Se c’è una canzone che più di ogni altra riassume il genio chitarristico di Peter Green, quella è Jumping at Shadows nella versione registrata dal vivo nel febbraio 1970 al Boston Tea Party. Green era al top, una rock star di 23 anni che guidava i Fleetwood Mac. Erano gli eroi del Regno Unito e avevano un pezzo al numero uno, Albatross. Eppure Jumping at Shadows non ha alcunché di celebrativo. È un ballata blues tragica interpretata con voce malinconica e tremante, suonata da una chitarra che esprime una forma lieve di dolore. “Sto cadendo in basso e la colpa è mia”, dice il testo. Quanta tristezza c’è in quelle dita, quanta tenera rabbia. È questa calma quasi serafica a rendere la canzone ancora più spaventosa. Voce e chitarra si limitano a sussurrare, ma dentro ci puoi sentire il demonio.
In cinque minuti, Jumping at Shadows racconta la storia di Peter Green. Il chitarrista l’aveva presa dal repertorio di un bluesman inglese chiamato Duster Bennett e l’aveva trasformata nella sua autobiografia in musica. Nel rock non esiste un altro suono paragonabile al grido di dolore della chitarra di Green. Ecco perché non sarà mai dimenticato e perché il mondo piange la sua morte. Cinquant’anni dopo la separazione dai Fleetwood Mac, i suoi classici come Love That Burns, Before the Beginning, Black Magic Woman sono ancora testimonianze vibranti. Il loro strumentale Albatross era talmente buono che i Beatles lo copiarono per Abbey Road, trasformandolo in Sun King. In Man of the World lui cantava a bassa voce: “Voi che ti racconti la mia vita?”.
Al picco di popolarità girò le spalle alla musica e sparì diventando uno dei grandi misteri del rock. Vittima di un esaurimento nervoso legato all’uso di LSD, mollò tutto e finì anche per vivere per strada. E così, mentre i Fleetwood Mac diventavano superstar negli anni ’70, lui veniva dimenticato, un po’ come Syd Barrett nei Pink Floyd. Quando entrò nella band, Stevie Nicks non aveva mai sentito parlare di lui. «Quante notti ad ascoltare i vecchi Fleetwood Mac e a piangere chiedendosi che cosa gli era successo», ha detto Mick Fleetwood nel 1997. «Quand’ero in tour invitavo la gente in camera. Dovreste ascoltare Peter Green, dicevo. Mettevo su un disco e immancabilmente scoppiavo in lacrime».
Alla fine, Green ha ricominciato a suonare e ad andare in tour con la sua band, lo Splinter Group. L’estrema fragilità non era però svanita. «La chitarra mi parlava, ma non posso più permetterglielo», dice nel documentario Man of the World. «Non posso lasciare che mi spezzi di nuovo il cuore».
Aveva un timbro unico nato per caso: dopo averlo smontato per pulirlo, aveva rimontato al contrario il pickup della sua Gibson Les Paul e quel suono gli era piaciuto. Come molti altri musicisti britannici, era stato influenzato da re del twang, Hank Marvin degli Shadows, ma alla fine era stato preso dal blues. Andava al caffè all’angolo a suonare Howlin’ Wolf al jukebox e studiare lo stile chitarristico di Hubert Sumlin. Nel 1965 ha sostituito Eric Clapton nei Bluesbreakers di John Mayall, facendosi un nome per il vibrato fuori di testa di The Supernatural. Due anni dopo, ha lasciato il gruppo portando con sé il batterista Mick Fleetwood e il bassista John McVie per fondare i Fleetwood Mac. La scena blues inglese girava attorno al virtuosismo, ma Green era diverso. Come un disse una volta, «buona fortuna alla Snoggley Blues Band che sta avendo un bel po’ di successo nella scena blues bianca grazie a un chitarrista ritmico che suona 7541 note al minuto».
Non era quello il suo stile. Per lui contava l’emozione. «Sumlin e Wolf ce l’avevano», ha detto al mensile Mojo nel 1996. «I chitarristi che copiavano i vecchi musicisti neri ne davano la loro interpretazione, ma non riuscivano a copiarne il sentimento. Era troppo profondo, troppo doloroso. Lo era anche per me. Alla fine mi sono inventato storie».
Erano storie d’ogni tipo. Sapeva scrivere ballate malinconiche all’altezza di Nick Drake o Richard Thomson, ma anche pezzi rock duri come Oh Well che conteneva il verso “Non chiedermi che cosa penso di te, la risposta potrebbe non piacerti” (le Haim la fanno benissimo dal vivo) o The Green Manalishi (With The Two Prong Crown), una sorta di prog metal ante litteram. Nell’ultimo album coi Mac del 1970 Then Play On esplorava la psichedelia in Before the Beginning e Underway. Ce n’erano tracce anche nel suo disco solista The End of the Game, ma gli acidi se lo portarono via, fino a farlo scomparire dalle scene.
Ho scoperto la musica di Peter Green quando avevo 23 anni e un’amica mi venne a trovare da Los Angeles. Andammo in giro in auto per Boston tutta la notte ascoltando una cassetta che aveva fatto per l’occasione. C’erano un sacco di pezzi chitarristici, ma Man of the World mi fece andare fuori di testa: era dolce e assieme intensa (all’alba gettammo la cassetta fuori dal finestrino dell’auto). È ironico che il suo pezzo più famoso, Albatross, sia anche quello più allegro, in modo non diverso dagli Shadows. Robert Christgau ha descritto benissimo il suo modo di suonare fluente in modo persino miracoloso: «Peter Green fa passare B. B. King attraverso Santo & Johnny, con il senso della frase musicale di un sassofonista». Era un musicista di culto con una discografica incasinata. I fan sapevano di dover comprare immediatamente qualunque disco con sopra il suo nome, perché presto sarebbe diventato introvabile.
Anche dopo la separazione, continuò a gettare un’ombra sui Fleetwood Mac. Nel 1971, a Los Angeles, Jeremy Spencer sparì improvvisamente: doveva suonare al Whiskey a Go-Go, non si presentò perché era entrato in una setta religiosa. Anche Danny Kirwan ha avuto un esaurimento. Come ha detto Lindsey Buckingham nel 2013, «ai chitarristi di questa band non va granché bene».
Stevie Nicks sentiva una sorta di affinità con Green. «I Fleetwood Mac hanno sempre avuto un’aura mistica», ha detto nel 1980. «Quando sono entrata nel gruppo ho comprato tutti i loro album. Anzi, mi sa che li ho chiesti a Mick perché non potevo permettermi di comprarli. Mi sono messa lì, li ho ascoltati e ho cominciato a pensare a quale tema potessi allacciarmi. L’unica parola che mi è venuta in mente è “mistica”. C’è effettivamente qualcosa di mistico nei Fleetwood Mac che parte dall’epoca di Peter Green. Ed è una cosa che mi piace molto». L’anno scorso, durante il tour del cinquantennale della band, Stevie ha reso omaggio a Green cantando Black Magic Woman come se fosse stata scritta per lei. E in un certo senso è così.
Un po’ come Syd Barrett, anche Green ha trovato un po’ di pace invecchiando e tenendo il mondo a distanza. Non ha partecipato al tributo in suo onore organizzato in febbraio a Londra da Mick Fleetwood. «Ovviamente non è il Peter di un tempo», ha detto il batterista in gennaio. «Suona la chitarra acustica, dipinge, gli piace pescare. Da un certo punto in poi non è stato più bene, ma è ok. Non è per niente egocentrico. Tu gli chiedi se comprende quel che di grandioso ha fatto nella vita e lui ti risponde che “No, no. Ok, forse sì”. Non è uno che si vanta». Ma la musica che ha lasciato dietro di sé è ancora viva e arde d’amore.