«Volete andare così tanto fuori di testa che ci vorranno settimane per raccogliere i pezzi?», chiedeva Charles Burton nella recensione originale del secondo album degli Stooges pubblicata su Rolling Stone. Pubblicato 50 anni fa, Fun House è il Sacro Graal del proto punk. Le sette tracce del disco – dall’oscurità di Down on the Street, Loose e T.V. Eye fino alla sinistra Dirt, la selvaggia 1970 e al minimalismo della title track e al free-noise di L.A. Blues – hanno avuto un effetto devastante su generazioni di ascoltatori.
Uno dei musicisti sconvolti da Fun House è Henry Rollins, ex cantante di Black Flag e della Rollins Band e autore delle note di copertina della nuova edizione dell’album che uscirà il 31 luglio. Distribuito su 15 LP e due 7″, il box set contiene una versione rimasterizzata del disco, il debutto in vinile di The Complete Fun House Sessions – raccolta che comprende tutte le take registrate in studio, conversazioni comprese, e già pubblicata su CD –, due mix del singolo Down on the Street e un concerto all’Ungano di New York dell’agosto 1970 già pubblicato nel 2010. Ne verranno vendute solo 1970 copie.
«Come ho scritto nelle note di copertina, qualcuno penserà che il box set sia una versione estesa dell’album», dice Rollins. «E invece penso che l’album sia una versione ridotta del box set… Da appassionato di musica puoi ascoltare Fun House e pensare che è un bel disco. Ma se davvero vuoi viverlo in modo intenso, metti su il box set e dimmi che si prova».
Anche attraverso nuove interviste con Danny Fields – l’uomo che ha messo sotto contratto gli Stooges con la Elektra – e con il produttore Don Gallucci, le note di Rollins raccontano un album apparentemente primitivo, ma che in realtà è stato curato nei minimi dettagli. La band – Iggy Pop alla voce, Dave Alexander al basso, Ron e Scott Asheton a chitarra e batteria – ha registrato dal vivo in uno studio privo di insonorizzazione varie take di ogni pezzo, tra cui 15 di Down on the Street e 28 di Loose. Piccole variazioni nel tempo o nel testo cambiano in modo radicale l’effetto finale.
Qui sotto Rollins racconta il suo viaggio all’interno di Fun House, scrive che l’ascolto delle session complete ha cambiato il suo pensiero del disco, spiega perché, 40 anni dopo, è ancora il suo album preferito di tutti i tempi.
Credo che Chuck (Dukowski, bassista e co-fondatore dei Black Flag, nda) vedesse in me un cantante. Quando passavo del tempo con i ragazzi dei Black Flag mi ripeteva: “Amico, devi ascoltare gli Stooges”. E mi telefonava per assicurarsi che l’avessi fatto. Tornavo a casa dal lavoro in gelateria e il telefono squillava. Per me era come parlare con Roger Daltrey. Diceva: “Allora, hai sentito gli Stooges? Hai preso Fun House?”. E io: “No, ho dimenticato di farlo”. E lui: “Credimi, devi ascoltarlo”. Cercava di istruirmi, di prepararmi.
Fatta l’audizione per entrare nel gruppo, eccomi sul van con i ragazzi. Mi fanno: “Hai recuperato gli Stooges?. E io: “Non ancora”. A quel punto è intervenuto Chuck: “Ecco Kick Out the Jams degli MC5, Fun House e il primo degli Stooges. Quello è lo stereo”. Eravamo da qualche parte nel Michigan o forse in Illinois. Chuck ha detto: “Ascolta questi dischi. Se non ti dovessero piacere, sappi che sarà difficile stare in questa band e capire quel che vogliamo fare”.
E così, finalmente ho ascoltato gli Stooges. C’eravamo solo io e la musica. È difficile spiegare la forza di quel disco, basti dire che nessun altro album ha scatenato in me la stessa reazione al primo ascolto. Quando ho sentito i Damned ho pensato che erano un’ottima band. Stessa cosa per i Ruts o i Clash. Ma quando ho ascoltato Fun House me ne sono stato zitto. È stato come scoprire, chessò, il carbonio. Come vedere la pioggia scendere la prima volta. O scoprire l’acqua e berla. Mi ero imbattuto in una verità enorme. Era come se un camion mi avesse investito. Ecco l’effetto che Fun House ha avuto su di me. È come se i pianeti si fossero allineati: punk-rock, rock’n’roll, stile, intensità, ferocia. Capii che tutto quel che avrei fatto non sarebbe stato nulla in confronto a Iggy, agli Stooges e a Fun House. Sentivo di non essere capace di fare qualcosa del genere.
Non mi sbagliavo: non ho mai raggiunto quel livello. Ho sentito quel disco e non mi sono mai più ripreso. È diventato il mio preferito, subito, in quell’istante. Amavo il primo degli Stooges e Kick Out the Jams. Ma Fun House ha cambiato le idee che avevo sulla guitar music.
Sono cresciuto con l’arena rock. Andavo a vedere gli Zeppelin e i Van Halen e mi piacevano, poi sono passato al punk-rock e mi ha cambiato la vita. Quindi ho sentito gli Stooges: non mi hanno fatto odiare il punk-rock, me l’hanno fatto capire meglio. “Oh, ora so perché i Damned hanno suonato una loro cover nel primo disco, ora capisco perché l’hanno fatto anche i Sex Pistols in un singolo”. Erano tipo il monolite di 2001: Odissea nello spazio. Erano la fonte di tutto.
Nel debutto del 1969 gli Stooges erano una giovane blues band in grado di improvvisare quando necessario. Grazie al disco hanno fatto i primi concerti. E fino alle registrazioni di Fun House non hanno fatto altro che suonare, suonare e suonare. Sono diventati più bravi, soprattutto i due Asheton, Ron e Scott.
In quel periodo si sono isolati e hanno iniziato a scrivere canzoni. Fun House è il suono di una band che non deve suonare ogni due settimane. Grazie alla costante attività live sono arrivati a queste canzoni. Alla fine, Fun House è la scaletta di un concerto dell’epoca. Loose era all’inizio del set, ma Gallucci pensava che Down on the Street dovesse aprire il disco. Come spiego nelle note, ha registrato la band come se fosse dal vivo. Ha dato al cantante un microfono e un’asta e gli ha detto: fai come in concerto. Poi si è tolto dai piedi.
Nell’81 o nell’82 il giornale Trouser Press ha pubblicato un pezzo sugli Stooges e su Fun House. Si raccontava che Gallucci ha registrato tutto dal vivo, una canzone al giorno. Non immaginavo avessero inciso così tante take. Ce ne sono 28 di Loose, mio dio. Quando sentivo Fun House non pensavo a come l’avevano inciso. Ero troppo impegnato a recuperare la mascella dal pavimento, a cercare di capire perché diavolo mi intestardissi a suonare in una band.
La vera rivelazione arriva quando ascolti tutte le take. Gallucci una volta ha detto: «Questa è una band per musicisti, sanno cosa stanno facendo e sono alla ricerca di qualcosa. Non ero io a dirgli di rifare i pezzi, e non ero io a dirgli quando erano arrivati alla versione definitiva». E poi: «Il terzo giorno ero sulla stessa lunghezza d’onda». Quando gli ho chiesto come sapeva che si era arrivati alla versione giusta, ha risposto che lo sapevano tutti. «Semplicemente smettevano di suonare. Ci guardavamo ed era come se si fosse accesa una lampadina».
Non sono un tipo spirituale. Non ce l’ho dentro quella roba. Ma per un paio di notti mi sono quasi messo a piangere ascoltando quelle take in vinile. Mi riferisco a quelle di 1970, che diventa quasi un mantra. E a quelle di Dirt, che sono talmente belle da diventare estatiche. Ho scritto subito a Kathy, la sorella di Scott e Ron: «Sto ascoltando le take e sono sopraffatto. Sei l’unica persona con cui posso parlarne».
C’è tanto da dire sulla perfezione di questo disco. Di album ne ho ascoltati parecchi nella mia vita, e questo lo paragono a Kind of Blue e A Love Supreme. Non faccio paragoni col rock perché quelle session mi ricordano il jazz. Come con Coltrane o Miles, tutte le take erano sculture perfette. Nessun altro nel rock ha suonato live in studio ottenendo gli stessi risultati. Come ha detto Don, quelle canzoni venivano tutte dallo stesso posto. Costituivano un’opera. E non c’è praticamente nessuna sovraincisione in Fun House, giusto qualche chitarra e delle doppie voci. In un paio di momenti si sentono due Iggy. Ma a parte questo, ha detto Don, «mi sono tolto dai piedi».
Quelle take sono fotografie. Gli Stooges non stavano accumulando tracce. Era come se stessero scolpendo una statua nel marmo e non riuscissero a fare bene il naso. Quindi prendevano un altro blocco e ricominciavano daccapo. Ecco la Venere di Milo, avanti la prossima. C’è della purezza in tutto ciò, di certo io in studio una cosa così non l’ho mai fatta.
La canzone più difficile da suonare per me è Down on the Street, perché è semplice. Ha due o tre accordi, la difficoltà sta nel riuscire a trasmettere quel feeling. Per arrivare a quel ritmo hai bisogno di Scott Asheton. Hai bisogno di Dave Alexander. Provateci. È probabile che non riusciate a suonare in quel modo. Nelle take si sente Scott suonare dritto per un po’ di volte, poi inizia a rallentare e accelerare il tempo fino a trovare l’equilibrio perfetto. Ed ecco che arriva la take definitiva. Si sente nel primo levare, quando Ron fa “boom” e torna sull’uno. Tutte le volte che lo sento ho un riflesso quasi pavloviano. Tutti i peli del braccio si alzano. Wow.
A volte le band mi chiedono consiglio. “Che cosa dovremmo fare?”. Rispondo sempre nello stesso modo: figlioli, cosa volete fare? Divertitevi. Divertitevi e basta, perché è improbabile che arriviate a suonare Wembley di fronte a 30 mila persone, quindi almeno divertitevi e cercate di restare nel raggio di un milione di chilometri da questo pezzo. A quel punto mando Down on the Street, e dico: “Ragazzi, questa è la canzone perfetta. È suonata da dio. Alla band è bastata un’ora per registrarla, e dopo questa take hanno smesso. Questa era l’ultima. Era l’ultimo pezzo della giornata. Provateci voi. Provate a fare qualcosa così bene. Cercate anche solo di, chessò, lavarvi i capelli altrettanto bene”.
Ci sono un paio di versioni di Loose in cui l’assolo solo di Ron Asheton è bello tanto quanto quello sull’album. In un’epoca diversa e con una tecnologia differente avrebbero preso quell’assolo e l’avrebbero incollato su un’altra take. Oggi si fa così. Canzoni Frankenstein. Un pezzo preso da qui, un altro da lì. Rallenta questa parte digitalmente. Poi sistema tutto per la radio. È una perversione.
È raro che un disco sia perfetto, ma Fun House lo è. Dopo, gli Stooges non sono più stati gli stessi. Hanno fatto una musica completamente diversa, con un’altra formazione e un altro ethos. Ma anche se fossero entrati in studio due mesi dopo, forse non sarebbero riusciti a fare un altro Fun House. Lascio ai lettori le ricerche del caso, ma alla fine del 1970 la band era in una fase completamente diversa.
Insomma, in questo disco era tutto perfetto: la band, il momento, lo studio, il produttore. Non si può dare abbastanza credito a Don e all’idea di portare in studio il sassofonista Steve Mackay. Quando suona, Steve infonde ai brani un po’ di follia. Se metti Steve su un pezzo, quello diventa tutto fuori di testa, la chitarra reagisce alle parti di sax. Il bello è che le parti di Steve non sembrano posticce. Fanno parte della scultura, dell’opera di cui parlava Don.
Ho un sacco di dischi, ho il garage pieno, ma non ce n’è nemmeno uno migliore di Fun House. Led Zeppelin IV ci si avvicina, e pure Ziggy Stardust. Nel mondo sono stati registrati un sacco di grandi dischi, tonnellate, migliaia. Ma secondo me nessuno batte Fun House.