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Dietro al mistero dei Sault c’è un Atlantico Nero di musica

I dischi dell'enigmatico collettivo inglese sono la colonna sonora ideale del libro di Paul Gilroy 'The Black Atlantic', una riflessione sull'identità nera, da Black Lives Matter alle gang di Londra

Cinque album in meno di due anni. Basterebbe questo a impressionare e far interessare ai Sault. Ma la vera notizia è che tutti e cinque gli album del collettivo inglese sono musicalmente validi: interessanti, freschi, pieni di spunti musicali e non solo. Non è solo quantità insomma, siamo di fronte soprattutto a tanta qualità. I riflettori di mezzo mondo sono accesi su di loro da ormai diverso tempo, complice il mistero che avvolge il progetto: sappiamo che si tratta di un gruppo-collettivo britannico; che esplorano l’universo della black music in lungo e largo, dal soul all’afrobeat, dal jazz alla disco; che dietro ai brani ci sono per lo più il produttore Inflo (già al lavoro con Michael Kiwanuka e su Grey Area di Little Simz) e la cantante Cleo Sol, oltre a collaborazioni degli stessi Michael Kiwanuka e Little Simz. Qui si fermano le notizie. Sicuramente c’è una grande componente di influenze e collaboratori che arrivano da oltreoceano, visto che, all’interno dei dischi, voci chiaramente americane cantano e si sovrappongono più volte.

Il loro recente quinto disco si chiama Nine e si può ascoltare/scaricare gratuitamente per 99 giorni dalla pubblicazione del lavoro. Dopo di che sembra che scomparirà dai download e dalle piattaforme di streaming digitale. Una strategia solo apparentemente in controtendenza con i tempi, che fa il paio con la mancanza di foto, di interviste e promo di qualunque tipo, oltre che una sobria presenza social, meramente funzionale. Un approccio del genere infatti, seppur inusuale per il mondo musicale, è diventato lo standard per quello della moda: il concetto di drop limitato di capsule a tempo di hype alimentato dall’esclusività, dal mistero e dalla disponibilità limitata. Sono tutte cose che funzionano benissimo per vendere vestiti e far aumentare l’interesse attorno ai prodotti e in qualche modo questo approccio funziona anche per l’ascolto di Nine.

Così come per gli eccellenti Untitled (Black Is) e Untitled (Rise) entrambi usciti nel 2020, il lavoro unisce musica a temi sociali pressanti. I temi dei due precedenti (usciti a ridosso dell’omicidio di George Floyd) abbracciavano l’esperienza nera ad ampio spettro: la storia, le proteste, la bellezza, gli alti e i bassi. In Nine il filo conduttore invece è la vita di strada, la violenza delle gang, con focus specifico su Londra: una città che negli ultimi anni è sempre più balzata agli onori della cronaca per questioni di questo tipo. La serie Netflix Top Boy (resuscitata da Drake dopo anni nel dimenticatoio) racconta proprio la Londra criminale delle gang. Lo fa in un modo che, così come fanno i Sault, si allontana dagli stereotipi e soprattutto dalla mitizzazione delle figure coinvolte, componendo un ritratto sfaccettato, crudo, drammatico e potente.

E così in Nine siamo trascinati in un viaggio che abbraccia tutte le sfumature di questo mondo a partire dalla strafottenza orgogliosa di London Gangs e Trap Life; il canto di dolore di Fear e Alcohol, passando per la confusione emotiva di Bitter Steets e la tragedia di Mike’s Story; l’orgoglio londinese di You From London? con una bellissima strofa di Little Simz. Concludendo con la speranza, la luce in fondo al tunnel di 9 e l’autocommiserazione di Light’s In Your Hand: “Pensandoci, non ho mai avuto un’infanzia / Ero costantemente al limite, costantemente al limite / Per tutta la mia infanzia / Ma, semplicemente, ci siamo abituati a vivere così / Al punto che ora siamo adulti e abbiamo la pelle dura / Non si dovrebbe avere la pelle dura come la nostra, non si dovrebbe / Non saremmo dovuti crescere così / […] Non perderti mai / Puoi sempre ricominciare daccapo”.

È uno storytelling minimale, ma efficace. Il pezzo forte rimane comunque la musica: i Sault hanno il potere di suonare vintage e intrisi di riferimenti illustri senza una sola goccia di nostalgia imbolsita o citazionismo gratuito. A lasciare esterrefatti poi è la costanza. Nonostante la lunghezza (soprattutto per il 2021) ogni progetto non lascia mai calare la tensione, ogni brano mantiene uno standard elevato; non ci sono riempitivi, non c’è mai la sensazione che un pezzo non sia necessario. Questo nonostante (o forse proprio perché) la loro musica sia pervasa da una sensazione di leggerezza compositiva, da jam con gli amici. Alla lunga la sensazione che abbiamo è proprio quella di trovarci insieme al misterioso collettivo in una grande sala prove. Seduti rannicchiati in un angolo con la testa appoggiata alle ginocchia, ascoltiamo i membri suonare sparsi per la sala mentre passano da un brano all’altro, da un’improvvisazione all’altra, in un flusso libero e divertente in primis per loro stessi. Un flusso musicalmente eterogeneo che passa senza sforzo tra generi diversi.

In Black Is e Rise si sentiva chiaramente l’urgenza di muoversi il più possibile, passando dal soul al batucada brasiliano in un battito di ciglia. Come se lo scopo fosse racchiudere quella cornucopia di influenze e diversi stimoli che è il mondo della diaspora afro-caraibica in due album serratissimi, pescando a piene mani da tutto il globo. Una delle più efficace manifestazioni musicali contemporanee di quell’Atlantico Nero descritto dallo studioso (anche lui inglese) Paul Gilroy nel libro omonimo. Un universo transnazionale che riunisce le diverse esperienze originatesi a partire dal colonialismo e la tratta degli schiavi.

«La specificità politica e culturale di quell’entità moderna che voglio chiamare Atlantico Nero può essere definita, a un certo livello, attraverso il desiderio di trascendere sia le strutture dello stato nazionale sia i vincoli dell’etnia e della particolarità nazionale. Questi desideri sono rilevanti per comprendere l’organizzazione politica e la critica culturale. Sono sempre stati in contrasto accanto alle scelte strategiche imposte ai movimenti e agli individui neri radicati nelle culture nazionali e politiche e negli stati-nazione in America, nei Caraibi e in Europa».

Nel discorso di Gilroy la musica ricopre il ruolo culturale fondamentale. È un’entità complessa e da analizzare attentamente, in quanto lo strumento attraverso cui sentimenti, idee politiche e questioni identitarie si sono espresse fin dall’inizio della storia dell’Atlantico Nero, viaggiando tra un Paese e l’altro e contribuendo alla nascita di tale concetto. La musica dei Sault sembra essere veramente l’incarnazione di tutto ciò, soprattutto alla luce di un rinnovato fermento globale di proteste e movimenti che sembrano intrecciarsi, a partire dagli Stati Uniti fino ad arrivare in Europa. Il loro messaggio e forse ancor più aderente alla filosofia di Atlantico Nero oggi, avendo scelto di approfondire un tema estremamente “locale”, usando un linguaggio che risulta strano o alieno a chi non è pratico delle questioni inglesi. Perché paradossalmente in fin dei conti basta controzoomare per rendersi conto di quanto tutti questi concetti viaggino attraverso il mondo e siano quindi reperibili da comunità diverse in luoghi diversi. Musicalmente quindi Nine non fa eccezione, pur essendo meno stratificato ed eterogeneo e più minimale dei precedenti. Nonostante questo passiamo dalla drum and bass di London Gangs ai ritmi afro-caraibici di Trap Life, il rap di Little Simz, l’R&B di Bitter Streets, Light’s in Your Hands e il soul/blues di Alcohol quasi hendrixiano in 9. Non ci si annoia mai.

Speriamo che il viaggio dei Sault sia solo all’inizio. Speriamo soprattutto che prima o poi decidano di farsi vedere in giro sui palchi, dove questo magma sonoro potrebbe veramente assumere picchi ancora più alti, esprimersi in modo elettrizzante e libero. Che sia mascherati o a viso scoperto, anonimi o come superstar, rappresentati da cartoni animati come i conterranei Gorillaz o in carne ed ossa. Non importa: con i Sault al centro di tutto c’è la musica ed i suoi temi, anche extramusicali. È l’unica cosa che conta ed è bellissimo così.

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