Com’è andata l’estate dei concerti più strana del secolo? | Rolling Stone Italia
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Com’è andata l’estate dei concerti più strana del secolo?

I piccoli promoter raccontano la loro esperienza. È stato faticoso, dicono, ma hanno creato lavoro, non eventi in streaming. Ora temono l'autunno e sognano un cambiamento in un «mercato drogato»

Com’è andata l’estate dei concerti più strana del secolo?

Foto: Umbi Meschini

A inizio settembre, mentre i grandi promoter italiani tornavano in campo con Heroes, un evento online più simile a un Festivalbar che a un vero concerto, i piccoli organizzatori erano in giro per l’Italia per chiudere la stagione estiva più strana del secolo. A causa delle precauzioni da adottare per prevenire la diffusione del Covid, l’affluenza è stata drasticamente ridotta e gli spettatori costretti a stare seduti e distanziati. Alcuni, impossibilitati a organizzare i grandi eventi che caratterizzano l’estate, hanno rinunciato a mettere in piedi concerti. Altri hanno fatto di tutto pur di portare la musica in giro e far lavorare la filiera, seppur a regime ridotto. «Il tour di Daniele Silvestri che ho organizzato si chiamava La Cosa Giusta», spiega Francesco Barbaro di OTR, uno dei più attivi quest’estate. «Credo che quel nome dica tutto».

«Pensavamo di fare zero», dice Giuseppe Ponti, uno dei responsabili booking di Ponderosa, «e invece abbiamo lavorato tanto, più di 90 concerti». Non era scontato. Quando, il 17 maggio, il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri ha reso note le linee guida per organizzare concerti nell’estate 2020, con la limitazione a 1000 spettatori all’aperto e 200 al chiuso, c’era grande scetticismo sulla possibilità di organizzare tour. Nessuno sapeva di preciso che cosa sarebbe accaduto. C’erano dubbi non solo sulla sostenibilità economica dell’operazione, ma anche sulla voglia della gente di andare a vedere un concerto in piena pandemia. Sarebbero stati troppo spaventati per uscire di casa? E poi, che cosa sarebbe accaduto in caso di recrudescenza della malattia? «Fortunatamente non abbiamo fatto alcuna fatica a vendere i biglietti», spiega Ponti, «a fronte ovviamente di capienze limitate e offerta non ampia. In ogni caso, c’è stata una grande risposta. La gente non ha avuto paura».

Francesco Barbaro, che con OTR ha messo in piedi 118 concerti, coinvolgendo 14 artisti, 56 musicisti e 83 tecnici, per un totale di oltre 230 ore di musica dal vivo, ha visto l’entusiasmo crescere data dopo data. «C’erano limitazioni, ma non è vero che bisognava indossare la mascherina durante il concerto come pensava qualcuno. Quando Max Gazzè attaccava Sotto casa o La vita com’è la gente non poteva correre sotto il palco come accade di solito, ma è stato un piacere vedere un pubblico educato e rispettoso delle regole. Nessuno ha protestato. La meraviglia di tornare a vedere un concerto dopo tanti mesi è stata più forte di ogni altra cosa».

Foto: Fondazione Musica per Roma

C’era una certa preoccupazione anche sul lato artisti. Avrebbero appoggiato l’idea di fare concerti davanti a meno pubblico e con una produzione spesso ridotta per contenere i costi? «La buona notizia è che gli artisti hanno sposato la causa, anche se ha significato compromettere il cachet, la grandezza delle produzioni, il numero di date», dice Pietro Fuccio di DNA, che quest’estate ha organizzato una settantina di concerti. Una delle incognite riguardava la reazione dei musicisti a platee semivuote. «E invece nessun artista si è lamentato», assicura Barbaro, «anzi, erano più contenti di me di aver scelto di suonare. E così, Daniele Silvestri che doveva tenere una decina di concerti alla fine ne ha fatti oltre 20». Ponti cita il caso di Lucio Corsi a Milano: «Su 1200 sedie erano sedute 700 persone distanziate: dal palco quasi non te ne accorgi. E difatti nessuno mi ha detto: che brutto vedere i buchi in platea».

Anche artisti che in maggio avevano firmato il documento di Assomusica in cui si diceva che la musica si sarebbe fermata hanno fatto qualche data nel 2020. Qualcun altro artista avrebbe potuto cogliere l’occasione per dare un segnale. È chiaro che star come Vasco Rossi difficilmente possono andare in tour in tempo di Covid con la produzione che hanno e con la massa di persone che muovono, ma altri, dice Fuccio, «avrebbero potuto dare un segnale: non solo parlare a parole delle maestranze, ma anche organizzare tour che avrebbero aiutato fattivamente i lavoratori della musica. “Sono troppo grande per muovermi” è un messaggio negativo. Quante volte abbiamo sentito i grandi artisti fare concerti segreti per 1000 persone o tour teatrali? Quanti artisti dicono: voglio fare un tour dei club perché è figo, perché è strano? Ok, perché non farlo adesso che è possibile, opportuno e forse anche necessario? Com’è che adesso invece hai bisogno di 40 mila persone in piedi sotto il palco?». Secondo Ponti, «molti artisti si sono fatti prendere dal timore di esibirsi davanti al pubblico distanziato e si sono mangiati le mani per non averlo fatto. Avrebbero ritrovato una dimensione più umana dei concerti che è mancata in anni di grandi tour».

Non tutto ha funzionato. Barbaro lamenta la variabilità spesso incomprensibile dell’applicazione delle regole da un luogo all’altro. «Lavorare a Taormina è stato diverso che farlo a Bagheria. A volte bisognava combattere su ogni cosa. La pignoleria ha causato in alcuni casi file troppo lunghe. C’era un po’ di nervosismo. Nella seconda metà di agosto, quando i contagi aumentavano a livello nazionale, qualche funzionario pubblico ha persino tentato di non far tenere i concerti». C’è stata anche qualche sbavatura dal punto di vista della comunicazione. Barbaro cita gli articoli in cui Elettra Lamborghini annunciava la cancellazione dei suoi concerti a causa della pandemia. «Questa cosa ha fatto pensare qualcuno che i concerti fossero diventati pericolosi, che lei fosse una persona responsabile verso il pubblico e noi organizzatori che continuavamo a lavorare no. Ma con tutto il rispetto, quelli della Lamborghini non erano concerti, erano ospitate in discoteca».

Secondo Fuccio, si sarebbe potuto fare di più se i promoter si fossero organizzati in anticipo. «Era nostro dovere immaginare prima della politica quali potevano essere le linee guida da seguire ai concerti, in modo da avere più tempo per lavorare». Non solo non è successo, ma l’associazione di categoria ha «spedito ai media un comunicato in cui con protervia parlava a nome di tutti» dicendo in buona sostanza che la musica si sarebbe fermata per l’estate 2020. «È stato offensivo, oltre che controproducente. Si è rinunciato a organizzare tour e rassegne, ed è un peccato».

Su una cosa tutti gli organizzatori concordano: il mondo della musica ha rispettato le regole anti-Covid, cosa che non è accaduta in altri settori. «È l’aspetto migliore e assieme peggiore della questione», dice Fucci. «Abbiamo la coscienza a posto, siamo stati scrupolosi e questa cosa è un motivo d’orgoglio, un modello. E però vedevamo che cosa accadeva appena fuori dai luoghi in cui si tenevano i concerti. È un po’ come quando paghi le tasse, vedi gli altri che non lo fanno e ti chiedi: ma sono io un povero stronzo?». Anche Barbaro è orgoglioso del fatto che «contrariamente a quanto accaduto nelle discoteche, non ci sono stati focolai ai concerti».

Foto: Arianna Carotta

Affinché ci fosse un’estate di musica molti artisti hanno cambiato il loro set. «Ognuno è stato una storia a sé. Per contenere i costi Giovanni Truppi è andato in giro per l’Italia in camper, proponendo un concerto da solo al piano», spiega Ponti, «al contrario Lucio Corsi ha suonato con tutta la band, ma ha fatto economia sul compenso». È un punto fondamentale. Gli artisti hanno accettato tagli drastici del loro cachet, si parla anche di riduzioni pari all’80, se non al 90%. «Se c’è stata un’estate musicale lo si deve a loro», dice Barbaro. «Non si è partiti dal loro cachet come succede di solito. Il cachet è stato modulato in funzione alle condizioni, al luogo in cui si esibivano, ai costi fissi. L’idea era guadagnare poco, ma guadagnare tutti». Ponti spiega che «non era solo una questione economica, anche se aver lavorato ha mitigato il periodo nero del lockdown. Si trattava di non far morire alcuni progetti, come il disco che Lucio Corsi aveva pubblicato da poco. E poi ci sembrava sbagliata questa idea che la musica si dovesse fermare, mentre altre attività riprendevano».

La riduzione dei cachet ha permesso ai lavoratori della musica, i cosiddetti invisibili di cui tanto si è parlato, di non restare a casa. «Un evento come Heroes, che pure aveva delle finalità lodevoli, è esattamente il contrario di quel che si doveva fare», commenta Fucci. Ovvero: si è scelto di portare online e senza pubblico un grande concerto al posto di farne di veri, ma piccoli. «È sbagliato pensare di salvaguardare l’attività dell’artista facendo concerti in streaming – che poi sappiamo benissimo che vedono pochi biglietti – facendoti pagare dallo sponsor. Perché facendolo, lasci a casa metà della crew che ci sarebbe stata a un vero concerto e l’altra metà la fai lavorare, sì, ma solo un giorno. E così facendo uccidi il settore». Secondo Barbaro, «c’è stata tanta retorica. L’esperienza di chi ha fatto concerti questa estate invece ha dimostrato in modo concreto che «ai lavoratori invisibili non bisogna dare beneficienza, ma lavoro».

Dal punto di vista economico non è stata ovviamente una grande estate: nessuno del resto se lo aspettava viste le capienze limitate l’aumento dei costi per ottemperare alle disposizioni anti-Covid. Secondo le stime dell’associazione di categoria Assomusica, che comprende anche organizzatori che sono rimasti fermi, la filiera ha perso 650 milioni di euro. Barbaro stima un meno 80% di fatturato. Dati alla mano, Rita Zappador di International Music and Arts parla di un calo del 72% nel trimestre che va da luglio a settembre 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019. «Chi ha preso i contributi del FUS e a quelli di qualche istituzione locale in qualche modo se l’è cavata», dice Fuccio. «L’obiettivo massimo è stato il pareggio e non è una situazione sostenibile sul lungo termine. Lo scrupolo di organizzare le cose secondo le norme, rispetto ad esempio e non solo alle discoteche, ha pesato negativamente».

Rita Zappador è ancora più drastica. Dice che «c’è stata un’esplosione di entusiasmo nel momento in cui ci hanno ridato la possibilità di lavorare, non abbiamo lasciato il pubblico senza musica, ma dal punto di vista economico è stata un’estate da dimenticare e quel poco che ci è stato è stato anche grazie ai comuni che hanno investito nell’estate i fondi che non avevano usato in primavera. Abbiamo vissuto una sorta di transfert. Il giudizio positivo sull’estate dei concerti scaturisce da una reazione emotiva a una situazione drammatica. Ma i concerti fatti sono stati un velo di cipria su un volto butterato dal tumore».

Foto: Valerio Quattrucci

Il futuro è tutt’altro che roseo. L’arrivo dell’autunno, che comporta la fine della possibilità di fare concerti all’aperto, peggiorerà la situazione. «Il settore che ha avuto un po’ d’ossigeno per due mesi», dice Fuccio, «nei prossimi tre, sei, nove mesi potrebbe rischiare di collassare». Barbaro sa che nei teatri e nei palasport sarà tutto molto più complicato, pensa che sarà ragionevole fare dei programmi solo da aprile o maggio in poi, non crede che in ogni caso «si possa tornare in una condizione di normalità nemmeno nell’estate del 2021». Ponti da una parte teme che «la gente avrà paura a vedere concerti al chiuso», dall’altra dice che se non altro «la nuova normativa permette di andare oltre le 200 persone, si arriverà a riempire metà sala». A Zappador non spiace l’idea di adottare per il futuro e per alcuni concerti al chiuso la soluzione scelta dalla Francia, con tutti seduti con la mascherina, ma pensa che la soluzione non può non passare dalla richiesta di risorse al ministro Franceschini e al governo: «L’industria culturale avrà un accesso al Recovery Fund? Verranno fatti i famosi Stati generali della musica di cui ha parlato Franceschini? Perché le istituzioni classiche che hanno ricevuto il FUS senza fare programmazione non danno una mano a chi non l’ha avuto e ha organizzato concerti?».

Quella del 2020 è stata l’estate dei piccoli promoter, anche delle riscoperta del concerto non come grande rito di massa, ma come incontro più intimo. La mancanza della concorrenza dei big ha dato più visibilità ad artisti più piccoli. Nessuno però pensa che il settore dei concerti ne uscirà migliore. «Sarebbe bello che quello che abbiamo fatto questa estate, poco o tanto che sia, non finisse qui, ma la volontà non basta» dice Fuccio che si augura che l’esperienza fatta porti se non altro a un ripensamento del mercato dei concerti. «Negli ultimi anni è stato gonfiato a dismisura: anche cinque, sei, sette volte il suo valore. Gli artisti ricevono offerte che non sono parametrate alla realtà. Certi artisti sono come squadre di serie A che partecipano al campionato per fare 120 punti in 38 giornate: non è matematicamente possibile». Come ci si è arrivati? «Le multinazionali ci mettono i soldi, artisti e manager sono poco lungimiranti e vogliono fare il passo troppo lungo». Barbaro dice di «preparasi a grandi rivoluzioni nel mondo del live, a livello sistemico. Le proposte economiche che vanno oggi non hanno senso. Gli organizzatori giocano d’azzardo quando portano negli stadi uno che fino a ieri era in cantina. Uno ce la fa, gli altri 99 finiscono male. Dovremmo dare agli artisti la possibilità di crescere lentamente, come si faceva negli anni ’90. E questo sì che sarebbe un bel ritorno alla normalità».

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