Capita anche ai migliori: i nomi presenti in questa lista sono lì a dimostrarlo. Non si salva nemmeno la sacra triade Beatles-Rolling Stones-Who. Capita che un album frutto del lavoro di settimane o mesi non soddisfi i propri autori, tanto da spingerli a dichiararlo pubblicamente, con toni soft e diplomatici oppure con parole decisamente pesanti. A volte non piacciono i suoni, e allora via con le critiche al produttore, altre sono i discografici a essere messi in croce per aver invaso il campo riservato agli artisti, che non si riconoscono nella loro stessa opera così come è stata pubblicata. Altre ancora è solo l’incazzatura di un momento, ma è addirittura accaduto che dei musicisti giungessero a odiare uno dei loro album. Abbiamo scelto 10 di questi dischi “rinnegati”.
“Their Satanic Majesties Request” Rolling Stones (1967)
Perennemente paragonato al contemporaneo Sgt. Pepper, l’album degli Stones ne è sempre uscito con le ossa rotte. Quarantotto anni dopo la sua uscita, ci si mette pure Keith Richards, che in un’intervista rilasciata a Esquire non perde l’occasione per denigrare anche l’opera degli amici-rivali. «Se sei i Beatles negli anni ’60», osserva il chitarrista, «ti fai prendere la mano e ti dimentichi di quello che volevi fare. Inizi a fare Sgt. Pepper. Alcuni pensano sia un album geniale, ma io penso sia un guazzabuglio di robaccia, tipo il nostro Satanic Majesties. Siete capaci di fare questo mucchio di merda? Be’, ne siamo capaci anche noi».
“We’re Only in It for The Money” Frank Zappa and the Mothers of Invention (1968)
Frank Zappa non aveva l’abitudine di ascoltare il “prodotto finito”. Lo convocano in Olanda per assegnargli un premio per il terzo album delle sue Mothers. «Prego, si accomodi. Ascoltiamoci insieme questo magnifico disco». Lui lo ascolta per la prima volta, rimane di sasso e si incazza proprio. I discografici della Verve hanno censurato diversi passaggi, su tutti quello in cui il tecnico del suono Gary Kellgren parla dei Velvet Underground (che pubblicavano con la stessa casa discografica) definendoli «un gruppo di merda come quello di Frank Zappa». Quest’ultimo rifiuta il premio: «Datelo a chi ha modificato il disco: quello che abbiamo ascoltato riflette il suo lavoro e non il mio». L’arrabbiatura è destinata a rientrare: nel giugno del 1988, durante gli otto concerti italiani che saranno gli ultimi in senso tradizionale della carriera di Zappa, We’re Only in It for The Money sarà l’album più saccheggiato.
“Let It Be” The Beatles (1970)
Dopo aver criticato con regolarità la produzione di Phil Spector nelle interviste rilasciate negli anni seguiti alla pubblicazione di Let It Be, Paul McCartney lo rinnega anche nei fatti. Trentatré anni dopo ne esce una nuova versione (Let It Be… Naked, 2003) in cui l’ordine dei brani è cambiato e mancano Maggie Mae e Dig It, così come diversi frammenti “live in studio” che caratterizzavano il progetto originale. The Long And Winding Road infine, uno dei principali motivi del malcontento di Paul, è presente in una take diversa, registrata cinque giorni dopo quella utilizzata da Spector per l’album originale. Poi però passano altri diciotto anni e, assieme al progetto di Peter Jackson, esce l’inevitabile ristampa dell’album originale e nell’introduzione del booklet McCartney scrive: «Devo ammettere che non ero entusiasta di alcuni degli interventi di Phil Spector, ma alla fine è venuto fuori un bel disco. Assieme al nuovo film è un ricordo potente di quel periodo. È così che voglio ricordarmi dei Beatles». È l’ultima parola o seguiranno altri ripensamenti?
“Unconditionally Guaranteed” Captain Beefheart and The Magic Band (1974)
«Eravamo inorriditi. Ascoltavamo l’album e ogni canzone era peggio della precedente». Così Art Tripp, il batterista della Magic Band, racconta la sensazione provata assieme ai suoi compagni durante il primo ascolto del disco. Meno di una settimana prima dell’inizio del relativo tour, abbandonano la nave e il suo Capitano. Quest’ultimo, da parte sua, decide di tenere botta e di esibirsi con un gruppo recuperato all’ultimo momento ma più tardi parlerà di un disco «orribile e volgare», invitando a non considerarlo parte della propria discografia ed esortando chi ne possiede una copia a riportarla indietro chiedendo un rimborso.
“It’s Hard” The Who (1982)
Il secondo album senza Keith Moon non piace per niente a Roger Daltrey, insoddisfatto del lavoro del produttore Glyn Johns, più che recidivo in questa lista in quanto già all’opera come ingegnere del suono sia su Satanic Majesties sia su Let It Be. «Ho fatto di quelle litigate con Pete», spiega il cantante, «gli ho detto: Pete, è una completa cagata e non dovrebbe proprio uscire». Gli Who non pubblicheranno più un nuovo album in studio per i successivi 24 anni.
“Cut the Crap” The Clash (1985)
L’album rinnegato per antonomasia. Basti pensare che aprendo il radione che contiene Sound System, box definitivo uscito nel 2013, si trovano tutti gli album dei Clash tranne questo. Mick Jones e Topper Headon non ci sono più, ma è lo stesso Joe Strummer a dolersi per la pubblicazione del disco. In un’intervista uscita tre anni più tardi si dice di essere «dispiaciuto per quei poveri ragazzi». I poveri ragazzi sono i chitarristi Vince White e Nick Sheppard e il batterista Pete Howard, chiamati a rimpiazzare gli insostituibili Headon e Jones. Sarà poi proprio quest’ultimo, pur non coinvolto nella realizzazione dell’album, ma curatore di Sound System, a mettere la pietra tombale sull’appartenenza di Cut The Crap alla storia dei Clash. L’album si può invece ascoltare sulle piattaforme streaming.
“Licensed to Ill” Beastie Boys (1986)
“Ci è piaciuto. L’abbiamo odiato”. Si intitola così il capitolo di Beastie Boys Book che parla di quest’album. Nel loro librone, base per il documentario di Spike Jonze intitolato La storia dei Beastie Boys e trasmesso da Apple Tv, Michael Diamond e Adam Horovitz non rinnegano solo questo vendutissimo disco ma anche e soprattutto un intero periodo: «Non ci vedevamo a recitare un ruolo, a salire sul palco a fare questi tre tipi che lanciano birra davanti a un cazzo gigante. Il nostro era un background punk-rock, ma quando abbiamo visto tutti questi tizi da confraternita universitaria che compravano i nostri dischi e venivano ai nostri concerti abbiamo capito che la cosa era andata fuori controllo».
“The La’s” The La’s (1990)
Un caso più unico che raro: una band pubblica un solo, apprezzatissimo album, che il leader (e autore delle canzoni) non voleva pubblicare. E che passerà la vita a rinnegare. A Lee Mavers di questo disco non va bene proprio niente, nonostante otto produttori e session spalmate su tre anni. «L’album ufficiale non è quello che io avevo immaginato», ha detto il musicista di Liverpool, a cui peraltro non andavano bene nemmeno gli strumenti di registrazione presenti nello studio, tanto da lamentarsi del fatto che erano sì strumenti degli anni ’60, ma non erano ricoperti di «autentica polvere degli anni ’60».
“Be Here Now” Oasis (1997)
Pochi mesi dopo aver vinto la guerra del Brit pop contro i Blur, i Gallagher sfornano un “difficile terzo album” riguardo al quale, sorpresa!, non si trovano d’accordo. Vent’anni più tardi Liam dirà addirittura che è il suo album preferito degli Oasis. Noel invece è lapidario: «È il suono di un gruppo di ragazzi fatti di cocaina a cui non fotte niente. Tutte le canzoni sono troppo lunghe, i testi sono una merda e nei millisecondi in cui Liam non apre bocca c’è un cazzo di riff di chitarra tipo Wayne’s World».
“Around the Sun” R.E.M. (2004)
Imboccata una fisiologica parabola discendente, la band di Athens registra il suo terzultimo album con l’entusiasmo sotto i tacchi. «Non è un disco che puoi davvero ascoltare», commenterà un severo (soprattutto con se stesso) Peter Buck. «Suona per quello che è: un gruppo di persone talmente annoiate da quelle canzoni da non sopportare più quello che sta facendo». Lo scioglimento arriverà solo sette anni più tardi, ma non si può dire che non ce ne fossero le avvisaglie.