Metà anni ’70 dello scorso secolo: mentre in Inghilterra e in Italia il progressive rock si avvia verso un mesto declino, altrove la sua fiamma infuoca un pubblico che fino a quel momento ne aveva osservato l’ascesa da altre prospettive. A pensarci gli Stati Uniti non dovrebbero essere terra florida per chi dal rock si attende sperimentazioni, invenzioni basate sul connubio tra generi e scardinamento della canzone da tre minuti. Storicamente gli Stati Uniti detengono il primato di avere inventato il rock e di averlo mantenuto fedele alle origini che affondano gli stivali nel fango del blues più viscerale. Pensate a band come Lynyrd Skynyrd, Little Feat o Creedence Clearwater Revival: potrebbe esserci qualcosa di più distante dal prog? Eppure negli anni ’70 gli ascoltatori nordamericani si fanno ammaliare da tanti astri del rock sinfonico, vedi soprattutto gli Yes che con Roundabout fanno il botto trasformandosi in superstar mondiali. Quindi non è esatto dire che gli americani sono refrattari al prog, solo che ne amano il lato più muscolare, quello un po’ meno intellettualistico e più rock.
Scontato quindi che a un certo punto comincino a nascere tutta una serie di band autoctone che portano avanti un discorso che prende sì dalla lezione dei capisaldi del genere, ma la irrobustisce con le stilettate, a volte ai confini con l’heavy, che tanto piacciono da quelle parti. Nella seconda metà dei ’70 il prog trova una sua via americana fatta di successi stellari e di stadi stracolmi, questo almeno in un paio di formazioni destinate a fare la storia del rock a stelle e strisce: gli Styx e i Kansas. Poi, come sempre succede, seguono a ruota tutta una serie di epigoni più o meno underground che fanno il possibile per dire la loro, spesso con dischi tanto misconosciuti quanto essenziali. Il tutto per restituire al prog quel nerbo che a volte mancava nel lato inglese e italiano, dove si è più propensi ai grandi concept filosofici e a un connubio più marcato con la classica, il folk o il jazz. Il prog americano è invece così rock che spesso sconfinerà nell’AOR o nel cosiddetto pomp rock, a tratti kitsch ed esagerato come da nome. Questo tipo di connubio ispirerà a suo volta gruppi inglesi come i già citati Yes, gli Asia o i GTR. Il successo stratosferico di album come 90125 o Asia è lì a dimostrarlo.
Detto ciò, ci concentriamo sulle formazioni che hanno creato dieci gioielli più o meno celebri del prog americano, band che non mancheranno di stupirvi per l’inventiva e l’immaginazione (è presente tutto il mondo tra sogno, fantasia e realtà tipico delle band europee), ma che vi faranno anche venire voglia di battere il piede al suono di un bel rock cazzuto e potente.
10. “Easter Island” Easter Island (1979)
Formati nel 1973 dal chitarrista Mark Miceli, nel ’79 gli Easter Island tirano fuori un disco stampato in proprio e circolato in pochissime copie. La band è artefice di un prog a là Crimson/Yes/ELP con alcuni accenni di world music e qualche ideuzza traslata da certa new wave. Un connubio intrigante per una serie di brani colmi di Mellotron, Moog e tanta maestria. È infatti scontato che molti gruppi americani si rifacciano a certe icone prog (in Genius of the Dance sono gli Yes fatti e finiti, band che ritroveremo un po’ ovunque in questa lista), ma nel contesto di una bravura compositiva ed esecutiva assolutamente non scontata. Attenzione alla Alchemist’s Suite sulla seconda facciata, ci sono momenti da urlo.
9. “Stained Glass Stories” Cathedral (1978)
I Cathedral hanno creato dal nulla un suono del tutto personale carico di Mellotron e basso Rickenbacker che influenzerà una serie di fondamentali band europee come i francesi Shylock o gli svedesi Änglagard. Per il resto i riferimenti sono i soliti: Yes, Genesis e King Crimson riletti con sapienza, sensibilità e un occhio alla sperimentazione. Curiosità: due membri dei Cathedral si re-inventeranno negli anni ’80 con gli Industry, virando verso il techno-pop e azzeccando un ottimo successo, anche in Italia, con il singolo State of the Nation.
8. “Night on Bald Mountain” Fireballet (1975)
Gemma nascosta del rock progressivo anni ’70 l’album d’esordio dei Fireballet è prodotto nientemeno che da Ian McDonald dei King Crimson, il quale impreziosisce il tutto con alcune parti di sax. Siamo dalle parti dei Genesis era Nursery Cryme, specie in Les Cathedrales, accattivante e delicata, con ampia strumentazione degna dei Gentle Giant. Si cambia completamente registro nella seconda facciata che vede una rilettura della suite Una notte sul Monte Calvo di Mussorgsky (interpretata anche in Italia dai New Trolls Atomic System) piena di creazioni totalmente personali.
7. “Ardour” Ethos (1976)
Provenienti da Fort Wayne, Indiana, area del Paese tendenzialmente conservatrice, gli Ethos vengono notati dalla Capitol Records che li manda a New York per registrare l’album d’esordio. Date un’occhiata alla fantasmagorica copertina di Ardour, la musica contenuta nel disco è esattamente quella cosa lì: colorata, immaginifica e yesseggiante, con anche un pizzico di Genesis, Earth & Fire ed Eloy. Colma di Mellotron, cambi di tempo e voci angeliche. Insomma un suono e una filosofia che lo odi o lo ami visceralmente, al punto di annegarci dentro.
6. “Happy The Man” Happy The Man (1977)
Gli Happy The Man (dal nome di un singolo dei Genesis) sono un po’ gli Hatfield & The North americani con un attributo in più. Raffinati e jazzati come i canterburiani, aggiungono un po’ di tono muscolare e schizoide (traslato da formazioni storiche del jazz-rock come i Return to Forever di Chick Corea) e sul tutto fanno colare una bella dose di panna sinfonica. Il connubio è esaltante, specie nei brani che alternano momenti più furiosi e tecnici ad aperture solari e atmosferiche, vedi la New York Dream’s Suite finale, vera bandiera di certo prog made in U.S.A. fatto di tecnicismi ad alto tasso emotivo.
5. “The Grand Illusion” Styx (1977)
Con i giganti Styx si entra nell’alveo del pomp rock/AOR tipicamente americano. Qui le strutture del prog fanno da contorno a una musica sfarzosa quanto basta per stimolare i più acerrimi fan del rock americano. Gli Styx sono unici nel loro genere e hanno creato tutta una serie di album sempre intensi e godibili, inserendosi in un filone di grandissimo successo. The Grand Illusion è il loro capolavoro, un concept pieno di lustrini e teatralità, quasi degli Yes spinti all’eccesso tra funambolismi strumentali e cori in gran spolvero, ma con un afflato pop veramente irresistibile.
4. “Todd Rundgren’s Utopia” Todd Rundgren’s Utopia (1974)
Nel 1974 la rockstar sui generis Todd Rundgren si mette in testa di offrire una sua personale visione del prog rock. Detto fatto, mette su una band con ben tre tastieristi, la chiama Utopia e con loro registra uno dei dischi assoluti del prog mondiale. Vero frullatore nel quale è concentrata la migliore musica dell’universo, Todd Rundgren’s Utopia è fatto di quattro brani pieni di virtuosismi con l’anima. Quindi via a tutto il ben di dio possibile, ma anche grande comunicatività, con una selva di strumentisti eccezionali. I pezzi sono lunghi, uno addirittura sfiora la mezz’ora, ma credetemi non sono mai noiosi, non finiscono di stupire. È musica che ti tiene sulle spine e non ti lascia respirare un attimo.
3. “Pampered Menial” Pavlov’s Dog (1975)
Se riuscirete ad apprezzare la voce particolare di David Surkamp, sorta di Geddy Lee ancora più spinto verso le alte, Pampered Menial sarà un disco che vi farà innamorare. Nove canzoni belle, compatte, con melodie meravigliose, una tonnellata di Mellotron, violini, flauti, incursioni acustiche e squarci heavy. Un mix stratosferico di sinfonico, folk, rock, pop, con autentici classici come il singolo Julia, la dolce malinconia di Late November e l’epicità di Of Once and Future Kings.
2. “For You The Old Women” Mirthrandir (1976)
Attivi dal 1973, i Mirthrandir danno alle stampe privatamente il loro debutto nel 1976, disco che mette in scena una pazzesca commistione di Yes (soprattutto per il basso, le tastiere e le armonie vocali) e Gentle Giant (per la capacità polistrumentistica dei suoi componenti e le parti musicali decisamente arzigogolate). Con un cantante (John Visocky III) che è una vera bomba. Cinque pezzi, uno più bello, evocativo e sorprendente dell’altro, con la punta di diamante della suite finale For Four, 15 minuti di alternanza tra parti soffuse, incastri strumentali impossibili ed emozionanti aperture sinfoniche.
1. “Two for the Show” Kansas (1978)
Al top non possono che esserci loro: i Kansas, autori della più straordinaria versione del prog made in U.S.A. E ci sono con un disco live. Può sembrare strano, ma non lo è. Nei loro più famosi album in studio (quelli realizzati tra il il 1974 e il 1977) i Kansas hanno infatti sempre alternato pezzi prog clamorosi ad altri più standardizzati di stampo rock-blues. Il doppio live del 1978 ha la particolarità di assemblare in un unico prodotto tutto il meglio del loro repertorio 100% prog: ecco quindi sfilare Song for America, Point of Know Return, The Wall, Journey from Mariabronn, Magnum Opus, brani che meritano di stare accanto alle più blasonate creazioni di Genesis e Yes. Accanto a questi altre canzoni-gioiello come la romantica Dust in the Wind o la trascinante hit Carry on Wayward Son. Tutti classici del prog a stelle e strisce da parte di una delle band giustamente più celebrate.