Non che fosse diventato un peso per lui; anzi, ormai da tempo ci sorrideva sopra. Era però semplicemente una ingiustizia e una banalità limitarsi a questo, quello sì, rispetto alla complessità e allo spessore delle cose. Già: Claudio Coccoluto era diventato da anni il dj-per-antonomasia. Era quella roba lì. Facevi il suo nome, et voilà: evocavi per i meno avvertiti, per le casalinghe di Voghera di tutta la nazione, il dj, il clubbing, le discoteche, il mondo della notte, eccetera eccetera. Valeva per lui più che per chiunque altro: più che per Ralf, più che per Alex Neri, e molto più che per le stelle della nuova generazione, i Marco Carola, i Joseph Capriati, gli Ilario Alicante, i Tale of Us che pur mietono oggi numeri e popolarità impressionanti.
Si è arrivato a tanto in primis perché negli anni ’90 la sua fama era diventata semplicemente immensa, nella notte italiana: le doppie, le triple (ovvero: due o tre ingaggi nella stessa sera in discoteche diverse, perché davvero tra promoter ci si faceva a pugni per averlo in console), i cachet milionari (in lire), la gente che faceva i chilometri pur di sentirlo suonare, le amicizie dei vip, tutto il caravanserraglio dello star system in un mondo, quello del clubbing italiano, che era ancora piuttosto ruspante e casereccio, lontano dai sofisticati meccanismi promozionali turbocapitalisti che oggi fanno funzionare e splendere la scena di Ibiza (che cavalca la cosa senza vergogna) o quella di Berlino (che finge di essere povera e controculturale, ma ormai ha perso la sua atipicità).
Ma attenzione: quello delle doppie e delle triple, dei cachet milionari e dello star system negli anni ’90 è stato (anche) uno sbaglio, è stato (anche) un miraggio. Me lo raccontava lui stesso, quasi dieci anni fa, nel 2012, in una lunga conversazione-confessione che prendeva le distanze da quel periodo: «È stato il primo degli sbagli. Lo dico chiaro e forte, oggi. Provo a darmi una giustificazione: vivevamo in un momento storico in cui bastava aprire le porte di un club e la gente arrivava a frotte, non c’era nemmeno bisogno dei PR. Tutto si trasformava in business facile per tutti. Non mi sono trattenuto. Ma io, almeno, non ho mai impoverito nessuno. Non so se si può dire la stessa cosa oggi, nel caso di alcuni artisti ed alcune serate». Sì, perché molto prima dei discorsi su pandemie, lockdown, serrate, ristori, discoteche untrici da tenere chiuse e quant’altro, il sistema del clubbing già mostrava crepe pesanti dietro alla faccia scintillante dei Tomorrowland, delle Baleari, del Berghain, dei festival dance pieni di gente, di Kalkbrenner, dell’esplosione dell’EDM a colpi di numeri folli nello streaming, così come degli articoli sui giornali e sui magazine on line teleguidati dagli uffici stampa anglosassoni e quindi sempre euforici, sempre scintillanti.
Una crisi che nasceva – e persiste tutt’ora – forse proprio perché si era perso e si è perso tuttora di vista l’obiettivo sulla musica, sostituendolo invece con quello sulla fama, sul nome. Si è perso l’obiettivo sulla creatività e, amava parecchio sottolineare Claudio, anche sull’etica. Infatti, sempre in quella chiacchierata lontana ma profondamente profetica: «Bisogna riportare al centro di ogni discorso l’etica. Quante gente oggi si compra mille download del proprio pezzo su Beatport, così sale in classifica e si fa un nome? E non dovrei essere io a dirti che non va fatto, dovresti capirlo da solo, maledizione. E poi ancora: vogliamo parlare dei locali che continuano a bookare dei dj come se fossero le figurine di un album, tanto per raccogliere nomi famosi senza nessun filo logico e senza nessuna direzione artistica? E, a proposito di direzione artistica, quei locali che delegano tutta la programmazione alle agenzie di booking esterne, facendosi telecomandare da loro? Ne vogliamo parlare? Ci rendiamo conto di quanto è insana ‘sta cosa?».
Tutto questo detto con grande consapevolezza. «Capisci ora perché dico che bisognerebbe ridimensionare tutto. Esagerare fa male a te, e fa male alla musica. Oh, conosco e capisco l’obiezione che mi si può fare: “bravo, tu ti sei fatto il tuo giro nella giostra e ora invece dici che bisogna fermare tutto: chi sei tu per dircelo? Che vuoi da noi?”. Risposta: proprio perché io il giro me lo sono fatto e so a cosa ti porta, penso di potermi permettere di dire che no, non vale la pena farlo. Alla lunga non ne vale la pena». Anche perché non c’era solo la fama da dj, da riempipista, da re della notte e della musica house: se Claudio Coccoluto è diventato il dj-per-antonomasia è ad un certo punto perché lo si iniziava a vedere, e tanto, pure in contesti altri. «La visibilità enorme che a un certo punto mi sono ritrovato ad avere (perché è vero, l’ho avuta, e in parte l’ho tuttora) non è una cosa che ho rincorso. Mi è capitata. E quando è capitata ero come un bambino che, in un luna park, trovava per terra un blocchetto con una serie di biglietti omaggio per salire sulla giostra: che fai, non sali? Nel mio caso, è stata la giostra della televisione, dei media, di tutto ciò che andava oltre la singola serata nelle discoteche».
È pure lì che Claudio faceva la differenza. Non solo dietro ai giradischi. Una persona appassionata, profondamente partigiana a favore della club culture, certo, ma anche di enorme spessore culturale (per molti questo era sorprendente: la discoteca era il mondo dei bufali ignoranti e/o della belle gente bamba & champagne) e con una capacità di visione politica, culturale ed intellettuale di altissimo livello. Il dj-per-antonomasia era capace di sorprendere e di travalicare i confini del proprio settore mantenendo un incredibile carisma, una integrità non da poco. Finendo addirittura a Sanremo, come giurato, nel 2003, e che ci fosse un dj a fare da giurato a Sanremo era come avere Marco Columbro tenere messa in Vaticano. Una cosa surreale, pure un po’ sacrilega. «E non l’ho fatto per visibilità personale, credimi. Dicendo di sì a quella proposta arrivatami direttamente da Pippo Baudo, la mia intenzione era di aiutare la categoria tutta dei dj, facendo vedere che aveva al 100% la dignità per stare in un contesto come quello. Non l’ho fatto per vantaggio personale. Anzi, scusa, guardiamo ai fatti: per me personalmente quella partecipazione lì è stata più uno svantaggio che il suo contrario, sai? Perché sono diventato più conosciuto nel mainstream, ok. Ma di questo non me ne poteva fregare niente. Nell’unico contesto che invece mi interessava davvero, quello della club culture, ho cominciato ad essere visto con crescente sospetto, i malintesi si sono moltiplicati… Lì scopri che spesso e volentieri è proprio il cosiddetto underground ad essere ben più spocchioso e stereotipato del mondo pop, del mainstream».
Ma nell’undeground, proprio perché stava diventando stereotipato più del mainstream, Claudio ci è tornato, ostinato e contrario. E dopo un bagno d’umiltà. « Dal 2005 al 2008, più o meno, ho galleggiato. Svergognatamente. Sì, hai capito bene: artisticamente parlando, ho vivacchiato. La minimal techno in arrivo da Berlino regnava, e io provavo a capirla, non capendola. La suonavo, pur non sentendola mia. E lo facevo perché ero troppo attaccato al mio lavoro: se volevo stare sul mercato e non perdere sempre più posizioni, quello dovevo fare! Ero insomma diventato vittima proprio di alcuni dei meccanismi che a parole odiavo e non accettavo. Mi ha salvato il programma in radio, su Radio Deejay: per farlo ho dovuto riprendere ad ascoltare veramente i dischi, visto che dovevo fare una selezione molto accurata, limitarmi ai pezzi-del-momento non sarebbe stato infatti sufficiente. Lì ho ripreso contatto con quella che è la passione vera. Finalmente».
Da lì in poi Coccoluto ha smesso di inseguire le doppie e le triple. Ha smesso di lottare per cachet ricchi e marchette varie. Ha iniziato a scegliere con attenzione dove suonare e con chi collaborare. Ha perso parecchie posizioni, in questo modo. «È bollito», dicevano parecchi all’epoca, non nascondiamolo. Lui li ha zittiti tutti, piano piano, passo dopo passo. Negli ultimi anni infatti i suoi dj set erano diventati sempre più splendidi, sorprendenti e inventivi. Un fuoriclasse. Le posizioni le ha riconquistate con la sola forza della musica. E le sue parole sono diventate pesanti e autorevoli come non mai, nella scena, perché arrivavano da una persona che aveva messo in atto (e continuava rigorosamente a mettere in atto) tutto quello che predicava. Tutto. Attitudine decisamente contraria rispetto a gran parte dell’andazzo odierno di techno e house, una scena che continuava e continua a professarsi underground – per compiacere l’immaginario che l’ha fatta amare, mica per altro – ma che invece sempre più è, come meccanismi industriali, una variante del mainstream, solo con la cassa in quattro.
Mancherà immensamente, Claudio Coccoluto. Mancherà un dj raffinatissimo, in grado di proporre una visione avanzata, complessa e visionaria di cosa può significare la musica house nel ventunesimo secolo (era aggiornatissimo, sempre, da quando aveva ripreso ad amare la musica e non i suoi connessi). Mancherà una persona di grande cultura e al tempo stesso di grande voglia di battersi: per la propria scena, per i valori personali e intellettuali, per gli ideali che riteneva fondamentali. Mancherà uno dei personaggi più carismatici che abbiano attraversato la musica italiana negli ultimi decenni (chiedere ai Subsonica per referenze, ma gli esempi potrebbero essere mille), uno in grado di aprirti la mente con la forza dell’entusiasmo e della conoscenza. E se per qualcuno è solo morto «ah sì il dj famoso, quello lì», beh, peggio per lui: si è perso il meglio. Si sta perdendo il meglio. Perché ora infatti sta ai suoi colleghi, sta a tutta la scena che lui ha sempre amato e difeso, portare avanti la sua battaglia (se ne avranno il coraggio e la capacità): dare piena dignità alla club culture, capirne la ricchezza artistica, ideale, sociale. I luna park e i lustrini, se li tengano pure gli altri.