‘Gommalacca’, quando Franco Battiato entrò nell’era digitale | Rolling Stone Italia
Musica

‘Gommalacca’, quando Franco Battiato entrò nell’era digitale

Un nuovo libro analizza tutto il repertorio del cantautore. Ecco un estratto dedicato alle canzoni dell’album del 1998 registrato su Pro Tools con membri di Bluvertigo, Africa Unite e C.S.I.

‘Gommalacca’, quando Franco Battiato entrò nell’era digitale

Battiato nella sua casa di Milo, Catania

Foto: Luciano Viti/Getty Images

Il 25 giugno uscirà il libro Franco Battiato. Tutti i dischi e tutte le canzoni, dal 1965 al 2019 in cui Fabio Zuffanti esamina gli album del cantautore. Ecco un estratto dedicato alle canzoni del disco del 1998 Gommalacca, il primo registrato su Pro Tools con l’aiuto fra gli altri di Morgan e Madaski.

Shock in My Town


L’inizio è di quelli col botto, con sequencer ritmici e il campionamento di un coro che introducono l’ingresso della ritmica. Il basso di Castoldi qui e altrove riesce a fare magnificamente il verso a Tony Levin (Peter Gabriel, King Crimson), con un suono pastoso e parti di grande creatività. Sul tappeto ritmico si stagliano sintetizzatori, che qui e altrove richiamano Pollution, e archi, con Franco che declama il titolo con voce distorta, associandolo alla band americana Velvet Underground. Il testo indugia sulle visioni di una società riportata allo stato primitivo proprio a causa dell’eccesso di tecnologia. Da segnalare che nel periodo precedente all’uscita di Sulle corde di Aries Franco parlava già di volere dedicare il nuovo disco (cosa poi non avvenuta) alla storia di una popolazione antica riportata a uno stato di barbarie proprio dalle macchine. A 1:56 una ritmica più sommessa (con Franco in piena estasi futuristico-biologica che canta “Nelle mie orbite si scontrano tribù di sub-urbani, di aminoacidi”) e poi l’esplosione del ritornello, forse il più deflagrante dell’intera carriera di Battiato, con batteria e chitarre a pestare duri e il nostro a urlare il testo su un registro altissimo, snocciolando in pochi secondi gli “shock addizionali” (uno dei capisaldi di Gurdjeff: gli sforzi da mettere in atto per sfuggire alla pigrizia e spezzare le catene dell’abitudine), il risveglio della kundalini (l’energia divina che nelle tradizioni tantriche si ritiene risiedere in forma quiescente in ogni individuo), la paranoia (come il vecchio brano dallo stesso titolo, che verrà riportato in vita proprio nel tour di Gommalacca) e la mescalina (che Battiato dice di avere provato in gioventù). Dopo il ritornello seguono alcune divagazioni di basso dal suono distorto, i cori campionati, le tastiere, la ripetizione del titolo e nessun altro testo. A 3:02 la voce di Franco in reverse ripete “Di amminoacidi. Nelle mie orbite si scontrano tribù di sub-urbani. Di amminoacidi”, dando il via alla ripetizione del ritornello e a una psichedelica coda finale.

Auto da fé


Il titolo in spagnolo significa “Atto di fede” e nei domini dell’impero spagnolo era la proclamazione di un giudizio pronunciato dal Tribunale dell’Inquisizione. Solitamente si usa quando si vuole rinnegare un’idea, un sentimento, un desiderio. Battiato parla dell’innamoramento che, a causa della ruggine del tempo, spesso viene meno gettando la coppia nell’apatia. Per sfuggire a tale stato Battiato propone il compimento dell’atto sessuale senza alcun trasporto amoroso, in una dimensione più vicina agli animali che alla razza umana, abituata a complicare tutto con l’intelletto e il sentimento. Il brano si avvale di una veloce batteria elettronica che a 0:19 viene rimpiazzata da quella acustica che suona su un tempo dimezzato, con le chitarre di Pancaldi a tessere un tappeto ritmico e solista di stampo frippiano. A 1:27 l’arioso ritornello vede in scena chitarra acustica e tastiere, prima del ritorno della scalmanata ritmica iniziale, con tastiere anni Settanta. A 2:05 un nuovo cambio di scena: un momento più ombroso e ovattato che poi esplode di nuovo nella ritmica veloce, con una ridda di voci pulite ed effettate prima del nuovo ritornello e della coda che riprende l’inizio del brano.

Casta diva


Dedicata a Maria Callas, si avvale di un campionamento della soprano alle prese con la famosissima aria della Norma di Bellini. La voce che si può ascoltare nelle copie della prima tiratura dell’album non è però quella della Callas ma di un’altra soprano: Paola Romanò. La Emi, titolare dei diritti della registrazione originaria, sostenne infatti (forse per ripicca nei confronti del loro ex-artista) di non potere concedere il permesso d’uso in quanto gli eredi Callas non erano d’accordo. In realtà pare che gli eredi non fossero a conoscenza della cosa. Chiarito il disguido la voce della Callas entra a far parte di una nuova edizione di Gommalacca dopo che questo ha già venduto oltre 200 mila copie. Il brano racconta in maniera descrittiva alcuni episodi della travagliata esistenza della cantante di origine greca giunta a New York ancora nel grembo della madre. La stessa madre che in seguito farà ritorno in Grecia con la figlia, all’epoca “una ragazzina assai robusta” che soffriva di una disfunzione che la portava a prendere peso. Su un tappeto di tastiere e un suono di campanella ferroviaria si dipana il campionamento dalla Norma, la voce di Franco entra poi sulla batteria elettronica. Tastiere, chitarra acustica ed esplosioni di elettrica e basso sono punteggiate dalla voce della Callas. A 1:37 l’ingresso della batteria, con Franco a decantare le lodi e a raccontare del successo ma anche delle pene che hanno caratterizzato la vita della soprano. Pene sopraggiunte a causa di Aristotele Onassis, che Battiato definisce “un vile”. L’armatore ebbe infatti una relazione con la Callas ma non volle mai sposarla, preferendole Jacqueline Kennedy. In questo e altri brani di Gommalacca non ci sono parti in rima o assonanze come solitamente si usa nei testi delle canzoni, solo la narrazione di una vicenda resa in maniera melodica dal nostro. A 2:18 un breve momento lirico di pianoforte (suonato da Sgalambro) e tastiere torna alle atmosfere cameristiche di Come un cammello in una grondaia prima del ritorno della batteria e di alcuni frammenti di testo sul campionamento vocale. La fine del brano vede in scena un breve assolo di chitarra.

Il ballo del potere

Il Ballo Del Potere

L’inizio di chitarra in 4/4 è fuorviante, visto che all’ingresso della batteria il tempo si sposta in 12/8. Sullo sfondo un campionamento da un brano etnico a visualizzare il ballo del potere del titolo come rito sciamanico per l’accumulo di energia. Balli del potere sono però anche le strategie politiche atte alla conquista di una poltrona. Franco passa così da un estremo all’altro, così come quando fa recitare da Andrea Pezzi (con un’agghiacciante pronuncia inglese) le basi del Taijiquan, stile delle arti marziali cinesi che è una sorta di meditazione in movimento: “Il cerchio simbolizza T’ai chi il quale è informe e al di sopra di ogni dualità. Qui esso manifesta se stesso come progenitore dell’universo. È diviso tra Yin (buio) e Yang (luce) che simboleggiano il polo negativo e quello positivo. Coppie di opposti, passivo e attivo, femmina e maschio, luna e sole”. Il cantato di Franco (armonizzato da se stesso) è supportato da Ginevra Di Marco che sussurra “Mi manchi e ti manco”. A 1:19 entra il ritornello su una base di percussioni tribali e il coro che racconta del rito pigmeo di fumare erba e quello aborigeno del rilasciare lo sperma nella terra per fertilizzarla. A 2:41 un momento dissonante con vari campionamenti orchestrali prima della ripresa del canto iniziale, del ritornello e di una coda con i cori etnici in evidenza.

La preda


Brano dalla linea vocale e pianistica ritmicamente sghemba rispetto al costante 4/4 della base, La preda mette in scena uno stato di inquietudine che poi sfocia in un rapporto sessuale. In una pausa soffusa con il ritmo costante in sottofondo (0:57) Franco e Ginevra Di Marco descrivono l’amplesso che, sfruttando le tecniche del Tantra, provoca un orgasmo che è anche estasi mistica, perdita dei propri contorni. Sullo sfondo un coro ritmico e la ripresa del tema pianistico iniziale, ciò mentre lo stato di estasi porta la mente a perdersi in altri tempi e luoghi.

Il mantello e la spiga

Il Mantello E La Spiga

Campionamenti di cicale, rumori elettronici e un delicato tema di tastiere inaugurano una selva di immagini sul tempo che scorre, sull’affidarsi all’antica saggezza e seguire se stessi indipendentemente da ogni avversità (“Lascia tutto e seguiti”). Il tutto con la consapevolezza di essere solo una parte di un lungo ciclo di reincarnazioni che quando giungeranno alla fine renderanno liberi. Tale sensazione è sonorizzata a 1:20 da una deflagrazione di batteria e chitarre. A 1:36 il ritmo raddoppia e si fa martellante mentre lo spirito libero vaga nelle “distese dei campi” e ricorda del proprio essere stato una molteplicità di uomini e animali (“Correvi con la biga nei circhi. / E fosti pure un’ape delicata”). Al termine del secondo “Lascia tutto e seguiti” resta la chitarra di Pancaldi che con una serie di fitte note introduce un momento più rarefatto, con la voce flebile di Franco. A 2:48 torna il ritmo lento e il testo iniziale mentre il tessuto sonoro si fa via via più intenso e sfocia in una serie di urla chitarristiche.

È stato molto bello

E Stato Molto Bello

Il momento più poetico di Gommalacca, una breve lirica che si snoda e poi torna da capo in un carosello di frammenti che non necessariamente devono dare un senso univoco al testo, ma che anzi servono a donare all’ascoltatore scampoli di illuminazioni: “i colli dei cigni” che “splendono alla luce”, “i mille barbagli” che “trafiggono le palpebre”, “la tarda estate”, “il fuoco che bruciò Roma”, “le ombre oltre la sera”… Una sensazione di tenue malinconia sottolineata dall’arrangiamento che nella prima parte vede in campo null’altro che una batteria elettronica, un velo di tastiere e la voce effettata di Franco che a un certo punto ripete “Non domandarmi dove porta la strada, seguila e cammina soltanto”, uno dei suoi più alti momenti di pacata saggezza. A 1:51 il brano riparte da capo con suoni più consistenti: batteria, basso, chitarre e la voce armonizzata. A 2:30 una pausa della rimica con solo il basso a sottolineare l’armonia, il ritorno delle programmazioni e poi di nuovo della batteria, mentre Franco ripete “Io non invecchio, niente più mi imprigiona” e suoni sempre più impalpabili lo sommergono.

Quello che fu


Ricordi di una intensa storia d’amore del passato su un tappeto di tastiere, con la voce appassionata di Franco ad arrendersi all’evidenza di ciò che è stato e che non tornerà. Dopo la prima enunciazione del titolo (a 1:14) entra una batteria programmata che poco dopo (1:31) cede spazio a una nuova esplosione di ritmica e chitarra. Una baraonda di immagini che dal personale si sono spostate all’universale con riflessioni filosofiche (“La distinzione tra bene e male”), religiose (“La ripida discesa dal cielo alla terra”), geografiche (“La circumnavigazione”), esistenziali (“La gioia e il dolore dell’esistere”) ed evolutive (“Le emozionali imprese della specie”). Il tutto con la batteria incalzante, la chitarra cadenzata e le tastiere a mimare gli archi. A 2:42 le riflessioni si spostano verso il futuro, con una sospensione della ritmica, la voce sopra le tastiere e un grido disperato che attraversa spazio e tempo e mette in scena tutta la fragilità umana: “Sono disperso”. A 3:12 torna tutto l’assetto strumentale e le riflessioni sull’amore passato, con il coro e poi Franco. Il finale è tutto per gli archi sintetizzati e per la lancinante chitarra.

Vite parallele


Il clima torna sereno, con una pacata batteria elettronica, rade note di chitarra e il solito variegato tappeto tastieristico a simulare piano, archi e oboe. Qui Battiato descrive il concetto delle vite che si muovono simultaneamente in più universi, il potere toccare con mano questa consapevolezza tramite la meditazione e il giungere a un’idea di vita eterna. Il titolo del brano cita il filosofo greco Plutarco e si sofferma in maniera decisa sulla reincarnazione. Sul finale Battiato torna a un suo vecchio pallino, il non volersi concedere all’esclusività dei sentimenti, la consapevolezza che non si può rimanere chiusi in qualsivoglia tipo di gabbia ma è necessario sempre spaziare, con corpo, mente e cuore.

Shakleton


Ernest Henry Shackleton (1874-1922) è considerato uno dei più importanti esploratori britannici. Al suo nome sono legate alcune importanti spedizioni antartiche, tra le più impervie della storia delle esplorazioni. Durante il secondo viaggio da lui compiuto, a ottanta miglia dal continente polare, la sua nave chiamata Endurance viene sorpresa dal gelo rimanendo intrappolata nei ghiacci del mare di Weddell. Per dieci mesi è trascinata alla deriva nel pack (lo strato di ghiaccio marino derivato dallo sgretolamento della banchisa). Il 21 novembre 1915 la nave sprofonda nel ghiaccio, costringendo Shackleton e il suo equipaggio di ventotto uomini a un’incredibile lotta per la sopravvivenza, con provviste limitate e una temperatura che oscilla tra i -22°C e i -45°C. Dopo un incredibile viaggio su tre scialuppe tutti gli uomini riescono ad arrivare all’isola Elefante, nelle Shetland Meridionali. Da qui Shackleton, con altri cinque compagni, salpa alla guida di un’altra scialuppa di sette metri nel temerario tentativo di raggiungere una base baleniera situata nella Georgia del Sud. Con il solo aiuto di un sestante e di un cronometro l’imbarcazione riesce incredibilmente a percorrere 1600 km ed a raggiungere Grytviken, attraversando uno dei mari più pericolosi e inospitali al mondo. All’arrivo Shackleton organizza una spedizione di soccorso, che solo molti mesi dopo, a causa del mare tempestoso, riesce a recuperare gli uomini rimasti ad attenderlo nell’isola Elefante. Con grande orgoglio di Shackleton nessuno dei suoi uomini morì in Antartide. Questo episodio contribuisce ad accrescere la sua fama, facendo di lui un personaggio quasi leggendario.

Alla figura del valoroso capitano (scritto Shakleton al posto di Shackleton) è dedicata la mini-suite che chiude in bellezza Gommalacca. Shakleton è divisa in tre movimenti: La storia, Il ricordo e Sage mir warum (“Dimmi perché”) e si avvale del recitativo iniziale di Manlio Sgalambro che in un’atmosfera notturna e onirica, come stesse parlando nel sonno, declama: “Una catastrofe psicocosmica mi sbatte contro le mura del tempo. Vigilo nel sonno, vigilo. Sentinella, sentinella, che vedi? Una catastrofe psicocosmica contro le mura del tempo”. Il tutto su uno straniante campionamento di un’antica incisione del classico Plaisir d’amour. A 1:00 la voce di Franco irrompe su un tema di archi sintetici, sulle prime battute a parlare e poi a melodizzare il racconto dell’impresa del Capitano. Altre tastiere e una chitarra entrano a 1:56 mentre Sgalambro ripete la sua narrazione che a 2:23 cessa e lascia spazio a un momento di sospensione sonora, con una voce campionata che si muove fantasmatica. Poi ancora il filosofo continua, con una voce effettata come provenisse da una vecchia radio: “Alla deriva, alla deriva, verso nord, nord-ovest. Profondità 370 metri. 72° di latitudine est”, con Franco che termina la narrazione sul ritorno del tema di tastiere. Il secondo movimento inizia con una serie di percussioni elettroniche sempre più insistenti e di tastiere sulle quali si staglia la voce di Fleur Jaeggy che recita cantando in tedesco un suo poema: “Crepuscolo quieto / Il giardino è gelato / Le rose ne hanno sofferto / Le rose ne hanno sofferto / Dimmi perché / Dimmi perché / Crepuscolo quieto / Il giardino è gelato / Le rose ne hanno sofferto. / Dimmi perché / Crepuscolo quieto”. Da 4:49 rimangono solo le percussioni iniziali alle quali se ne aggiungono altre e Franco che nomina il cognome del capitano in un mantra ritmico, con un numero di suoni sempre più ampio a sovrastarlo. Il tappeto sonoro si assottiglia sempre più fino quasi a sparire. Da qui prende vita il terzo movimento, con Battiato che canta salmodiando la continuazione della poesia della Jaeggy su uno sfondo di cori sintetici: “Dimmi perché / In un giardino perduto / Dimmi perché / Odono la tua voce / Dimmi perché / Ti prego, non tacere / Ti prego, non tacere / Ti prego, non tacere / Ti prego, non tacere / Ti prego, non tacere / Ti prego, non tacere”.

Estratto da Franco Battiato. Tutti i dischi e tutte le canzoni, dal 1965 al 2019 di Fabio Zuffanti, Arcana edizioni. © 2020 Lit edizioni s.a.s. Per gentile concessione

Altre notizie su:  Franco Battiato