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Come lo metti in musica l’11 settembre?

Tre grandi autori contemporanei hanno preso spunto da voci, dettagli e piccole storie per dare un senso al trauma collettivo dell’attentato alle Torri Gemelle. Il racconto oggettivo è più potente della retorica

Foto: Chris Hondros/Getty Images

Pochi mesi dopo l’attentato alle Torri Gemelle, il grande compositore post minimalista John Adams è stato contattato dalla New York Philharmonic. L’istituzione newyorchese desiderava commissionargli un pezzo da eseguire per il primo anniversario dell’attacco terroristico dell’11 settembre. «L’idea mi terrorizzava», ha detto Adams. «Per molti era una ferita ancora aperta e per di più la gente era stata esposta a un’overdose di immagini».

Influenzato da Charles Ives, Adams ha creato un luogo musicale adatto alla memoria, una sorta di cattedrale sonora in cui rifugiarsi e commemorare le vittime. La composizione s’intitola On the Transmigration of Souls ed è dotata di una sua strepitosa staticità, un tipo di bellezza al tempo stesso inquietante e confortante. La prima parola che si ascolta, ripetuta con insistenza, è “missing”. Il libretto è composto quasi interamente da frasi prese da biglietti e cartelli esposti fra il settembre e l’ottobre del 2001 nelle vicinanze del World Trade Center, nomi, descrizioni fisiche, numeri di telefono da chiamare presenti negli altari del dolore e della speranza eretti spontaneamente a Ground Zero.

Un coro ripete la frase semplice e terribile pronunciata al telefono da Madeline Amy Sweeny, una assistente di volo presente sul volo 11 dell’American Airlines, poco prima che l’aereo si schiantasse contro la Torre Nord: «I see water and buildings», vedo l’acqua e degli edifici. Forse l’unico modo per raccontare quella tragedia, pochi mesi dopo, era spersonalizzarla, prendere elementi oggettivi ed esporli nella loro verità documentaristica, immergendoli in un contesto fatto di suoni orchestrali, cori ed elementi extra-musicali lontano dalla iperdrammaticità o dalla retorica nazionalistica di quei giorni.

John Adams non è l’unico compositore che ha affrontato il trauma collettivo dell’11 settembre aggrappandosi a storie altrui. Nel 2005 per scrivere The Sad Park Michael Gordon è partito dal racconto della tragedia fatto da alcuni bambini. «Viviamo due isolati a nord del World Trade Center», ha detto il compositore, «l’aereo volava sopra le nostre teste». Il figlio di Gordon e della moglie, la compositrice premio Pulitzer Julia Wolfe, frequentava la University Plaza Nursery School di Manhattan. Lì un’insegnante aveva registrato i commenti e i ricordi dei bambini di quella giornata drammatica, un modo per elaborarla ed esorcizzarla. Gordon ha usato quelle registrazioni per i tre movimenti della sua composizione. Prima di lavorarci, però, ha tenuto sulla sua scrivania la cassetta per un anno.

La prima frase che si sente è naïf come può essere quella di un bimbo e fa più o meno: «Due aeroplani cattivi sono esplosi ed è bruciato tutto». Poi però la frase viene rallentata fino ad assumere un carattere sinistro. Diventa puro elemento sonoro, un lamento inquetante, irreale e fantasmatico attorno a cui il Kronos Quartet suona la partitura.

Anche qui, come in On the Transmigration of Souls, al centro della narrazione c’è un elemento oggettivo. È come se il compositore volessi sfilarsi dalla narrazione e farsi testimone. «Usando la voce di qualcun altro, le voci di bambini di quattro anni, prendendo quelle registrazioni e trasformandole in astrazioni musicali ho cercato di creare un senso di oggettività, un tipo di musica diciamo così statuaria. Non stavo esprimendo il mio personale dolore o la mia visione politica», ha detto Gordon al New York Times.

«Per noi l’11 settembre non è stato un evento vissuto attraverso i media», ha scritto invece Steve Reich che quel giorno restò per ben sei ore al telefono col figlio che viveva ad appena quattro isolati dal World Trade Center.

Anche la sua WTC 9/11 inizia con una voce, oltre che con una pulsazione inquietante. È una delle tante usate da Reich: si tratta di registrazioni dei dialoghi del Comando di Difesa Aerospaziale del Nord-America e del New York Fire Department, oltre a interviste realizzate ad hoc a cittadini che vivevano in quella zona di Manhattan. Il gigante del minimalismo americano le usa non solo per accompagnare, ma soprattutto per plasmare la musica che reagisce alle voci: gli archi infatti armonizzano i racconti degli intervistati.

La terza parte della composizione è forse la più forte dal punto di vista emotivo. “I corpi venivano trasferiti sotto grandi tende”, recita una delle persone intervistate. Si riferisce a quel che accadde dopo l’attentato ai resti delle vittime. Reich evoca la tradizione ebraica della shmira che prevede che prima della sepoltura i corpi vengano vegliati recitando salmi o passaggi della Bibbia. Si sentono le voci di due donne che hanno effettivamente vegliato a New York i resti delle vittime e quella di un cantore di una sinagoga newyorchese: “Il Signore ti proteggerà, quando esci e quando entri, ora e sempre”, “Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato”.

L’uso di voci e rumori è pratica normale nella musica contemporanea, ma forse non è una coincidenza il fatto che questi compositori americani – che sono solo tre dei tanti che hanno scritto dell’11 settembre – siano partiti da elementi concreti. S’intravede la voglia di gettare uno sguardo oggettivo su quanto accaduto, di far parlare i protagonisti, che si tratti di testimoni o vittime, di non far passare tutto attraverso il proprio sguardo smarrito. È come se la ricerca di senso di un evento insensato e scioccante e senza precedenti, un fatto che sfida ogni comprensione, non possa che passare attraverso un qualche tipo di documentazione oggettiva. Sono tre memoriali che ci ricordano che a volte più della retorica è potente il racconto fattuale, benché frammentato.

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