Stop Us

1982

Tra il 1975 e il 1985 Wyatt interrompe l’attività discografica “regolare” dedicandosi all’impegno politico, a colonne sonore (da citare quella per The Animals Film, indagine sull’uso degli animali negli allevamenti intensivi, nella ricerca scientifica e militare) e una serie di singoli inediti, contenenti in larga parte cover. Questi verranno raccolti nel 1982 nell’antologia Nothing Can Stop Us in cui trovano spazio brani di Violeta Parra, Peter Blackman, Ivor Cutler, Willie Johnson e altri. Addirittura c’è una rivisitazione di un brano degli Chic, At Last I Am Free. Il tutto reso chiaramente “alla Wyatt”.

5

...For the Ghosts Within

2010

È il lavoro più cameristico di Wyatt, realizzato con l’ausilio del jazzista israeliano Gilad Atzmon della violinista inglese Ros Stephen. Ed è una meraviglia sentire la sua voce muoversi in tutta la sua raffinatezza, e anche fragilità, nelle trame sonore tessute dai due. In repertorio una serie di classici del jazz a firma Ellington, Strayhorn, Monk, Mercer, più diversi brani di Wyatt e alcuni inediti. Non importa che i brani siano stati composti da uno o dall’altro, è la voce di Wyatt qui a svettare in tutta la sua magia.

4

Dondestan

1991

Dondestan è uscito nel 1991 in un mix fatto un po’ in fretta a causa della mancanza di tempo e di budget. Successivamente, grazie anche al successo di Shleep, emergerà un nuovo mix col titolo Dondestan (Revisited) che mette maggiormente in risalto le sottigliezze delle composizioni. Come Old Rottenhat, è un lavoro nel quale Robert suona ogni strumento, con testi fortemente politicizzati e più quel tocco free che si diverte a disseminare. Ma sono i brani malinconici come NIO (New Information Order) e Sight of the Wind ad avere un impatto emotivo che solo Wyatt può produrre.

3

Shleep

1997

Nel 1997 nel quale in Italia (caso unico al mondo) viene pubblicato un tributo a Wyatt (The Different You – Robert Wyatt e noi, organizzato da Francesco Magnelli e Gianni Maroccolo e pubblicato dal Consorzio Produttori Indipendenti) esce Shleep, suo più grande successo dai tempi di Rock Bottom. È un album sereno, variegato, in grado di mettere sul piatto i diversi mondi wyattiani in maniera perfetta. Con diverse perle sonore tra cui una che spicca per intensità: Maryan, scritta col chitarrista jazz Philip Catherine e ripresa con eleganza e trasporto da Ginevra di Marco e Cristina Donà nel tributo.

2

Old Rottenhat

1985

Nel 1985 Wyatt mette fine al silenzio discografico con uno dei suoi lavori più particolari e riusciti. Interamente suonato con tastiere economiche, tipo le Casio che tanto andavano di moda negli anni ’80, Old Rottenhat contiene brani di pura dolcezza wyattiana come Alliance, United States of Amnesia, The Age of Self. Ma è tutta la scaletta a non lasciare un attimo di tregua alla bellezza. Con sempre quella sensazione che ogni nota che esce dalla sua ugola possa spezzarsi da un momento all’altro, così come il cuore di chi ascolta.

1

Rock Bottom

1974

Prima posizione scontata per uno degli album più importanti degli ultimi 50 anni. Concepito nei giorni di convalescenza a seguito dell’incidente e prodotto da Nick Mason, il disco presenta un Wyatt fresco e nuovo, che compone canzoni che entrano nell’anima del mondo. Sospeso tra umori jazz, melodie struggenti ed esperimenti, Rock Bottom farà scuola per il suo carattere al tempo stesso tortuoso e godibile. Al suo interno molta malinconia, ma anche uno spirito ironico e vitale che permette a Wyatt di pubblicare alcune tra le sue canzoni più belle, una su tutte Sea Song che è pura poesia per il suo amore con Alfie. Ma è tutto l’album a essere una lunga lettera d’amore alla consorte, alcuni brani portano addirittura il suo nome. Rock Bottom è l’equilibrio perfetto tra canzone e sperimentazione, tra jazz e tutto ciò che musicalmente c’è di bello sul pianeta Terra.

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