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«Finalmente la verità su mio fratello Robert Johnson»

Dopo anni di miti sul patto col diavolo e sulla vita da sbandato, ecco chi era davvero il più grande bluesman di sempre. Lo racconta in un libro la "sorellina", che oggi ha 94 anni. «Non lo riconosco nelle storie degli altri»

La parola a chi c’era. Sembra un’ovvietà eppure ci sono voluti 82 anni per sentire la storia di Robert Johnson dalla bocca di chi lo conosceva. «Lo chiamavo fratello Robert. Lui mi chiamava sorellina. Non avevamo legami di sangue. Eravamo una famiglia». Già perché per comprendere il libro Brother Robert: Growing Up with Robert Johnson, scritto da Annye Anderson con il giornalista Preston Lauterbach (Hachette Books), bisogna innanzitutto dimenticare i nuclei familiari biologici, andare alla pagina “la gente di Robert” e raccapezzarsi fra le relazioni tentacolari lungo il Mississippi, dove era molto vicino chi era molto lontano, dove ogni famiglia con la schiena spezzata dalla raccolta del cotone tirava su i figli altrui lasciati allo sbando, prestava il patio ai vagabondi, e, quando si trasferiva in città, lasciava l’indirizzo nuovo in chiesa, tante volte servisse un posto sicuro a qualcuno della comunità. Anche perché, se ti affacciavi nel quartiere sbagliato, abitato da bianchi, ad aprirti era un revolver.

Annye visse nove anni con Robert Johnson. Se lo ritrovò in casa a Memphis all’età di 3 anni perché suo padre Charles Dodds Spencer, che era stato sposato con la madre di Robert, Julia, decise di ospitarlo. Lei non aveva i soldi per crescerlo e lo affidò all’ex patrigno. D’altronde era stato Charles ad iniziare il ragazzino alla musica, prima di doverlo abbandonare ad Hazlehurst per salvarsi la pelle, ed era un bene che ambisse a qualcosa che non fosse dire sissignore e nossignore ai padroni di turno. Robert chiamava Charles “papà” e Annye “sorellina”. Annye chiamava Julia “mama”. Chiaramente gli affetti non si rilevano con la genetica.

L’ultima volta che Annye vide Robert fu il 22 giugno 1938, quando seguirono alla radio l’incontro fra Max Schmeling “il nazista della Foresta Nera” e Joe Louis “il negro discendente dagli schiavi”. L’ulano del Reno contro il Black Bomber, il match del secolo. In ballo non c’era il pugilato, ma l’America contro la Germania alla vigilia di una guerra mondiale e la lotta alla segregazione razziale. La vittoria di Louis fu festeggiata da Robert tutta la notte, in completo bianco, impomatato di brillantina Dixie Peach, suonando Terraplane Blues, Sweet Home Chicago e Kind Hearted Woman. Due mesi dopo fu sepolto nella contea di Leflore.

Una delle tombe di Johnson, a Quito, Mississippi. Foto di Simona Orlando

Sono poche le date cui ci si aggrappa per ricostruire vicende e spostamenti del leggendario chitarrista: la nascita, 8 maggio 1911 ad Hazlehurst, e il decesso, 16 agosto 1938 a Greenwood. Un telegramma lo comunicò alla famiglia due settimane dopo che il corpo era finito sottoterra, non si sa bene dove: gli sono state dedicate tre tombe e nessuna probabilmente è la sua. Non si sa nemmeno come sia morto, ognuno sceglie la versione che preferisce: sifilide, stroncato da una vita randagia, avvelenato da un’amante abbandonata, accoltellato al locale Three Forks dal gestore che, dopo averlo ingaggiato per suonare, lo punì per aver flirtato con sua moglie. E poi ci sono ventisette anni di vita stretti in meno di due ore, 29 canzoni incise tra il 1936 e il 1937 e diventate il vocabolario del blues. Tutto il resto è un buco temporale riempito da fantasie che lo hanno reso creatura mitologica: «Non lo riconosco nelle storie che gli altri hanno montato, per questo dopo la sua morte non ho fatto interviste. Non volevo essere complice di bugie», scrive Annye, che oggi ha 94 anni. «Le speculazioni sui suoi affari con il diavolo sminuiscono il suo vero talento. Non l’aveva preso né da Dio, né da Satana, ma da sé stesso. Non posso dire cosa ha fatto e cosa non ha fatto. Non ce lo avevo sempre in tasca. Però non l’ho mai visto bere né sentito parlare di diavolo. Veniva da una famiglia religiosa, che lo aveva battezzato. Fanno sembrare che fosse solo al mondo, invece, anche se è stato a tratti un hobo, aveva chi lo aspettava e amava».

Il libro ha valore per questo: non ritrae l’analfabeta, donnaiolo, attaccabrighe, solitario, bevitore accanito, il senza arte né parte che imparò a suonare divinamente dopo aver venduto l’anima al crocicchio di Clarksdale e dal quale il diavolo riscosse in anticipo, all’intersezione di Greenwood. C’è il blues, certo. Non quello che tutti possono suonare, ma il sentimento che solo alcuni possono provare, nato come esorcismo della miseria, il “mastino dell’inferno alle calcagna”, “una vecchia malattia di cuore che come la tisi ti uccide lentamente”. Però c’è soprattutto un musicista dotato sin dall’inizio, senza intercessioni soprannaturali e patti faustiani. Un ragazzo con mani piccole, dita lunghe e ossessione per la chitarra, pazzo per la zucca fritta e per la musica country. Leggeva i giornali e non parlava come uno zotico di campagna. Per niente timido, aveva il sorriso facile, cantava volentieri per i bambini e la prima cosa che chiedeva a a chiunque lo ascoltasse era: «Cosa ti piacerebbe sentire?». Non c’è il fantasma che frequentava cimiteri e dormiva nei depositi: «Ogni tanto spariva e non sapevo dove andasse. Saltava su un treno e poi tornava», scrive Annye. «Di sicuro spesso Robert si esibiva a Beale Street, all’Handy Park. Riconoscevo i suoi riff da lontano. Nessuno suonava come lui. C’era chi adorava e chi detestava il suo stile perché non era classico, ma contemporaneo, diverso da tutto».

Usava le forme tradizionali per comporre in modo moderno, prendeva il blues del Delta, il rantolo del profondo Sud, un misto di emarginazione e superstizione, schiavitù ed esilio, ci aggiungeva il dramma personale, il ritmo urbano e pizzicava tutto ciò che il suo orecchio raccattava, portandolo oltre il periodo a cui apparteneva. Beale Street, in quegli anni, era il posto in cui stare. Diceva Rufus Thomas: «Se foste stati un nero di sabato sera a Beale Street, non avreste voluto tornare ad essere un bianco». Forse anche per questo la signora Annye ha scelto di far mettere i suoi pensieri in ordine al giornalista Preston Lauterbach, che ha scritto vari libri sulla strada suonante di Memphis, con approfondimenti sugli italiani, spesso loschi e intrallazzini gestori di locali che, insospettabilmente, ebbero il merito di accettare sul palco hobo e musicisti afroamericani, trasformando una striscia d’asfalto nel ventre interculturale d’America.

Annye Anderson davanti alla casa di Memphis dove è cresciuta con Robert Johnson. Foto: Preston Lauterbach

Solo a fine anni ’60 Annye e la sorellastra Carrie (che comprò la prima chitarra a Robert e fu per lui una seconda madre) scoprirono quanto il loro ragazzo fosse diventato popolare. Sui giornali leggevano che Rolling Stones, Bob Dylan, Eric Clapton, Led Zeppelin si erano tutti ispirati a un tale Robert Johnson. Era la stessa persona? Quello fu anche il momento in cui si palesarono approfittatori vari, per lo più bianchi, ai quali è dedicata la seconda parte del libro. Una sequela di raggiri, appropriazioni indebite e battaglie legali che prosciugarono le già esigue finanze dei parenti di Johnson: «La gente non capisce che noi abbiamo perso Robert due volte: quando fu ucciso e quando gli arraffasoldi ci hanno rubato immagini e ricordi… Ci sono stati e ci saranno sempre uomini bianchi che non ci conoscono ma pensano che siamo di loro proprietà».

Dopo trent’anni di tribunali, fu finalmente dichiarata legittima erede. Ma il peggio, si sa, ha una rigorosa puntualità: nell’agosto del 1990 venne pubblicato il disco The Complete Recordings of Robert Johnson, vendette un milione di copie e vinse un Grammy. A quel punto comparve il figlio illegittimo di Robert Johnson a reclamare i suoi diritti. Nessuno sapeva di lui e lui non aveva mai cercato contatti o notizie del padre biologico. «Claud Johnson ha aspettato fino a 61 anni per dichiararsi figlio di Robert e ha rifiutato il test del dna», si amareggia ancora la signora Annye. Nonostante testimonianze deboli, contraddittorie e mancanza di evidenze scientifiche, è stato lui l’assopigliatutto della partita. A lei né royalties, né gestione del Robert Johnson Estate. Ci tiene a specificare Lauterbach, nella nostra intervista via Skype: «Non è un problema giuridico, ma morale. Non so quale sia la verità, ma so per certo so che il sistema legale ha scelto di consegnare Robert Johnson alla famiglia con la quale non ha mai avuto rapporti. Quella di Annye è la famiglia che lui ha frequentato, che lo ha protetto e che ce lo ha fatto conoscere. Senza, non avremmo racconti e documenti e questo libro ne è l’ennesima la prova. In copertina c’è una foto inedita di Robert Johnson, scattata in una cabina di Beale Street. Quel giorno lo avevano accompagnato Carrie e Annye. All’interno del libro, ci sono cartoline e lettere scritte a mano alle sue sorelline da Dallas nel 1937, mentre registrava le sue canzoni».

Peraltro sulla sua immagine si incassa parecchio, ma si investe poco. Tranne un paio di targhe blu sul Blues Trail statunitense, nessuno dei suoi luoghi è tutelato. La casa a Memphis cade a pezzi, quella in cui nacque ad Hazlehurst non è segnalata. Non ha neppure il museo che merita. Il torto risalta, considerando che non lontano ci sono la smisurata Graceland e la stravisitata baracca di Tupelo, i due pellegrinaggi per Elvis Presley, anche lui nato nel Mississippi, morto di 16 agosto e influenzato dal blues di Robert Johnson.

Il libro è in inglese, le frasi semplici, la voce di Annye chiara e le scoperte, per gli appassionati, non sono di poco conto. «Si delinea un Robert Johnson che era grandissimo fan di Jimmie Rodgers e che sapeva cantare lo yodel», prosegue Lauterbach «Il tema dell’incrocio si fa risalire alle radici bibliche, ai sermoni che ascoltava dal Reverendo Cross in chiesa. L’incrocio, il cuore della mitologia johnsoniana, era una metafora spirituale, la scelta fra una vita cristiana o non cristiana. Inoltre veniamo a sapere che Robert suonava spesso il pianoforte insieme al fratellastro Son. Faceva la parte di accompagnamento ed è probabile che il suo famoso walking bass sia la trasposizione su chitarra di ciò che aveva imparato nel duo al piano». Robert suonava che sembravano due. Sullo strumento sapeva fare contemporaneamente melodia e accompagnamento. Quando Brian Jones fece ascoltare la prima lacca di Johnson a Keith Richards, la reazione fu: «Sì ma chi è l’altro che suona con lui?».

Tutti i diritti riservati. Copertina per gentile concessione di Hachette Books

Gli aneddoti biografici in Brother Robert danno uno spaccato di vita quotidiana delle famiglie afroamericane dell’epoca e, grazie alle nuove informazioni, pare ci sia qualcuno interessato alla sceneggiatura per un film o documentario basato più sui fatti ad ampia scala e meno sulle invenzioni. Nel 1934, ad esempio, apprendiamo che Johnson era soprannominato “The Backdoor Man” perché grazie a Sister Carrie, che cuciva per hotel di livello come il Peabody o il Claridge, al fratellastro Son, che consegnava la merce alla reception, e con l’aiuto di un amico usciere che lo faceva passare dal retro, Robert si intrufolava nelle sale d’albergo vietate ai neri. Aveva molti estimatori bianchi e li intratteneva in clandestinità. L’altra storia che colpisce riguarda Charles, il suo patrigno, il padre di Annye: «Mi sono saliti i brividi mentre la ascoltavo», ricorda Lauterbach. «Charles era un brav’uomo, fu costretto a scappare da Hazlehurst perché osò difendersi dall’attacco di un bianco. Se eri nero, nessuno ti dava ragione. Si nascose fra i rovi, sentiva il terreno tremare mentre la folla lo cercava per linciarlo. Non abbandonò sua moglie Julia e Robert come tutti insinuano. Fu costretto a scappare a Memphis, travestito da donna. Dopo tutti questi soprusi razziali, è quasi sorprendente che Annye abbia affidato il libro a me, un giornalista bianco. Per fortuna, è una persona migliore di quelle che ha incontrato. Non chiede vendetta, vuole solo rendere giustizia a suo fratello. Per anni ha rifiutato di parlare con persone troppo interessate a sessualizzarlo o a lucidarne il mito. Ora ha capito di essere l’ultima in vita ad averlo conosciuto davvero».

La sua verità rischia di indebolire il fascino sulfureo di Robert Johnson? «Non credo proprio. Nessuno dei musicisti di strada che ho intervistato conosceva la vita familiare di Robert e nessuno della sua famiglia aveva dettagli sulla sua vita di strada. È stato bravo a tenere separate le due cose. Le due visioni non si escludono, si completano. Possiamo accettare entrambe. È solo arrivato il momento di raccontare la storia anche dalla prospettiva afroamericana. Senza poterlo immaginare, il libro è uscito nei giorni in cui il mondo si è risvegliato per chiedere giustizia per George Floyd. La missione forse non è più impossibile».

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