Nel corso dell’ultimo lustro le volte in cui Roma ha battuto sul tempo Milano si possono contare sulle dita di una mano che mostra il segno della vittoria o, all’occorrenza, quello dello scongiuro: il Covid e la Soho House.
Sono quasi tre anni che la prima Soho House italiana ha aperto nel quartiere hobo-chic per eccellenza della nostra Capitale: San Lorenzo. L’occasione di visitarla ci è stata offerta da un concerto di Ditonellapiaga, organizzato per la serie Soho Rising. Il format per artisti emergenti, grazie ai buoni uffici di Dom Chung, Head of Music di Soho House, è stato nel tempo un’occasione determinante per lo sviluppo della carriera di figure come Arlo Parks, Holly Humberstone, Moses Boyd, Berwyn, Gabrielles e Serpentwithfeet. Accanto a Soho Rising sono numerosi i progetti musicali che Soho House, sempre a livello globale, dedica in esclusiva ai suoi membri e ai loro tre potenziali, fortunati ospiti pro capite. Ad esempio, Secret Soho Sounds: un programma di concerti live – che vanta nel suo portfolio nomi come Lewis Capaldi e Kendrick Lamar – i cui performer non vengono rivelati fino al momento dell’esibizione stessa. A Roma ne è stata già protagonista Rose Villain.
Alla base del concetto di Soho House c’è un’intuizione semplice del suo fondatore, Nick Jones. Nella Londra del 1995 a Nick era evidente che il mondo stesse per cambiare così tanto che perfino i club inglesi sarebbero cambiati. Era pure il caso di farsene una ragione sociale. Per Jones un club non sarà più un luogo sì unico e irripetibile, magari nel cuore di Pall Mall, ma polveroso e inattuale per metodi di selezione dei membri, menu immutabili, arredo consunto, iscritti che ricordano i componenti della guardia nobile del papa all’epoca del Marchese del Grillo, bilanci faticosamente redatti da oscuri contabili post-dickensiani. No, un club sarà un network con sedi sparse per il mondo, simili in tutto il mondo (per “sentirsi a casa fuori di casa”, ovviamente se si avesse la fortuna di avere una casa arredata con pezzi di design e opere di artisti di grido). Soprattutto, sarà un network gestito come un’impresa turistica moderna, con liste di soci-clienti (che vi potranno cenare, ballare, albergare o vivere) dinamiche come, metaforicamente, ne sarà la cucina, che proporrà ovunque prodotti di stagione selezionati in base agli usi locali, ma con un unico retrogusto di fondo: la creatività non deve necessariamente fare a pugni col benessere. Solo così, cena dopo cena, evento dopo evento, si porrà fine, nella visione di Soho House, all’eterna lotta di classe tra chi ha idee e chi è in grado di consumarle.
Mercoledì la performance di Ditonellapiaga, accompagnata solo da una tastiera e dalla vista panoramica dell’ultimo piano della House, è stata davvero molto riuscita. La metamorfosi che si è compiuta nel programma della serata, dal momento cena a quello performance, è stata deliziosamente ovidiana, con un palchetto appena accennato che sbucava tra gli ulivi da vaso, per un set così intimo da sentire quasi il profumo del cocktail che Dito sorseggiava tra un pezzo e l’altro della cospicua scaletta, alternando momenti malinconici e uptempo, tutti riarrangiati per l’occasione. Era di fatto musica da camera per le nostre orecchie; ove la stanza, d’altro canto, non aveva più pareti ma rooftop infiniti.
L’attico della Soho House di Roma, coi suoi quattro diversissimi affacci (il cimitero del Verano a Nord-Est, a rappresentare il passato; l’Università La Sapienza a Nord-Ovest, il futuro; la Stazione Termini a Sud-Ovest, il viaggio; e la movida hipster e malandrina di San Lorenzo a Sud-Est a sintetizzare il tutto) è il perfetto manifesto poetico delle caratteristiche che questa casa vanta rispetto alle altre 42 della catena. Esclusività e inclusività non sono qui un gatto persiano che morde la coda a un cane randagio, ma vivono in perfetta simbiosi, un po’ come gentrificazione e microcriminalità, del resto, fanno a San Lorenzo (in molte altre aree storiche della città eterna l’una deve cedere al predominio dell’altra, a fasi alterne).
Da lassù, dieci piani sopra l’asfalto e le preoccupazioni quotidiane, è stato francamente liberatorio assistere alla performance di una cantautrice italiana di talento senza che una metà del pubblico ne traesse lunghi video verticali e, soprattutto, senza che l’altra metà si lagnasse, passivo-aggressivamente, di questa pratica, alzando gli occhi al cielo o scuotendo la testa fuori tempo. Il pubblico di mercoledì si limitava a cantare i pezzi sottovoce (pubblico sotto i 27 anni, in maglietta) o a meravigliarsi che gli altri li conoscessero (pubblico sopra i 27 anni, in camicia).
Ciò è stato possibile grazie a una regola talmente geniale quanto elementare: in nessuno dei tanti luoghi comuni che compongono una Soho House è possibile scattare foto. Anzi, vi è fatto divieto generale di telefonare, se non in apposite zone. Dunque, quello che paghi in selfie o foodie opportunity mancati, lo recuperi tutto in scuse per non rispondere al cellulare. Perfino gli spazi preposti al co-working sono off-limits dopo le 18, cosa che ha dato ai soliti maldicenti umoristi romani l’occasione di definire questa House la Hogwarts del fancazzismo (“Tanto vale fare finta di lavorare in un posto in cui ne vale la pena”). Da una parte, è evidente che la creatività logora chi non ce l’ha. Dall’altra è lapalissiano che, senza troppi strumenti di comunicazione, si comunica meglio. (Sono leggendarie, ad esempio, le interazioni dialettiche con Myss Keta nei corridoi: dopo una sua esibizione in occasione del Pride nel 2022, la cantante è di casa alla Soho di via De Lollis).
Così, mentre, durante i pezzi meno ballabili, un socio disincantato poteva affermare, aguzzando la vista in direzione di piazza dell’Immacolata: “Ai tempi miei qui era tutto Cicalone”; un membro meno smaliziato controbatteva, altrettanto argutamente: “Belli i tempi in cui la Soho House non c’era proprio, in Italia, così non dovevo sentire cazzate come questa”. Per ogni boomer dubbioso c’era, spesso, un millennial entusiasta che ricordava come “L’altra sera un Take That ci ha fatto un dj set” e, appresso, un Gen Z che cercava di googlare i Take That ma, non volendo dare nell’occhio, riponeva l’iPhone nella tasca della sling bag. A ogni esternazione gratuita da parte di un cinico: “La Soho House è l’unica americanata inventata dagli inglesi”, corrispondeva un attestato di gratitudine verso un’offerta culturale curata dallo staff amorevolmente come si fa con un bonsai: “Taci ché senza la Soho House a quest’ora stavi a scrollare i titoli di Netflix a casa”.
La platea di Ditonellapiaga era composta (con l’eccezione di qualche member straniero ma non troppo) perlopiù dalle tipiche persone in vista, distribuite in più fasce d’età, che a Roma si incontrano in giro per presentazioni di libri, inaugurazioni di mostre, anteprime cinematografiche, compleanni di persone più o meno famose o importanti. Solo, il divieto di uso del telefono, insieme alla tensione derivante – in qualche caso – dagli eccessivi gradi di separazione col socio invitante, un po’ le ingentiliva. Non ti urtavano quasi mai ma, se lo facevano, era quasi piacevole. Vigeva insomma un forte contrasto con la città e, in particolare, con la realtà dirimpettaia. Prendete un luogo come il mitico Bar Leonardo, un paio di civici accanto, dove l’unica membership premium che gli avventori conoscono è non sentirsi chiedere in anticipo il prezzo della consumazione al tavolo.
Agli antipodi sia del marketing piramidale che del sistema pensionistico, alla Soho House gli ultimi arrivati sono i primi presi in considerazione per gusti e preferenze, soprattutto musicali. I giovani under 27 pagano una quota d’iscrizione più bassa di quella degli over, ma gradiscono di più serate come questa. La loro creatività, colta già in fase di sviluppo grazie alla lungimirante selezione, viene stimolata, grazie all’influsso positivo di piccole e grandi attenzioni come le sale criogeniche della spa o il murale site-specific di Gio Pistone, a guadagnare abbastanza per arrivare alla fatidica soglia dei 28 anni potendosi permettere la membership a prezzo pieno, pur cercando in tutti i modi di non perdere in creatività, strada facendo.
In una Soho House gli avvenimenti normali non guadagnano i titoli dei giornali, come è stato per “quella volta col Take That”. Non troverete mai un pezzo del Corriere della Sera intitolato: “Ricco creativo trovato vivo in sala screening con in mano un signature cocktail”. Eppure diamo comunque tanto peso a notizie o fatti molto meno interessanti. Ci domandiamo allora se, in questa parte di mondo, a fare la vera differenza non possa essere proprio la prospettiva della quotidianità: i momenti in cui, spenti i riflettori sul Venerus o il nuovo socio di turno, appoggiati dolcemente a un tubolare nella piscinetta a sfioro (decimo piano), come una Apple Pencil in ricarica sul suo iPad, potremo dare finalmente un senso all’abbonamento digital al New Yorker o fare quattro chiacchiere, senza il consueto Tik Tok di fondo, con un amico di vecchia data o un calciatore del campionato svizzero appena conosciuto.
Forse è vero che, per quanto sia un gran bel posto, anche la Soho House Rome, come qualsiasi club ristretto o allargato, non potrà mai essere migliore delle persone che la frequentano, coi loro alti e bassi, coi loro slanci di creatività e le loro ambizioni di socialità. Ma, nell’ormai gravissima mancanza di punti di riferimento che deriva dall’iperstimolazione fornita dalla comunicazione e dall’informazione digitale, non andrebbe mai sottovalutato il valore dei luoghi in cui possono ritrovarsi fisicamente, fosse anche solo per fare ironia su sé stessi, travisando Groucho Marx: “Per una volta vorrei far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me”.