Rolling Stone Italia

‘Fleurs’, il viaggio sentimentale di Franco Battiato

Abbiamo riascoltato la trilogia di album di cover pubblicata a partire dal 1999, quando il cantante rivelò di amare non solo Stockhausen, ma anche Sergio Endrigo

Vent’anni fa, quando Franco Battiato avviò la sua attività di floricultore, non eravamo del tutto privi di elementi per tentare di Capire Battiato (cit.). E tuttavia, ne ricevemmo molti altri con l’inizio di questa trilogia di cover dalla numerazione cronologicamente scombinata (vol. 1, vol. 3, vol. 2). A partire dal 1999, infatti, Battiato ci mise di fronte al suo ‘giardino’ di canzoni sentimentali rigorosamente d’autore, nostalgiche e malinconiche, di scuola europea, facendoci capire cosa gli piaceva cantare e ancora di più, cosa gli piaceva in una canzone: meno Stockhausen e Medio Oriente, e più Sergio Endrigo e Bruno Lauzi di quanto credevamo.

Ora che i tre Fleurs in vinili colorati, in edizione limitata, escono in un voluttuoso box, cogliamo l’opportunità per valutare in prospettiva questo progetto di riletture che non ha eguali tra cantautori del livello di Battiato: non uno, ma tre album di canzoni (quasi tutte) altrui, usciti rispettivamente nel 1999, 2002 e 2008.

Flowers, pochi hanno notato la coincidenza sospetta, era il titolo di una raccolta dei Rolling Stones stampata negli Stati Uniti nel 1967: si apriva con Ruby Tuesday. Ovvero, la canzone relativamente estranea – per il curriculum rock della band – all’interno del disco inaugurale, che per il resto includeva “esempi affini di scritture e simili” scelti tra autori quasi proverbiali: Sergio Endrigo, Jacques Brel, Salvatore Di Giacomo, Charles Aznavour, Fabrizio De André, Charles Trenet, Richard Anthony e lo stesso Battiato con gli inediti Invito al viaggio e Medievale.

Ruby Tuesday però aveva già recitato una piccola parte, un cameo in Cuccurucucu all’interno de La voce del padrone. Ovvero l’album del grande successo, nel quale Battiato aveva perseguito, in modo inedito per l’epoca, quello che poi abbiamo imparato a chiamare “l’incontro di alto e basso”. In quel disco si sovrapponevano l’ira funesta dei profughi afghani e le Mille bolle blu, il senso del possesso che fu prealessandrino e i Figli delle stelle. Sembravano solo citazioni, o dei virgolettati messi a enfatizzare un cambiamento in atto (come l’invito tutto dylaniano a Mr. Tamburino: “Rimettiamoci la maglia, i tempi stanno per cambiare”). Invece con Fleurs Battiato decise di darci non più i frammenti della mappa, ma di portarci con lui in un viaggio sentimentale. Dalle sue interpretazioni capivamo ora la predilezione per un delicato struggimento, per la finezza nella tristezza. L’esempio più facile è forse il passaggio de La canzone dei vecchi amanti di Brel, in cui quasi tutti gli interpreti fanno tremare la terra con le parole “So che hai avuto degli amanti, bisogna pur passare il tempo, bisogna pur che il corpo esulti”, mentre Battiato lascia sottintendere una nobile dignità e, in fin dei conti, la vera comprensione e attitudine al perdono che il testo concede.

Nel primo Fleurs, tutti i brani erano stati adagiati nelle sonorità elaborate con Michele Fedrigotti (pianoforte e co-arrangiamenti) e il Nuovo Quartetto Italiano, come a ricondurre tutti i pezzi nella tradizione classica dei lieder. Con il secondo volume (cioè Fleurs 3), qualcosa iniziò a cambiare. La scelta degli autori fu più eclettica: Bruno Lauzi, la PFM, Paolo Conte, Alan Sorrenti, Charlie Chaplin, Gino Paoli, Leo Ferré, Adamo, Richard Strauss, Luigi Fiumicelli e Salvatore Vinciguerra (più l’inedita Come un sigillo, con Alice). Minore coerenza interna nelle scelte, nei periodi storici e negli arrangiamenti (ben evidenziata dall’alternanza tra la batteria elettronica e quella ortodossa – nella parte più “prog” – all’interno di Impressioni di settembre). In questo caso siamo davvero di fronte a un disco di cover, legittimato dalla spiegazione: “Io canto una canzone perché quella canzone mi affascina”. Anche a costo di rinunciare, in qualche caso, a far scoprire qualcosa di nuovo ai suoi ascoltatori – perché il classico della PFM o Il cielo in una stanza sono brani stranoti ai suoi fan, e Battiato non li arrangia in modo particolarmente originale.

Il conclusivo Fleurs 2, del 2008, è un’altra cosa ancora. Un album di cover trattato come un disco sperimentale, passando per selezioni inaspettate e un po’ di contemporaneità (un brano di Antony & the Johnsons). Ancora Sergio Endrigo, Otis Redding, Juri Camisasca, gli Aphrodite’s Child, Gilbert Bécaud, Simon & Garfunkel, Dalida, Alain Barrière la cui E più ti amo aveva già pubblicato come singolo nel 1965 con gli Enigmisti, nell’epoca pre-sperimentale in cui cercava di fare quella musica leggera che riusciva meglio agli altri. E rivisitazioni di due pezzi di Giuni Russo: L’addio (di Battiato) e Il Carmelo di Echt, firmata da Juri Camisasca, del quale compare anche la sorprendente La musica muore, il cui testo (del 1975) suona molto suggestivo nel 2019: “Degli Stones amavo Satisfaction e dei Doors ‘come on baby light my fire’, ascoltavo Penny Lane per ore ed ore; mi ritorna l’eco dei concerti, mi ritorna l’acqua dentro il sacco a pelo. Tutt’intorno i fuochi ormai si sono spenti, non resta che un pallido colore: la musica muore”.

Ma queste sono parole del fido Camisasca – e con tutto il rispetto, nulla è più suggestivo di una spiegazione del Maestro stesso. Che per avvicinarsi a questi fiori del suo giardino, nel 2008 – a trilogia conclusa – scrisse:

“In un decalogo che ho stilato entrando ‘in medias res’, devo dichiarare quanto segue:
1) Ascolto solo musica classica
2) L’eccellenza annulla lo spazio temporale
3) La Tradizione musicale può arricchire il nostro presente
4) Sono un fanatico di “tecnologie”
5) Non soffro di nostalgia
6) Dietro alla scelta dei brani, ci sta un principio soggettivamente indiscutibile
7) Mi considero, in questo genere di operazioni, un interprete orchestratore
8) Resto, più che posso, fedele alla melodia e all’armonia originali, cercando di abbellirne la strumentazione
9) Credo fermamente nella qualità dei modelli musicali
10) …e nella loro varietà”

Ipse dixit. E noi ci atteniamo.

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