La prima volta che Bon vide gli AC/DC fu nell’agosto del 1974. Passarono per Adelaide con il tour di Lou Reed e Stevie Wright e si esibirono per conto proprio al Pooraka Hotel. Bon si stava scompisciando dal ridere: adorava il chitarrista bassino con la sua divisa scolastica e lo zainetto, ma pensava che fossero dei bambocci, un gruppo parodia. Lo pensava un sacco di gente.
Gli AC/DC suonavano delle canzoni rhythm and blues orecchiabili, ma non erano dei bambocci. Erano un gruppo emergente di Sydney con un pedigree di un certo spessore. La colonna portante della band era una coppia di chitarristi formidabili, Malcolm e Angus Young – i fratelli minori di George Young degli Easybeats, che a un certo punto era stato una delle più grandi pop star australiane. Nel 1966 gli Easybeats avevano avuto una hit internazionale pazzesca, Friday on My Mind, e da lì George sarebbe diventato uno dei parolieri più prolifici e di successo del Paese. Scrisse canzoni per metà dei gruppi musicali degli anni Sessanta e Settanta, compresi i Valentines. Nel 1974 scrisse un’altra hit fenomenale, Evie, cantata dall’ex frontman degli Easybeats, Stevie Wright. George Young era uno dei più grandi talenti musicali del Paese.
Malcolm e Angus Young avevano probabilmente tanto talento quanto ne aveva il loro fratello maggiore, ma al confronto erano acerbi. Suonavano la chitarra da quando erano bambini, ma quando Bon li vide la prima volta, la loro band era insieme da meno di un anno – anche se in quel periodo erano stati in grado di uscire con un singolo niente male: Can I Sit Next to You Girl era un pezzo glam rock con un robusto giro di chitarra. A Bon non dispiaceva, ma odiava il cantante. Sfortunatamente per quest’ultimo, anche i fratelli Young la pensavano allo stesso modo. Già prima che gli AC/DC arrivassero ad Adelaide in agosto, George Young aveva sparso la voce che il gruppo volesse rimpiazzare il proprio cantante, un tizio di nome Dave Evans. George e Vince si conoscevano bene, e Vince suggerì Bon. George si ricordava di Bon dal periodo dei Valentines e per i Fraternity. E riusciva a vederci del potenziale.
La prima volta che vidi gli AC/DC fu al Pooraka Hotel a settembre. Erano straordinari, anche all’epoca. Erano qualcosa che non avevo mai sentito, e Angus e Malcolm erano incredibili da guardare. Era come se fossero in connessione costante. Si stavano esibendo per il classico pubblico ubriaco del Pooraka, ma la folla andò in delirio perché l’energia sul palco era pura elettricità. Angus si dimenava come un piccolo pazzo, vestito con la sua vecchia divisa scolastica. Io stavo in disparte, da un lato del palco, ma la stanza era così piena che venivo spintonata dappertutto.
«Sali su, Bon», continuava a dirgli Vince. Quella sera la band non aveva il cantante, per cui avevano deciso di proporre versioni strumentali di vecchi classici rock‘n’roll. I ragazzi suonarono tutti questi classici e poi, dopo una certa insistenza da parte di Vince, Bon salì finalmente sul palco. Non ci feci molto caso – non succedeva da un po’, ma salire su e cantare un paio di canzoni con le band era una cosa che faceva sempre. Non avevo capito che gli AC/DC avevano appena sfanculato Dave Evans e volevano che Bon ne prendesse il posto.
Non ricordo cosa cantò, ma non c’entrava nulla con i Fraternity. Paragonati agli AC/DC, i Fraternity sembravano molto datati. Si prendevano parecchio sul serio e scrivevano musica seria. Erano fantastici, ma a volte potevano annoiare. Gli AC/DC suonavano questo tipo di rock forte e deciso che quasi ti faceva esplodere la testa, e la voce di Bon ci stava a pennello. Mentre urlava a squarciagola un vecchio classico blues rock – forse Johnny B. Goode? – si sentiva ed era d’impatto quasi quanto la band. Cantava con foga, con tutto se stesso.
Alla fine del concerto, Bon mi presentò ai fratelli Young. C’era tutta la band in piedi a un lato del palco, a ridere e a darsi pacche sulle spalle: erano ovviamente molto contenti di quello che avevano fatto. Erano tutti su di giri, incluso Bon. Malcolm e Angus erano giovani e bassi, ma erano carini; furono molto amichevoli nei miei confronti, e Bon si era ovviamente preso bene per loro due. Come Bon, gli Young erano scozzesi, per cui ci fu un legame immediato. E c’era una sorta di connessione magica con il gruppo. Penso che Bon sapesse di aver fatto centro.
Io invece non avevo la minima idea di cosa stesse succedendo. Non sapevo che un mese prima Bon aveva assistito a un’esibizione degli AC/DC al Pooraka. Non sapevo che era andato dietro le quinte a conoscere la band. Non sapevo che Angus e Malcolm gli avessero dato del vecchio e lo avessero sfidato a farli andare giù di testa (o qualsiasi cosa si dicesse all’epoca); non sapevo che Bon aveva fatto un’audizione per loro a casa di Bruce Howe; non sapevo che gli AC/DC avrebbero sfanculato Dave Evans un paio di settimane più tardi. Non ero a conoscenza del fatto che si stessero mettendo in moto tutti questi meccanismi che avrebbero portato via Bon dalla mia vita. E di certo non avevo la più pallida idea che si stesse scrivendo la storia del rock. Per la prima volta dopo tanto tempo, Bon sembrava profondamente e veramente felice. E io lo ero per lui.
Qualche giorno più tardi, mi chiamò al lavoro per dirmi che stava per unirsi al gruppo. «Che ne pensi di trasferirti a Sydney?», mi chiese. Io mi sentii sprofondare. Non mi fermai a pensarci, dissi soltanto a Bon che ci sarei andata, che potevo chiedere un trasferimento. Ma il mio cuore non era dell’idea. Il pensiero di seguire Bon in un’altra avventura rock‘n’roll mi fece sentire stanca. Non so perché dissi di sì. A dire la verità, non so nemmeno perché me lo chiese – ci eravamo appena abituati a essere di nuovo insieme. Bon diede per scontato che l’avrei seguito perché ero sua moglie, e io fui d’accordo perché pensai che avrei dovuto esserlo. Però ero intorpidita. Ma del resto lui non era così elettrizzato da tempo, e io non volevo buttarlo giù.
Alla fine di settembre, Bon lasciò Adelaide per unirsi agli AC/DC a Sydney. Io lo avrei seguito non appena avesse trovato un posto dove stare e non appena avessero accettato il mio trasferimento, ma nel frattempo gli AC/DC sarebbero tornati ad Adelaide a ottobre. Lui avrebbe soltanto capito meglio la situazione, e poi sarebbe tornato a casa nel giro di qualche settimana.
Bon fece una borsa, mi diede un bacio di arrivederci e disse: «Ci vediamo presto, Irene».
Tutto qui. Non ci fu nessun saluto sulla banchina e nessuno sguardo pensieroso perso nel vuoto mentre soppesava il da farsi, nessun ponte tagliato con tutto ciò che era la sua vita precedente, né un tramonto nel quale scomparire in sella alla sua moto. Niente di così drammatico. Non c’era nulla che suggerisse che io e Bon stessimo per lasciarci, se non il fatto che era già successo.
Quando Bon arrivò a Sydney, andò a stare con il manager degli AC/DC, un tizio di nome Dennis Laughlin. Si incontrò con il clan degli Young e cominciò a improvvisare con i ragazzi, iniziando a buttar giù i primi veri pezzi degli AC/DC. All’inizio di ottobre ci fu il suo debutto ufficiale. Il suo primo vero concerto con il gruppo fu al Rockdale Masonic Hall, nella parte sud di Sydney, e fece impazzire tutti – perlomeno stando a quello che mi disse Bon. Mi chiamò il giorno dopo, elettrizzato dalla sua stessa performance. «Cazzo se mi adorano!», disse, tirandosela. Angus disse che quella notte la voce di Bon fu come un uragano, come se il vecchio avesse qualcosa da dimostrare.
Dopo i concerti di Sydney, la band tornò in tournée. La prima tappa era Melbourne, dove il sedici ottobre gli AC/DC avrebbero suonato alla serata gay dell’Hard Rock Café. Michael Browning faceva il promoter lì, e un paio di settimane più tardi avrebbe preso il posto di Dennis Laughlin come manager della band. Nel frattempo, i ragazzi sarebbero ritornati ad Adelaide per suonare per tre sere al Largs Pier Hotel.
Quando Bon arrivò in città, io ero al lavoro. Si sarebbe fermato a casa, avrebbe lasciato le sue cose, poi il pomeriggio sarebbe andato al Largs Pier e io avrei dovuto incontrarlo lì dopo l’ufficio. Quando tornai a casa quella sera, la borsa di Bon era in sala e i soldi per l’affitto, che stavano nel cassetto della cucina, erano scomparsi. Io diedi completamente di matto.
Intendiamoci, non è che Bon vivesse dei miei guadagni, e non era neanche il tipo che rubava un pacco di soldi in quel modo. Ma il punto è che non erano soldi suoi. Il fatto che fossero quelli per l’affitto era una cosa molto importante per me. Io e Fay eravamo molto responsabili sui pagamenti, eravamo sempre puntuali. Era una cosa che prendevamo sul serio. Ma Bon non poteva capire una cosa simile, perché non pagava un affitto da anni. Lui viveva semplicemente a scrocco, che fosse da me o da qualcun altro che gli stava vicino.
Non so se fu un comportamento giusto o ragionevole, ma qualcosa dentro di me si era spezzato. All’improvviso mi sentii di nuovo a Londra, a lesinare su tutto e a mettere i soldi da parte per sbarcare il lunario, mentre Bon era in giro a fare il cazzone con una band. E la prima cosa che fa quando torna a casa è prendere i nostri soldi dell’affitto? “Ma non penso proprio, cazzo!”. Tutta quella vecchia rabbia rancida tornò di nuovo a sommergermi, così come tutte le questioni vissute a Londra, con cui non avevo mai fatto i conti perché Bon non mi aveva mai davvero chiesto scusa. Ero furibonda. A essere sinceri, forse ebbi una reazione esagerata. Bon era mio marito, e con tutta probabilità aveva preso i soldi di fretta mentre correva fuori di casa. Ma in ogni caso, gliene avrei dette quattro.
Saltai in un taxi e mi allontanai di fretta verso il Pier e arrivai come una furia fin sotto al palco. Gli AC/DC erano nel bel mezzo del loro primo set. Era la prima volta che li vedevo suonare dei pezzi originali, ma non chiedetemi com’erano. Non stavo lì con le braccia conserte, a tenere il tempo con il piede e ad ammirare le mosse di Bon. Fumavo dalla rabbia. Il mio caro marito stava davanti a una stanza piena di ammiratori ubriachi e una donna dall’aspetto folle, con lo sguardo infuriato e il fumo che le usciva dalle orecchie.
Durante la pausa, puntai dritto verso Bon e per un attimo il povero stronzo fu davvero felice di vedermi. Il sorriso gli si spense in faccia il secondo in cui iniziai a urlare.
«Come cazzo ti è venuto in mente di prendere i soldi dell’affitto? Che cazzo di problemi hai?».
Per un istante Bon sembrò confuso e poi divenne aggressivo. Non era il tipo da tirarsi indietro.
«Non avevo soldi», mi rispose.
Non mi chiese scusa né cercò di darmi una spiegazione ragionevole, il che mi fece impazzire. Io iniziai a gridare ancora più forte e lui cominciò a urlarmi contro di rimando, e insieme demmo spettacolo, sebbene molto squallido, giusto fuori dalla porta che dava sul palco. Dubito che qualcuno riuscì a sentirci sopra il chiasso del pub, ma fu davvero spettacolare, anche se non durò a lungo. Dissi ciò che avevo da dire e me ne andai, la storia era finita lì. Ne avevo fin sopra i capelli di litigare con lui.
Quella notte Bon non tornò a casa e a me non importava – prima se ne fosse andato dalla mia vita e meglio sarebbe stato. Quando tornai dal Largs, chiesi a Fay di aiutarmi a raccogliere la sua roba.
«Non dargli la valigia buona!», mi disse. «Dagli quella di merda!».
Quando si presentò il giorno successivo, mi trovò nel giardino sul retro a prendere il sole. Bon tirò un mucchio di banconote verso di me. “Ho sempre avuto intenzione di ridarteli”.
«Basta così», disse. «È finita».
Io feci spallucce e dissi: «Ti ho già fatto la valigia».
So che è meschino da dire, ma sono sempre stata felice di aver avuto l’ultima parola.
Tratto dal libro di Irene Thornton ‘Bon Scott. La mia vita con il cantante degli AC/DC’, Tsunami Edizioni