A due anni dall’ultimo album Lettere da Altrove, il musicista, scrittore e regista Lory Muratti sta per pubblicare con Torno per dirvi tutto il nuovo album ispirato all’omonimo libro, entrambi in uscita il 22 novembre. Per l’occasione ci siamo fatti dare due piccoli assaggi inediti, ed esclusivi dall’autore: il videoclip di Due comparse perfide e uno scritto che ci introduce all’interno del mondo notturno di Torno per dirvi tutto.
Non riesco a salutare i defunti sul web. Deve esserci qualcosa di strano in me se ho pensato che l’unico modo per dialogare davvero con loro fosse andarli a cercare nello sguardo di chi aveva in programma di andarsene. Cercavo echi della loro presenza sulle tracce di coloro che, decidendo di abbandonare questa vita in un atto di libertà estrema, auspicavano di trovare qualcosa di meglio altrove. Come se quelle anime in bilico tra la vita e la morte fossero state depositarie di una via privilegiata per comunicare con l’aldilà, guardavo nei loro occhi immaginando di poter scorgere chi ci aveva già abbandonati.
È stata questa ricerca a muovere il mio lavoro in questi anni spingendomi su vie sempre più solitarie fino a diventare un’ossessione. Ho creduto così di poter essere in qualche modo di aiuto per chi sentiva di non farcela più e di riflesso anche per me.
Non mi è stato chiaro da subito, ma liberarmi dalla paura di guardare negli occhi chi non teme di affrontare la fine considerandola persino “un nuovo inizio”, era ciò che sentivo di dover fare più di ogni altra cosa. Dovevo avvicinarmi e comprendere, senza giudizio e senza l’anelito del salvatore. Dato però che la comprensione è l’unica vera salvezza, come potevo essere un tramite di quel sentire senza prima ascoltare, senza interrogarmi e trasformare? Trasformare il dolore in luce, il vuoto in orizzonte, la deriva in un approdo. È così che mi sono ritrovato a tradurre in musica e in narrativa il tormento di un richiamo che non potevo più eludere.
Raccontare di quelle anime sfinite che progettavano di farla finita e di quel loro camminare in equilibrio sulle sottili dita che separano la vita dalla morte, aveva iniziato non solo a dare un senso al mio essere in musica, al mio scrivere e al mio comporre, ma anche alla mia stessa esistenza evitando così che anch’io mi aggiungessi a quel coro. All’origine del percorso non ne ero del tutto consapevole o forse non volevo ammetterlo, ma come in una fantasmagorica terapia di gruppo, come in un delirante gioco solitario e collettivo al tempo stesso, stavo chiedendo aiuto a chi chiedeva di essere aiutato.
Per non farla finita a mia volta, ho provato a indagare quel loro dolore che mi pareva sempre più simile al mio mentre un presente ben più spudorato di queste mie parole, ci ricordava ogni giorno di non avere bisogno di gente come noi. Nel tempo dei grandi eroi dell’apparenza, i miei fantasmi e io apparivamo semplicemente come dei grandi errori.
“Non c’è bisogno di altri narratori, di gente strana e gentile, di nuovi e vecchi artisti impegnati, di sognatori e di depressi” ci ricordava l’eco delle voci nell’era digitale e io provavo a rispondere a quel monito la notte. Ogni notte con più voce, ripetevo che forse era proprio questo il tempo che aveva invece più bisogno di persone come noi. Un terribile (e per molti temibile) bisogno di anime non allineate e libere. Pronte a farla finita, ma anche a decidere di restare in vita per dare una chance al mondo di dimostrare che ci eravamo sbagliati pensando che andarsene fosse l’unico modo possibile per non avere più niente a che fare con la decadenza, la superficialità, il controllo, l’incedere ostinato, il ricatto continuo, il denaro, le distanze.
“Ricordateci di spalle” avremmo detto uscendo di scena prima degli altri. Proprio come quando a un party arrivi mentre tutti sono già al secondo drink e te ne vai prima che possano chiedersi che fine tu abbia fatto. Così, solo per farsi ricordare.
In fondo non sono preferibili i ricordi a un presente che attraversiamo sempre più assenti e incuranti di quello che ci circonda? Non capita a ognuno di noi di rivalutare anche quelle piccole cose che un tempo ci apparivano insignificanti e noiose? Le stesse che oggi ci sembrano migliori solo perché abbastanza distanti. Un insensato meccanismo che si mostra ancora più evidente in relazione a ciò che un valore lo ha sempre avuto.
Ecco allora come sarebbe andata: si sarebbero accorti di noi in ritardo, ma si sarebbero accorti di schianto e, sebbene il mondo non fosse in grado di comprendere, non tanto il nostro valore quanto il valore dei nostri sforzi, noi gli avremmo fatto comunque un regalo. Gli avremmo dato l’occasione di scoprire chi eravamo amplificando il messaggio nel solo modo a lui congeniale: parlandone a posteriori con tono vagamente malinconico, mai troppo disperato e sempre autocompiaciuto; quasi a voler stemperare e sdrammatizzare persino la morte. La morte che, archiviata in quei termini, avrebbe fatto un po’ meno spavento.
È il prendersi sul serio a incutere la vera paura, non certo la fine degli altri. Prendere sul serio la morte, tanto più quella scelta in modo libero e poi scriverne, quelle sì che per il mondo sono cose da evitare. Da evitare sempre e comunque come l’uso della parola “suicidio”. Una parola che fa bisbigliare, ci avete mai fatto caso? I fantasmi lo sapevano e forse per questo hanno deciso di non parlarne affatto mentre il loro percorso li guidava ad ascoltare il mondo dalla stanza accanto. Preso nello stesso silenzio, io ho deciso invece di restare e raccontarli in una storia che, pur muovendosi nel mondo degli uomini, parla di chi non c’è più.
Non riesco a salutare i defunti sul web e per fortuna abbiamo altre forme per restare in contatto con loro. Strade simili a quelle che ci tengono in dialogo anche col nostro passato, con chi siamo stati, con chi credevamo di essere.
Grazie ai frequenti rimproveri che muovevo a me stesso, mi sono ritrovato proprio da quelle parti ed è lì che ho rintracciato il mio fantasma personale. Un “me” più giovane, destinatario delle mie invettive. L’artefice originario delle mie scelte sbagliate, degli errori commessi.
“Non sono io, sei tu” dicevo al mio doppio, mosso da quella rabbia che solo di fronte a uno specchio puoi sentirti in diritto di avere. Esordivo sempre con la stessa frase:
“Sei un coglione, lo sai?”
Io alzavo la voce e lui non capiva, restava in silenzio e ascoltava. Mi lasciava sfogare fino a che l’attacco non si stemperava in condiscendenza per trasformarsi infine in una forma di benevolenza. Un intenso confronto che teneva vigile me e faceva cadere lui addormentato.
Era a quel punto che mi calmavo, ritrovandomi da solo a fare i conti con la tenerezza che, prendendo il posto del disappunto, faceva emergere tutto l’amore per quel fratello minore, inconsapevole e incasinato. Soltanto in quel momento trovavo parole di conforto per lui. Un’accorata confidenza sulla vita che lo attendeva e di cui io avrei tanto voluto sapere di più quando mi trovavo al suo posto. Era quello il modo in cui provavo a metterlo in guardia. Anche se lui non poteva sentire, io sussurravo al suo orecchio strategie, consigli e indicazioni su come affrontare le difficoltà che avrebbe dovuto attraversare. Su come sopravvivere alla paura di non farcela e, a monte di tutto, gli facevo sempre la stessa promessa:
“Se anche il mondo non dovesse permetterci di essere protagonisti delle nostre esistenze; se anche fossimo predestinati a essere sempre e solo delle comparse fra le altre; non saremo mai due semplici comparse utili solo a rinforzare il coro. Ti prometto che saremo… due comparse perfide”.
Ci saremmo così mossi nel teatro della vita imparando le battute di tutti gli attori. Avremmo esercitato le nostre abilità di nascosto, giocando tra luce e ombra, imprevedibili e liberi. Liberi di essere e di creare, liberi di non accondiscendere, liberi di credere e dubitare, di mollare tutto e andarcene. Liberi di scegliere anche di farla finita o di trovare il coraggio per restare e fare tutto quello che è in nostro potere per dare un senso allo spettacolo della vita.
Ed eccomi a scriverti, caro amico sconosciuto, cara amica di cui non conosco il nome. Scrivo a voi che con coraggio siete arrivati su queste pagine e provo a ricambiare il vostro sforzo con una lettera aperta che ha il sapore di una confessione.
È voi che invito a raggiungermi in questa storia dove ci si smarrisce soltanto per ritrovarsi più forti e consapevoli di prima. Una storia in cui realtà e finzione si confondono mescolando i piani e dando vita a un percorso che costruiremo assieme. Serve infatti unire le forze per portare nel mondo un romanzo spericolato e un album di canzoni sovversive. È questo che scoprirete se vorrete proseguire il cammino. Musica che nasce tra le pagine del libro con il quale i testi dei brani condividono luoghi, atmosfere e personaggi. Un viaggio dal doppio volto che ho deciso di svelare partendo da un brano che considero una canzone di resistenza in un senso del tutto trasversale. Il videoclip che la accompagna è del resto conferma di questa natura nel suo prendere forma da un progetto visivo che ho iniziato vent’anni fa raccogliendo immagini dentro a una stanza interamente video-proiettata. Un esperimento rimasto in attesa di trovare la sua naturale collocazione.
E così, a completamento del dialogo che nel testo del brano mi vede a confronto con quel fratello sospeso nel tempo, sono tornato sui miei passi riutilizzando le riprese di allora e proiettandole in un luogo ai confini del mondo: la suggestiva casa-laboratorio dell’amico artista “Mario da Corgeno”. Lì ho replicato la performance di quei giorni lontani proiettando il girato dell’epoca e mettendo in relazione presente e passato. Ho navigato nel mare di visioni che mi avevano aspettato per tutto quel tempo e ho vacillato trovandomi al cospetto di un varco aperto tra ora e allora dove chi prosegue nel viaggio può sfiorare chi è ormai soltanto un ricordo.
Non riesco a salutare i defunti sul web, ma ho imparato ad ascoltarli, ho imparato a resistere e a trovare un senso per restare in vita. “Io sono Lazzaro,” potrei dire, “vengo dal regno dei morti, torno per dirvi tutto, vi dirò tutto” e tutto quello che ho da dire me lo ha insegnato chi non è più con noi.