C’era una volta uno spilungone nasuto che diceva di non sopportarla (insieme ai cori russi, al finto rock, al free jazz punk inglese e alla nera africana), ma finiva per far dischi inscrivibili in larga parte al fenomeno. Di cosa stiamo parlando? Ma della new wave italiana, costola autoctona della gloriosa corrente inglese.
Cosa differenzia la new wave britannica da quella italica? Beh, in primis il fatto che quella si pone come sviluppo in senso artistico e sperimentale del punk. Ma come fare quando ci si trova in una nazione dove il punk praticamente non c’è stato (almeno non nel 1976-77)? Dove si è passati in poche settimane dal romanticismo della Locanda delle Fate al gelo elettronico dei Chrisma?
La risposta è semplice (e tutta italiana): si fa! Per un certo periodo Locanda e Chrisma convivono più o meno amabilmente, salvo poi far sì che i romantici affondino e il gelo imperversi. Dal 1978 in avanti si assiste a una vera tempesta di formazioni più o meno devote agli spunti che provengono dall’Inghilterra. È la new wave di band quali Ultravox!, Human League, Joy Division, Stranglers a infiammare i cuori dei giovani musicisti italiani, senza contare la sempiterna influenza di David Bowie, colui che alla fine dei conti aveva surclassato il punk per prenderne solo gli schemi essenziali e dare vita al suo art rock, che da lì a poco sarà appunto denominato new wave. Tutto torna.
Tra il 1978 e il 1985 l’Italia sarà la culla di centinaia di formazioni new wave. Dopo la grande ondata prog del 1971-1977 ci sarà questa, ben supportata da schiere di giornalisti che sputano sulle vecchie proposte e vanno in brodo di giuggiole per i nuovi. Con ragione, tra l’altro. Moltissima new wave italiana è infatti di gran pregio e, come era successo anni prima, non si limita a copiare gli schemi esteri bensì aggiunge un tocco tutto italico fatto di melodia e malessere. Due elementi che diventano essenziali nella versione nostrana di una musica che è nata per essere scarna, scheletrica, avvolgente e sospesa. Ma che qui si ammorbidisce, grazie alla rotondità di certe melodie e alla cura estrema per gli arrangiamenti.
Su tutto aleggia un generale senso di oscurità. Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 l’Italia non se la passa granché bene tra terrorismo, droga e crisi assortite. La neonata new wave diventa quindi la colonna sonora di questo stato delle cose. Mentre qualcuno si scatena al ritmo di Saturday Night Fever, i newwavers si chiudono in se stessi: abiti neri, ritmi freddi come il frigorifero (rotto) di casa, atteggiamento distaccato. Ma non è tutto: dentro ci finisce anche certo jazz, certo prog, certa disco. È quello che serve per sfuggire al disagio imperante. Come gli inglesi, oltre gli inglesi, forse anche con un pizzico di classe in più.
Ecco quindi la consueta lista di 10 dischi essenziali del settennio di gloria. Con un’alternanza di nomi strafamosi ad altri strasconosciuti. Ho cercato infatti di operare una scelta che includesse i miti, ma facesse luce anche su alcuni capolavori dimenticati. Purtroppo la mannaia ha lasciato fuori un buon numero di band: dai Neon ai Rats passando per i primi Underground Life (ma loro daranno il meglio nella seconda metà degli ’80), i Kirlian Camera, gli Stupid Set, i Bisca e molti altri. Sono inoltre estromessi coloro più addentro al movimento punk tout court: i CCCP, tutta la Pordenone-school (Great Complotto & others), le Kandeggina Gang di Jo Squillo, i Decibel di Enrico Ruggeri, i temerari Dirty Action e tutto l’universo che gravitava attorno agli ultimi fuochi della Cramps (la compilation Rock ’80, gli Skiantos). Tutta gente segnalata non a caso: da ricercare e amare quanto i magnifici 10.
10. “I luoghi del potere” Art Fleury (1980)
Gli Art Fleury provengono da situazioni impegnate e impegnative. Sono fan degli Area più estremi e degli Henry Cow. E anche, aggiungo, del Battiato era Clic. Sono i più sperimentali del lotto, con passaggi rumoristici, elettronici e d’avanguardia. Ma rispetto ai mentori sono più immediati, si sente che la lezione punk non è passata inosservata. Gli Art Fleury, nonostante l’angoscia metallica di certe partiture (vedi Uno spettro si aggira per le brigate Hans Eisler, evocativa già dal titolo), sanno muoversi con una certa leggerezza tutta wave all’interno di una musica che trasla il passato in novità.
9. “Central Unit” Central Unit (1983)
I misconosciuti bolognesi Central Unit sono autori di una miscela peculiare per la wave nostrana. Tendono ad allargare la canzone a favore di una ragnatela di atmosfere sintetiche, con la ritmica in evidenza. Al tutto aggiungono una certa dose di improvvisazione e tocchi jazz a tinte noir. Qualcosa che sa di cinematografico, a metà strada tra il Ballard/Cronenberg di Crash e l’Assault on Precinct 13 di John Carpenter (film e soundtrack). Gli indimenticabili Tuxedomoon sono il faro che guida la proposta musicale dei Central Unit, ma la loro personalità è forte e sicura.
8. “Hibernation” Chrisma (1979)
Negli anni ’60 Maurizio Arcieri è voce e immagine dei New Dada. Questo prima di conoscere la futura sposa Christina Moser e trovarsi a Londra durante la rivoluzione punk e post. Qui Arcieri ha l’illuminazione, formare un duo new wave con la sposa e traghettare in Italia un suono a metà tra il pop deluxe e i Kraftwerk più brumosi. Nascono i Chirsma, con Hibernation perfetto secondo parto, nove canzoni in stato di ibernazione, nove schegge elettroniche nella quali la Moser può dar sfoggio di tutto il suo charme algido e sensuale. Durante Domenica in uno stupefatto Pippo Baudo li ospita mentre, presentando il video del singolo Aurora B, mimano un rapporto sessuale e poi inscenano un suicidio.
7. “Sick Soundtrack” Gaznevada (1980)
Figli di una Bologna inquieta e belligerante, piena di creatività e di menti in esplosione (Freak Antoni, Andrea Pazienza, per citarne due), i cinque Gaznevada picchiano duro con un suono che impasta ispirazioni no wave insieme a schegge di Talking Heads, Pere Ubu e Suicide. Sick Soundtrack, esplicativo fin dal titolo, è una roba mai sentita prima in Italia. Musica tagliata con l’eroina, urticante come i lacrimogeni sparati nelle vie della città rossa. Ipercinetica, narcotizzante, i Roxy Music a cena da Alan Vega. Una molotov.
6. “Paulin” Flavio Paulin (1979)
E questo chi cazz’è? Se ve lo dico non ci credete. È l’ex cantante dei Cugini di Campagna, quello che nel 1974 intonava in falsetto Anima mia. Nel ’77 abbandona i Cugini e si mette a studiare musica elettronica, nel ’79 se ne esce con questo disco. Da non crederci: il Battiato di Patriots fatto e finito, solo pubblicato un anno prima. Poi omaggi a Bowie, ai Kraftwerk e a Gary Numan, musica-robot in 10 tracce una più gustosa dell’altra, soprattuto originali, al di là delle influenze. Un disco completamente dimenticato che merita di esser riscoperto a tutti i costi.
5. “Desaparecido” Litfiba (1985)
Piero Pelù è il Demetrio Stratos post punk. Stessa grinta, stesso piglio, stessa voglia di usare la voce come un megafono. Stratos per la sperimentazione, Pelù per i suoi messaggi che all’epoca del primo album della sua band si facevano spesso onirici e metaforici. Nell’85 Desaparecido lo aspettavano in molti e il risultato non tradì l’attesa. Come se il rock barricadiero dei primi U2 e le introversioni dei Joy Division si fossero uniti sotto la bandiera tricolore in una proposta dirompente come un pugno sui denti. Lulù & Marlene, Pioggia di luce, Guerra, Istanbul sono canzoni bellissime, di una bellezza che oggi come allora dilania.
4. “A Berlino… va bene” Garbo (1981)
Con un’eleganza e una voce baritonale che lo avvicinano a David Sylvian, Renato Garbo nella prima metà degli ’80 buca lo schermo, e lo buca con una musica di classe e qualità. In un’Italia che sapeva affascinarsi anche per fenomeni del genere, Garbo propone il suo cocktail bowiano, sintetico e romantico. È il primo vero personaggio della new wave tricolore, al suo esordio con canzoni belle e maledette, capaci di fare battere il ritmo come di immergersi in profondità Tuxedomoon, come la lunga Mekong. La title track è la nostra Heroes.
3. “Confusional Quartet” Confusional Quartet (1980)
I più folli di tutti, i più geniali. Tra i più grandi della new wave a livello mondiale. Pazzi, schizoidi, 13 brani che triturano rock, jazz, sound design, sigle pubblicitarie, musica da videogiochi, frammenti di varietà televisivi, spy movies e altri universi. Sorta di Devo strumentali senza bisogno di Eno, di Area demenziali, di una geniale demenza, di intelligenza sopraffina. In questo disco rifanno anche Volare. Vi lascio immaginare.
2. “Suicidio” Faust’O (1978)
Faust’O, aka Fausto Rossi, è il cantautore nuova maniera di cui la new wave abbisogna. Basta chitarre acustiche e poetiche varie, ma una bella base cazzuta di ritmiche squadrate e sintetizzatori a squadernare le profonde angosce del giovane Fausto dalle scarpe gialle. Suicidio è un viaggio-concept dai truci ricordi d’infanzia ai malesseri dell’adolescenza, fino ai dolori della gioventù. È un vero zibaldone dove il nostro pare il solito Bowie calato nelle viscere dell’inferno. Pensavamo che il Duca Bianco ci avesse già mostrato tutta l’inquietudine del mondo, sbagliavamo.
1. “Siberia” Diaframma (1984)
L’album simbolo della new wave, non solo italiana. Siberia è il disco del ghiaccio, della neve, degli abiti neri, dell’apatia e della non-comunicazione. Dell’inverno dentro, del volere parlare ma non sapere cosa dire, del cercare amore senza volerlo. È un pacchetto di canzoni immortali, di una poesia che strazia la carne e la lascia a gelare nella notte. È l’album del crepuscolo di ogni desiderio, che poi s’infiamma quando Miro Sassolini intona “dove il giorno ferito impazziva di luce” sulla chitarra di Federico Fiumani. Ian Curtis lo avrebbe amato senza ritegno.