Nel settembre 2018, usciva su tutti i giornali la notizia che alla scuola elementare di via Paravia, nel quartiere di edilizia popolare di San Siro, su 131 alunni iscritti ben 125 erano di origine straniera, e spesso non parlavano ancora bene la nostra lingua. Il paradosso si fa ancora più assurdo se si pensa che a pochi metri di distanza dalle case popolari ci sono le residenze extralusso che fiancheggiano l’Ippodromo, di proprietà di calciatori, imprenditori, celebrità, i cui figli ovviamente frequentano le scuole private del centro. Si parlò di ghetto, di fuga degli italiani, di situazione di degrado impossibile da tollerare oltre e, come spesso capita in questi casi, non si trattava di riscontri provenienti da chi ci abitava davvero, ma da chi osservava dall’esterno, spesso con un misto di sdegno e pietà. Ma c’è anche chi la vita all’interno delle case popolari di San Siro è riuscita a raccontarla molto bene: è Amine, in arte Neima Ezza, diciotto anni appena compiuti, fuori da qualche giorno con il nuovo singolo Notre Dame. È uno dei rapper più popolari della zona, e fa parte di una nuova ondata che sta prendendo sempre più piede, intaccando la supremazia della trap. Ovvero quella del rap nato e cresciuto non su Internet, ma nei quartieri, che torna a fare quello per cui è nato: denunciare il gap sociale tra chi ha tutto e chi non ha niente.
«Sono nato in Marocco, e all’epoca mio padre, che vendeva sigarette al mercato, viveva già in Italia da solo» racconta Neima mentre ci incamminiamo lungo via Mar Jonio, la porta d’accesso della zona. «Quando siamo arrivati a Milano avevo quattro anni, e mi sono trasferito subito a San Siro, nelle case popolari di via Zamaglia». Il nucleo familiare è composto da lui, dai genitori e da due sorelle, di cui una disabile, e l’appartamento che viene loro assegnato è un bilocale di 40 metri quadri al quinto piano senza ascensore. «C’era un salotto con un materasso per terra, dove dormiva mio padre, e una camera da letto che avevamo attrezzato con i classici divani arabi, quelli bassi e lunghi, dove dormivamo io, mia sorella e mia madre». Oggi abita a Baggio, non lontano da qui, proprio perché finalmente hanno ricollocato la famiglia in una casa più adatta alle loro esigenze, ma il suo cuore è rimasto nel quartiere dove è cresciuto.
Il cuore della zona, soprattutto per i più giovani, è piazza Selinunte, che si trova proprio al centro di una sorta di quadrilatero formato dai blocchi di case popolari. Al centro, oltre a un campetto di basket e dei giardinetti con alcuni giochi un po’ scassati, troneggia una altissima torre in mattoni oggi decorata con varie opere di street art, retaggio della ex centrale termica. Quasi tutti i bambini e i ragazzini arrivano in piazza da soli, senza adulti ad accompagnarli, e ci restano ore a giocare, anche di sera, perché tanto sono visibili da qualunque angolo dei palazzoni: ai genitori basta affacciarsi alla finestra per controllarli o richiamarli per cena. Mentre camminiamo, capita spesso che alcuni di loro ci raggiungano per salutare Neima o fargli i complimenti: nonostante non viva più qui da qualche anno, è ancora uno degli eroi del quartiere, un po’ perché è l’ambientazione di tutti i suoi video, un po’ perché nel suo piccolo è riuscito a svoltare con la musica. Qua e là spuntano amici e conoscenti di vecchia data – nonostante da queste parti sia un dedalo di viuzze, tutte le strade portano a Selinunte e quindi è facile incontrarsi – e ciascuno di loro porta notizie fresche, da diffondere nel classico telefono senza fili del vicinato: Tizio oggi esce di galera, Caio ha perso o ha trovato lavoro, Sempronio si è fidanzato…
Uno dei primi video che ha sancito il suo status di idolo del quartiere è stato Mio fratello, girato quando Neima Ezza era ancora un emergente: «Volevamo radunare un bel gruppo, per dare un’idea di comunità, così abbiamo chiamato a raccolta la gente tramite le mie storie di Instagram», racconta. Si sono presentate all’appello più di quattrocento persone, come dimostrano le immagini. Ha iniziato a fare freestyle nei cypher di piazza Esquilino e al Cantiere di piazzale Lotto, uno dei centri sociali più attivi sul territorio, a due passi da qui. «A un certo punto, però, ho mollato» confessa. «Passare al livello successivo era difficile: non avevo idea di come fare per registrare le mie strofe o dove trovare i soldi per girare i video». Nella primavera 2018, però, torna più motivato che mai con la trilogia Essere Ricchi, che diventa una specie di hit locale. «Tutto merito della gente che vive qui, che si è riconosciuta in quello che raccontavo e mi ha supportato parecchio», dice orgoglioso. «Perfino le mamme e le nonne dei miei amici spingevano la mia musica: c’è chi la strada l’ha vista e chi l’ha vissuta, e noi l’abbiamo vissuta. San Siro è un quartiere che ti dà tantissimo, ma ti toglie altrettanto. Ci sono periodi in cui ogni giorno senti di un altro ragazzino che per sopravvivere è stato beccato a fare cose che non avrebbe dovuto, ed è finito dentro». Quando tre dei loro amici, tutti minorenni, vengono arrestati nel giro di poche ore per reati minori, scatta quasi il panico: «Avevamo paura a uscire e farci vedere in giro, temevamo che per qualsiasi pretesto potessero beccare anche noi». Il problema, secondo lui, è che non esistono alternative alla delinquenza, per chi vuole fare una vita simile a quella dei coetanei dei quartieri borghesi: «Se ci aiutassero a trovare un lavoro con cui tirare su cinquecento euro al mese per aiutare i genitori, togliersi uno sfizio, andare a tagliarsi i capelli o in discoteca, a nessuno verrebbe in mente di mettersi nei casini», afferma.
Nonostante tutto, però, Neima non ha mai avuto la sensazione di vivere davvero in un “brutto quartiere”, e anche a noi l’atmosfera sembra tutto sommato tranquilla, nonostante alcuni episodi abbastanza folkloristici (come tre ragazzini sui dodici anni che arrivano da noi tutti eccitati annunciando di avere appena rubato un motorino, ad esempio). «Ovviamente devi sapere come comportarti, ma se passi di qui senza dare fastidio a nessuno, non ti succede niente. Anche se la percezione di vivere in un ghetto un po’ c’è, quando vedi l’immondizia che marcisce per strada». A sentire lui e i suoi amici, in effetti, la nettezza urbana passa quando ne ha voglia, e lavora quando ne ha voglia; a parziale testimonianza di ciò, a pochi passi da noi arriva un camioncino addetto alla raccolta, dà un’occhiata distratta al cumulo di sacchi della spazzatura che ingombra buona parte del marciapiede e se ne va senza raccogliere nulla, perché il cassone è già pieno. Nessuno degli abitanti protesta, forse per rassegnazione.
I genitori di Neima Ezza hanno scoperto per caso che rappava, vedendo un suo video su YouTube, dice: «Da allora mi sostengono molto, sono orgogliosi di me». Soprattutto ora che ha un contratto discografico con Yalla Movement, l’etichetta incubatrice di nuovi talenti fondata da Jake La Furia e Big Fish. «Mi hanno contattato perché il figlio di Fish ha visto un mio video e glielo ha segnalato. Ovviamente, quando ho letto il messaggio, credevo che fosse uno scherzo!», dice ridendo. Entrare in un vero studio di registrazione e conoscere Jake per lui è stato un traguardo incredibile, perché è cresciuto con la musica dei Club Dogo, anche se non aveva mai potuto permettersi di comprare il biglietto di un loro concerto. «Da queste parti la trap italiana non va granché» afferma. «Preferiamo il rap francese, roba come Lacrim, Kalash Criminel o PNL, perché è molto più crudo, diretto. Parla di quello che viviamo noi in strada e non di quei lussi che non potremo mai permetterci. Anche i video sono diversi: i protagonisti sono vestiti con le tute e i borselli, non con la t-shirt di Gucci e i Rolex. In Italia i pochi in cui ci riconosciamo sono i Dogo, Marracash, Emis Killa, Tedua o Massimo Pericolo». Il vero paradosso è che i ragazzini ricchi dell’Ippodromo, quelli che stanno a pochi metri dalle popolari di San Siro, ora che il rap va di moda guardano con una surreale invidia la vita che fanno i loro dirimpettai. «A volte, dai discorsi che fanno, sembra quasi che anche a loro piacerebbe poter provare l’esperienza di vivere in quaranta metri quadri», scuote la testa Neima. «Onestamente non gliela consiglierei».