Dove sarebbe Björk? E Tori Amos? E FKA twigs, Elizabeth Fraser, Florence + The Machine, Lady Gaga, St. Vincent, Grimes e mille altre come loro? Dove sarebbero tutte queste artiste? Che musica farebbero? Che costumi indosserebbero? O più precisamente, sarebbero diventate ciò che sono se a ispirarle non ci fosse stata la figura di Kate Bush?
A qualcuno potrebbe sembrare una cantante come tante degli anni ’70/80. «Kate Bush? Ah, quella di Cime tempestose… ma è ancora viva?». Non solo è viva e vegeta ma, anche se l’attività discografica non è una delle sue priorità da quasi trent’anni, il suo contributo alla musica moderna è stato enorme. E poi no, Kate Bush non è solo quella di Wuthering Heights, ma quella di una serie di album che hanno contribuito a definirla come una super artista, una che canta e suona divinamente, una compositrice notevole, nonché una sperimentatrice senza confini. E un’ottima ballerina che nei rari spettacoli dal vivo ha sfoggiato costumi e coreografie di un’originalità fantascientifica, in anticipo su tutti.
Ed è anche coraggiosa. Dopo il successo ottenuto con il primo album quanti avrebbero cercato di ricalcarlo all’infinito? Kate invece cambia quasi subito abito musicale, esplora l’elettronica, i ritmi e le atmosfere di altri Paesi, la classica, il prog, il post punk, il reggae, il music-hall, la new age… Qualcuno l’ha definita la versione femminile di Peter Gabriel, altri persino di David Bowie. In comune con questi pesi massimi c’è il trasformismo, la voglia di mettersi in gioco e osare, disco dopo disco, non dimenticando mai di comunicare con il pubblico tramite canzoni che toccano cuore e cervello. A ben pensarci però il paragone è limitante. Kate Bush è solo Kate Bush. Una che a 14 anni scrive una roba come Wuthering Heights e che a 20 se ne esce con un disco come The Kick Inside non ha bisogno di essere la versione femminile di nessuno.
Certo, all’inizio può usufruire delle cure e delle attenzioni di uno come David Gilmour al quale, diciassettenne, fa pervenire una registrazione demo. Il chitarrista dei Pink Floyd ascolta attonito quell’adolescente che ha studiato danza, mimo e pianoforte dall’età di 5 anni. Accompagnandosi col suo strumento, Kate sciorina una serie di brani già coinvolgenti, con una voce del tutto personale. L’influenza delle grandi vocalist del folk inglese (Sandy Denny, Maddy Prior, Shirley Collins) si sente, ma Kate aggiunge un tocco tutto suo. La sua voce sa essere delicata come quella di una fata, ma carica di eterea sensualità, nonché capace di grandi salti di ottava, dalla più acuta alla più profonda, mettendo in scena un trasformismo che oltre che compositivo è anche vocale. Gilmour non perde tempo a presentarla al colosso discografico EMI. L’etichetta però non ha fretta, dall’incontro con il chitarrista al primo album passano almeno tre anni nei quali Kate viene messa alla prova con la composizione di canzoni sempre più centrate e mature, un uso ancora più eclettico della voce e una generale costruzione del personaggio.
Quando nel 1978 Kate viene lanciata in orbita fa il botto al primo colpo. Da quel momento le hit si susseguiranno, anno dopo anno: Wuthering Heights, The Man With the Child in His Eyes, Wow, Babooshka, Sat in Your Lap, Running Up That Hill, solo per citarne alcune, e senza dimenticare Don’t Give Up, lo straordinario duetto realizzato con uno dei suoi equivalenti maschili: Peter Gabriel. Kate Bush è inoltre la prima artista inglese a raggiungere la cima della classifica degli album più venduti nel Regno Unito con Never for Ever ed è infine l’unica ad aver avuto almeno un disco nella top 5 in cinque diversi decenni, dagli anni ’70 agli anni ’10.
Nel periodo tra il 1978 e il 1993 Bush dà tutta sé stessa, così tanto che a un certo punto decide che è troppo. Le sue uscite discografiche si diradano e dal 1993 a oggi pubblica solo tre album. Come se l’immane sforzo creativo profuso negli anni precedenti le avesse fatto pensare di avere dato tutto quello che poteva dare. I suoi primi sette album sono quanto di più creativo sia mai uscito nell’ambito della musica pop-rock, un impatto talmente poderoso da influenzare tutt’oggi una larghissima schiera di artisti, donne e uomini.
9Aerial (2005)
Dopo The Red Shoes, Kate Bush si assenta dalle scene per ben 12 anni. Si prende tutto il tempo che le serve per pensare alla famiglia, ai figli e a mettere insieme nuove idee e sensazioni da riportare su disco. Il risultato dell’attesa rentrée è Arial, doppio album che genera due sensazioni contrapposte: da una parte c’è il piacere di risentire la voce della Bush, dall’altra la delusione del risultato. Il primo dei due dischi (denominato A Sea of Honey) contiene una serie di canzoni dallo scarso mordente, con l’eccezione della sospesa e folkeggiante Bertie, dedicata al figlio. Il secondo (A Sky of Honey) sulla carta è il più interessante, ma la chilometrica suite di oltre 40 minuti che contiene è un polpettone new age di scarsa digeribilità.
8The Red Shoes (1993)
The Red Shoes è un concept album che narra le vicende di una ragazza che, indossate delle scarpette rosse, non riesce più a smettere di ballare. L’animo danzante di Kate (da sempre vicino al suo fare musica, si vedano i suoi video) esce prepotentemente alla ribalta, con tanto di ulteriore concept video (The Line, the Cross and the Curve) utile a comprendere le vicende narrate nelle canzoni. Canzoni che, al netto di qualche buon momento (i singoli Rubberband Girl e Eat the Music, e The Song of Solomon, con la collaborazione del Trio Bulgarka), fanno registrare un calo di ispirazione rispetto al passato. Le composizioni si sono fatte meno interessanti e le invenzioni non sono così inventive. È evidente che Kate si trova alla fine di un percorso, iniziato e condotto senza soste fin dall’adolescenza. Da segnalare che sette dei dodici brani verranno rivisti e re-interpretati nel 2011 nell’album Director’s Cut.
750 Words for Snow (2011)
Un disco tanto particolare quanto sottovalutato, ad oggi l’ultimo in studio di Bush. Totalmente incentrato su sensazioni invernali, 50 Words for Snow è il lavoro più intimista della Bush, sette canzoni basate in buona parte sul pianoforte e la voce dell’autrice e su particolari innesti jazzati a evocare scenari fatti di neve e sospensione dalla realtà. Segue la scia di altri illustri manifesti di malinconia musicale come l’unico album solista di Mark Hollis, Mid Air del leader dei Blue Nile, Paul Buchanan, e certe pagine di Joni Mitchell. Nella dilatata (oltre nove minuti) Snowflake si raggiunge il picco massimo dell’astrattezza mai toccato dalla Bush, tra rintocchi di piano, veli ambient ed echi nel silenzio. A sorpresa in Snowed in at Wheeler Street Bush duetta con Elton John.
6The Dreaming (1982)
Kate Bush fa un bel balzo. Per quanto di grande classe fossero gli album precedenti ancora la cantautrice non si era esposta in qualcosa di realmente coraggioso. E per coraggioso intendo in grado di destabilizzare il pubblico, anche col rischio di fare un bel tonfo. Ma il tonfo non c’è, anzi, i fan sono dalla parte della cantante quando propone un album zeppo di stramberie elettroniche, ritmi metallici, effetti stravaganti e poche concessioni al normale modo di concepire le canzoni. Influenzata dall’amico Peter Gabriel, che in quegli anni (con III e IV) opera una rivoluzione copernicana all’interno della pop song, Bush muove i passi in un universo ignoto, che non teme di scontentare chi ancora sogna sulle note di Wuthering Heights e che la impone come compositrice d’alto rango.
5Lionheart (1978)
Il difficile secondo album, pubblicato solo pochi mesi dopo l’exploit di The Kick Inside, non mette in crisi l’artista, che pur non eguagliando le vette del disco precedente mette insieme 10 tracce di art pop mutante. Ci sono l’epicità di Wow, la magia un po’ leziosa di In Search of Peter Pan, la leggiadra Symphony in Blue, il testo impegnativo di Kashka from Bagdad (che affronta, come Wow, l’argomento omosessualità in largo anticipo sui tempi), le cangianti Don’t Push Your Foot on the Heartbrake e Hammer Horror (dotata di un video che mette in mostra alla grande le capacità mimiche della Bush) e le pianistiche Oh England My Lionheart e In the Warm Room (chissà quante volte ascoltate da Tori Amos). In copertina una Kate Bush in tenuta leonina mette in mostra tutta la sua stravagante carica sensuale.
4The Sensual World (1989)
Dopo le sperimentazioni di Hounds of Love, Kate Bush torna sulla terra dando vita a uno dei suoi dischi più fascinosi e pregni di umori world, con un cast stellare di ospiti: Rocket’s Tail è cantata su uno sfondo di cori messi in scena dal Trio Bulgarka, il bretone Alan Stivell sfodera la sua arpa celtica in The Fog e Deeper Understanding, il vecchio amico David Gilmour fa urlare la sua chitarra in Love and Anger. E avanti così tra atmosfere cupe a ammalianti (la title track) e ritornelli da brividi (Reaching Out). Il capolavoro è This Woman’s Work, poco più di tre minuti di pianoforte e voce in una delle più intense creazioni dell’artista. Scritta per il film She’s Having a Baby (Un amore rinnovato), il brano parla dell’essere costretti ad affrontare una crisi inaspettata e spaventosa durante il parto, il tutto narrato dal punto di vista di un uomo.
3Never for Ever (1980)
Confezionato in una copertina allegorica che vede universi interi prendere forma da sotto la gonna della cantante, Never for Ever è il disco più compatto e maturo della prima fase della Bush, quella più attenta alla canzone. L’atmosfera generale è ammaliante e ovattata, con un picco di intensità in Breathing, una piccola sinfonia in crescendo sui pericoli dell’energia atomica, debitrice di certo sound pinkfloydiano. Ma Never for Ever è soprattutto l’album di Babooshka, hit mondiale che narra di una donna sposata che decide di mettere alla prova il marito e la sua fedeltà facendogli pervenire lettere profumate a nome di una misteriosa giovane di nome Babooshka. Il gioco avrà conseguenze inaspettate.
2Hounds of Love (1985)
Kate Bush raggiunge l’equilibrio perfetto tra la forma canzone della sua prima fase e gli esperimenti sonori che avevano caratterizzato The Dreaming. Hounds of Love rappresenta uno dei capisaldi della musica moderna nel suo riuscire a mettere insieme arte e commercialità. Con una prima parte fatta di cinque canzoni belle ed eccentriche (tra le quali i successi planetari di Running Up That Hill e Cloudbusting) e una seconda con il capolavoro nel capolavoro: The Ninth Wave, suite in sette movimenti a proposito di una donna che si ritrova a galleggiare in mare dopo un naufragio e del suo lento scivolare verso l’oblio. Dall’iniziale, struggente And Dream of Sheep al soffuso commiato di The Morning Fog, la suite è un saliscendi di invenzioni ed emozioni tali da consacrare questi 20 minuti come una delle cose più belle degli anni ’80.
1The Kick Inside (1978)
The Kick Inside è l’esordio: Kate Bush ventenne fa innamorare il mondo. The Kick Inside è soprattutto Wuthering Heights, per chi scrive il più bel singolo della storia, armonia e melodia da urlo ed emozione a mille mentre Kate/Cathy invoca il suo Heathcliff nel cuore di una notte senza fine. The Kick Inside è anche il magico trittico iniziale Moving (dedicata a Lindsay Kemp)/The Saxophone Song/Strange Phenomena, quest’ultima la prima canzone al mondo sul ciclo femminile. Musica, letteratura, filosofia, magia, amore, sesso: The Kick Inside è qualcosa più che un disco, sta a voi farvi possedere e lasciarvi stregare.