C’è un Lucio Dalla diverso da quello che tutti conoscono. Diverso dal fine cesellatore pop de L’anno che verrà, di Balla balla ballerino, di Caruso o di Attenti al lupo. Un Lucio Dalla che tra il 1973 e il 1976 inanella tre album fondamentali, uno dietro l’altro. Dischi che vanno oltre la forma-canzone e che si avvalgono di un apparato poetico d’alta levatura. Parole che come lame affilate vanno a squarciare il tessuto politico-sociale dell’Italia dei ’70, che mettono l’uomo innanzi alla sua piccolezza nei confronti del capitalismo imperante che lo schiaccia tra bisogni reali e fittizi. Questi tre dischi sono da imparare a memoria in ogni loro suono e parola, specialmente al giorno d’oggi. E sapete perché? Perché qui c’è una cosa che ai nostri giorni, in Italia, si è dimenticata. La parola è coraggio.
L’antefatto: Dalla era partito come enfant prodige nella sua Bologna (già in tenera età faceva parte di una compagnia teatrale), aveva studiato il piano e diversi strumenti a fiato, aveva scoperto il jazz e se ne era innamorato. L’adolescenza l’aveva quindi passata a girare per i palchi d’Italia con la Rheno Dixieland Band e a suonare con giganti del calibro di Chet Baker. Ma, all’alba dei ’60 gli piace anche il pop e il neonato rock. Diventa cantante dei Flippers, ancora jazz, ma più vicini a sonorità adatte al grande pubblico. Qui Lucio canta anche, sviluppando a poco a poco uno stile incredibile che si muove tra melodia e scat jazzistico. Comincia a diventare un personaggio, tanto che l’amico Gino Paoli lo sprona a tentare la carta solista. Da lì è un susseguirsi di singoli, di partecipazioni a Sanremo (nel 1966 con Pafff… bum!, abbinata nientemeno che con gli Yardbirds di Jeff Beck) e di un album, 1999, con canzoni di facile presa insieme a timidi tentativi psichedelici (il brano omonimo) che cominciano a rivelare l’animo inquieto del musicista. Già perché Dalla non è un semplice cantautore è un musicista fatto e finito. Clarinettista, sassofonista, pianista, cantante dotato di tecnica eccelsa. Un caso raro nella musica italiana che, un tentativo dopo l’altro, riesce a raggiungere il successo. Dopo altri singoli e due album (Terra di Gaibola, 1970 e Storie di casa mia, 1971), la celeberrima 4/3/1943 (presentata a Sanremo 1971) e Piazza Grande lo lanciano in orbita. I brani sono composti su testi di Paola Pallottino. Già, perché finora Lucio non si è mai sentito sicuro a firmare testi suoi. La cosa per adesso non lo turba, nondimeno succede qualcosa che butta all’aria anni di duro lavoro.
Lucio Dalla è diventato famoso, ha portato a casa un discreto gruzzolo e davanti a sé ha un futuro radioso. Deve solo comporre altre mille 4/3/1943 e non sbaglierà. Invece no. Lucio è un tipo cazzuto e curioso. Curioso perché è un musicista, la musica che gira intorno in quel momento lo affascina perché è aperta, se ne frega dei tre minuti della canzone standard, si muove libera tra suoni e strutture. Cazzuto perché è un uomo dei suoi tempi, tempi duri che prevedono lo stare in campana a livello politico, essere informati, attenti, partecipi. Il lavoro, l’alienazione della fabbrica, il meridione, il femminismo, l’inquinamento, la lotta al sempre più soffocante capitalismo. Tutte cose che l’artista, ieri come oggi, non può lasciare da parte a favore di semplici canzoni d’amore utili a far colpo sulla parte più banalmente emotiva dei fan. Ci vuole coraggio, voglia di mettersi in gioco, fregarsene del successo, ma perseguire qualcosa che trasformi chi dona arte e chi la riceve. Gli anni ’70 sono tempi tosti (come, per altri versi, lo sono oggi) e solo la lotta appassionata può smuovere qualcosa, non i testi pulitini e le musiche schiave del sistema, non l’allineamento. In questo primo scorcio di anni ’70 i musicisti scendono in piazza con i lavoratori, gridano e lottano con loro. Spaccano tutto se è il caso.
Destino vuole che proprio in questo periodo un grande della letteratura italiana, Roberto Roversi, sia a caccia di nuovi stimoli e avventure. Roversi, ex partigiano, è uno che ha collaborato con Pasolini (con il quale aveva fondato la rivista Officina), è stato il co-direttore di Lotta continua, è diventato uno dei poeti più importanti del dopoguerra non facendo mancare mai il proprio acceso impegno politico. Ed è un uomo coi controcoglioni: a un certo punto ha infatti smesso di pubblicare con grandi editori (Feltrinelli, Rizzoli) e si è impegnato a proporre le sue opere su fogli fotocopiati distribuiti liberamente, oltre che a collaborare con piccole riviste autogestite. Insomma, Roberto Roversi è il personaggio giusto per Lucio Dalla in questo momento. Il fattore che fa scattare la definitiva scintilla è il fatto che Roversi abbia voglia di impegnarsi in una sorta di recital musical-poetico, con suoi testi musicati da qualcuno. Nello stesso momento Dalla è in cerchi di qualcuno che possa dare spessore alla sua musica anche tramite i testi. Tramite Renzo Cremonini, produttore di Dalla, avviene l’incontro e scocca la scintilla.
“Il giorno aveva cinque teste” (1973)
Il primo parto della coppia è un disco denso e variegato. Con brani nei quali vengono scardinate le strutture. Non esistono più strofe e ritornelli, ma un continuo flusso musical-poetico di rara raffinatezza e godibilità. Il talento di Dalla nel comporre fa sì che i brani, per quanto originali, non perdano mai il gusto per la melodia forte, il ritmo e l’arrangiamento variegato ma mai velleitario. I dischi di Dalla-Roversi in fondo sono in tutto e per tutto ancora opere per la massa, ma per una massa intelligente e dotata di senso critico.
Il disco si caratterizza per la presenza di larghi momenti che si rifanno al prog sinfonico in voga in quel momento, con grandi innesti di sintetizzatori, cambi di tempo e atmosfere. Il tutto però non indugia quasi mai nell’immaginario simbolico del prog bensì usa parole dirette che colpiscono chi ascolta con forza e un afflato poetico di spiccata levatura.
L’iniziale Un’auto targata TO ne è l’esempio, una brano cupo come lo smog di una città-industria, all’ingresso di una fabbrica. Lo spaesamento dell’operaio che viene dal sud, il suo essere parte di una catena di montaggio non solo fisica ma anche mentale. Una piccola parte allo stesso tempo fondamentale per il buon funzionamento del meccanismo capitalistico ma anche sfruttata proprio perché infinitamente intercambiabile. Fuori uno e avanti un altro. Oppure Grippaggio, una vera micro-suite in cinque movimenti su una coppia che rimane in panne su una strada deserta e mentre vanno in cerca di aiuto si rendono conto di tutta un’umanità sotterranea che ai loro occhi borghesi sembra aliena: braccianti, operai, profughi rifugiati in baracche fatiscenti. O ancora Alla fermata del tram, concitata e nervosa, cantata da Dalla con immane sforzo passionale a descrivere chi giorno dopo giorno compie sempre le stesse azioni. C’è anche spazio per episodi metaforici come Il coyote, sull’importanza immaginazione come viatico per la conquista di un mondo migliore, o La canzone di Orlando, sulla speranza che tutto scorra fino a un nuovo inizio. Infine il capolavoro: L’operaio Gerolamo, dotato di una smisurata tensione musicale a base di Moog urlanti mentre si descrivono le peripezie di un operaio, che poi è una moltitudine di operai usati, sfruttati e sostituiti come fossero oggetti.
Dalla in questo periodo dichiara: «Ho capito che anche una con una sola canzone si può infliggere al mondo una coltellata nel fianco. Sono del parere che un cantante, oggi, non può limitarsi a cantare perché la canzone è diventata motivo di discussione, di comunicazione, di lotta. Dal mio punto di vista non me la sento di prendere in giro la gente con motivetti facili, senza niente dentro».
“Anidride solforosa” (1975)
A metà degli anni ’70 l’inquinamento sta cominciando a diventare materia di dibattito sociale. Il tema ispira a Roberto Roversi un testo poetico che racconta di una ragazza che ha lasciato la provincia per trasferirsi in una città oppressa dallo smog. Dalla riveste le parole di una musica a due facce: una ironica (quando descrive la ragazza e il suo mondo), l’altra drammatica (quando descrive il paesaggio urbano e si interroga sul futuro dell’uomo). Da un parte il piano da romanza di Kurt Weill (con Dalla bravissimo a interpretare il personaggio un poco frivolo, una donna ma anche la caricatura di un omosessuale), dall’altra le spire di tastiere apocalittiche. Il brano prende il nome di Anidride solforosa (gas liquido detto anche diossido di zolfo) e fa da traino al secondo parto della coppia Dalla-Roversi.
È un disco ancora più cupo del precedente, sempre profondamente legato a temi sociali di grande spessore, come i detenuti del carcere minorile Ferrante Aporti di Torino in Mela di scarto, una musica cadenzata di stampo jazz-rock con venture folkloristiche e la voce di Dalla quanto mai straniante, sorretta com’è dal coro femminile della Baba Yaga, mentre canta di una “terra senza amore” che non ha nulla di umano e correttivo. Poi c’è la piccola protagonista di Carmen Colon, una bambina uccisa da un serial killer negli Stati Uniti, con immagini del ritrovamento del corpo e decine di sciacalli a guardare e commentare. Qui Dalla mette in scena un vero e proprio pezzo di teatro musicale in più quadri. L’aria si fa poi grottesca e surreale in La borsa valori, nel quale, su un torrida base funk-prog, vengono cantati i nomi di aziende quotate in borsa e di azionisti. Anche qui, come nel precedente, insieme alle maratone più sperimentali non mancano momenti più melodici e rilassati, come Ulisse coperto di sale e Merlino e l’ombra.
“Automobili” (1976)
Col terzo volume di questa trilogia coi fiocchi arriva il capolavoro. Concept album dedicato a passato, presente e futuro dell’auto. Automobili si segnala per la sua compattezza, la bellezza dei brani e i super-arrangiamenti. In realtà Automobili è un disco monco. Alla versione definita mancano infatti, per volere della casa discografica, almeno cinque brani pensati apposta per il progetto. Altri (come Intervista con l’Avvocato o Mille Miglia) vengono invece accorciati o assemblati in maniera diversa rispetto al progetto originario. La sequenza completa dei brani viene presentata da Dalla durante uno speciale in sei puntate trasmesso dalla Rai nel 1977, intitolato Il futuro dell’automobile.
Lo sfoltimento della scaletta non va fortunatamente a inficiare sulla buona riuscita del disco che anzi ci guadagna in vigore e immediatezza. Ciò senza perdere nulla della sperimentazione messa in atto nei dischi precedenti, anzi. I brani di Automobili sono i più lunghi della trilogia, vere e proprie suite colme di sorprese che mettono insieme l’afflato prog sinfonico de Il giorno aveva cinque teste con quello jazz-rock di Anidride solforosa. Peccato che il buon Roversi non ne sia assolutamente felice. Per dirla tutta è proprio incazzato. La RCA ha tagliato i brani non dando modo al poeta di esprimere liberamente tutto quello che aveva da dire sull’industria automobilistica e sull’alienazione dell’uomo moderno circondato dalle macchine. Per prima cosa quindi decide di non firmare a suo nome i testi (utilizzerà lo pseudonimo di Norisso), poi fa capire a Dalla che l’utilizzo delle sue poesie in un ambito capitalistico come l’industria discografica non fa per lui. Prevedibile visti i suoi trascorsi. Così il sodalizio si scioglie. Resta quest’ultimo album, uno dei più importanti della musica italiana, con la bizzarra Intervista con l’Avvocato, una immaginaria chiacchierata con Gianni Agnelli tra cabaret e schizzi alla Demetrio Stratos, la lunga Mille Miglia – prima e seconda parte, una vera epopea in sella a un’auto d’epoca tra le campagne emiliane, il singolo Nuvolari, dedicato al grande pilota modenese, colmo di rallentati e accelerazioni febbrili, le prog-psichedeliche Il motore del Duemila e L’ingorgo, e il finale di Due ragazzi, con aperture sinfoniche da brividi.
Dopo Automobili Dalla si renderà finalmente conto di essere pronto per scrivere testi solo suoi. Da lì verrà Come è profondo il mare e un successo sempre crescente. Successo affrontato questa volta con nuova consapevolezza. Ora è Dalla a indicare una via, mai più dovrà adattarsi alle esigenze dell’industria discografica. Il sodalizio con Roversi gli ha insegnato come si lavora con le parole, cosa che ha imparato egregiamente. Il poeta dal canto suo si arrocca nella sua convinzioni ideologiche e per lunghi anni cessa ogni rapporto con Dalla. I due si ritroveranno nel 1990 quando Lucio deciderà di musicare un testo rimasto nel cassetto dal 1978: Cambia la faccia di Dio, che re-intitola Comunista e inserisce in Cambio. Dopo questa ci sarà un’ulteriore collaborazione tra i due, per la pièce teatrale Enzo Re, un vecchio lavoro che ritorna alla luce con l’ausilio di cinque nuovi brani firmati da Dalla.
L’avventura di Roberto Roversi e Lucio Dalla si conclude qui. Tre dischi stupendamente ricchi (e attuali) e una coda di collaborazioni. Materiale che dovrebbe spronare ascoltatori e musicisti a cercare di combattere con forza le convenzioni di chi vuole tenere il freno tirato, nella musica come nella società. Andare oltre, con tutto il coraggio possibile.