Analizzare come oggi si stia evolvendo l’utilizzo e la composizione della musica nelle serie tv ci permette di comprendere i molteplici aspetti che hanno definito parallelamente l’industria dell’intrattenimento e l’industria discografica. La scelte musicali per un prodotto televisivo hanno sempre vissuto di convenzioni legate agli aspetti più iconici della società, ma da qualche anno la canzone nella serie tv sta diventando parte attiva della narrazione e della caratterizzazione dei personaggi, seguendo le orme del cinema contemporaneo.
Non stupisce che il tema in questione sia diventato negli ultimi anni un argomento di ricerca sempre più vivo nel mondo accademico che si è concretizzato in una serie di pubblicazioni significative tra cui si inserisce perfettamente La canzone nelle serie tv: forme narrative e modelli produttivi di Daniela Cardini (Docente di linguaggi della tv e Forma e serie tv dell’Università IULM) e Gianni Sibilla (Direttore del master in Comunicazione Musicale dell’Università Cattolica di Milano e caporedattore di Rockol).
Partendo da un incipit correlato al significato di Hallelujah (nella versione di Jeff Buckley) nel fulcro narrativo di The O.C., i due autori ci illustrano come la scelta di una determinata canzone possa indirizzare l’evolversi narrativo di un prodotto seriale e come questo sia stato un elemento centrale, nelle sue forme complesse, fin dalla creazione delle sigle nelle prime sit-com di successo tra gli anni ’60 e ’80.
È proprio la theme song il primo esempio di strutturazione musicale per un prodotto televisivo seriale. La composizione musicale che dava inizio alla narrazione veniva utilizzata come espediente per diverse funzioni: anticipare gli elementi scenici nella strutturazione descrittiva di una famiglia come nel caso del Dick Van Dyke Show o dei Jefferson; rispondere alle convenzioni sociali che la televisione voleva trasmettere, in particolar modo negli anni ’50. «Ricordavano più degli slogan radiofonici che delle vere e proprie composizioni tese a rappresentare la bontà della classica famiglia della middle class», annota il New York Times.
Per Cardini e Sibilla la sigla negli anni ’80 diventa ancor di più un elemento para-testuale. La theme song non è più delegata unicamente a mostrare il mondo su cui si concentra la narrazione, ma diventa l’elemento per raccontare il punto di vista di chi quel mondo l’ha creato: «rappresenta il condensato narrativo e, allo stesso tempo, il potenziamento estetico della serie».
Il tema musicale introduttivo, nonostante possa sembrare anacronistico vista la possibilità offerta dalle piattaforme streaming di skippare interamente la sigla, rappresenta ancora oggi un focus non indifferente. Basti pensare che due delle più importanti serie dell’anno, acclamate da pubblico e critica, abbiano un tema fortemente caratterizzante e riconoscibile.
WandaVision e Succession (che fin dalla sua prima stagione presenta il tema composto da Nicholas Britell) hanno costruito il loro successo anche attraverso le specificità sonora della propria sigla che le rende riconoscibili a prescindere della conoscenza narrativa delle serie.
Con l’evolversi dei mezzi di supporto legati alla fruizione musicale, come l’avvento di MTV negli anni ’80, la canzone inizia a diventare un elemento sempre più presente e determinante nel fulcro narrativo delle serie. A cambiarne il suo fine, inizialmente ancorato solamente alla funzione di sigla iniziale, è Alexandra Patsavas (The O.C., Gossip Girl, Grey’s Anatomy, Mad Men, Bridgerton) a cui dobbiamo la moderna formazione della supervisione musicale.
Il campo di prova per iniziare a sperimentare i nuovi e differenti utilizzi musicali diventa il genere teen. Per la Patsavas come raccontato nel libro, diventa fondamentale inserire brani con sonorità rock alternative che possano ricordare sia i celebri sport autopromozionali di MTV che uno stile immediatamente riconoscibile per il target della serie.
La rappresentazione sonora negli show teen è stata sempre stata collegata e coerentemente contestualizzata alla generazione che si voleva narrare. Alcuni prodotti statunitensi usciti verso la fine degli anni ’90 e gli inizi degli anni 2000, come Dawson’s Creek, The O.C. e Gossip Girl definirono la cultura pop generazionale non solo attraverso lo svolgersi della narrazione, ma anche rendendo la musica parte iconica e fondamentale della serie.
Oggi con Euphoria, grazie al lavoro di Labrinth e della music supervisor Jen Malone, se ne sta riscrivendo la forma componendo e inserendo della musica che identifichi e rispecchi anche il contesto sociale e «un’adolescenza prigioniera nel limbo tra l’euforia e le dure conseguenze della dipendenza». I due episodi speciali rilasciati lo scorso Natale mostrano come la composizione esperienziale e formativa delle canzoni scelte (Liability di Lorde, Me in 20 Years di Moses Sumney e Madreviolo di Arca) rispecchia perfettamente lo scenario narrativo con cui si conclude la prima stagione. La musica fa da ponte emotivo per collegarci a quelle che saranno le tematiche della nuova stagione in uscita a gennaio.
Non è un caso, infatti, che anche in Italia i prodotti più innovativi dal punto di vista musicale, escludendo Gomorra che da sempre ha avuto un’impostazione internazionale grazie alle musica composta dai Mokadelic, corrispondano al genere teen come riscontrabile sia per Skam Italia che per Zero, con il coinvolgimento diretto di artisti come tha Supreme e Madame ideatori di un nuovo linguaggio generazionale.
È la strutturazione musicale delle serie teen che ha permesso agli inizi degli anni 2000 di codificare un sistema in cui la canzone diventa parte attiva e centrale nella narrazione seriale definito dai due autori modello HBO. «Come nota Annette Davison, la tv via cavo, costituisce una forte identità di brand fin dal nome, Home Box Office. La canzone diventa marchio di qualità sia della serie, sia della tv che la produce, e vuole stabilire una risonanza emotiva tra lo spettatore ed i personaggi o le scene a cui la canzone stessa viene associata».
La musica non è più lo slogan per presentare le caratteristiche di una serie ma diventa il fulcro della colonna sonora così come avviene nel cinema contemporaneo. Esempi come Mad Men, la cui composizione sonora rispecchia l’evolversi della società americana agli occhi del pubblicitario Don Draper; l’attualizzazione storiografica che ritroviamo in prodotti come Watchmen e Lovecraft Country, in cui la music supervisor Liza Richardson, mediante l’utilizzo di musica contemporanea e registrazioni, compone una narrazione sonora come rappresentazione del razzismo sistemico nella storia americana, ci permettono di comprendere che «la musica diventa attivatore di empatia, come stimolo alla memoria, indipendentemente dal legame del testo con l’azione che avviene sullo schermo», e in questo diventa imprescindibile il ruolo del music supervisor come unica figura capace di creare spazi sonori narrativi affinché proiettino lo spettatore all’interno della scena e del contesto storico. Il vissuto dei personaggi e le convenzioni sociali e storiche vengono traslate sempre nell’immaginario sonoro.
Il libro, scandendo le tecniche e gli elementi che ad oggi rendono imprescindibile una supervisione musicale coerente rispetto a quanto ci viene mostrato, apre una discussione molto importante e fondamentale rispetto alla nuova fruizione musicale nei termini seriali. La musica deve assumere un ruolo quasi interattivo che ci permetta di traslare nel nostro immaginario uditivo quanto avviene nel nostro range sensoriale e anche in Italia, dove al momento la figura del music supervisor rimane marginale salvo rare occasioni, può e deve essere molto più presente. Perché, come ci dicono Daniela Cardini e Gianni Sibilla, il futuro della serie tv dipende strettamente dalla musica che verrà scelta.