Esordi folgoranti, grandi conferme, cinquantenni che non mollano. Cantautori inclassificabili, gruppi che è impossibile incasellare in un genere, ragazzini che imbracciano gli strumenti e scrivono dischi schizzati, producer di livello internazionale. Da Ghali al ritorno di Gué fino all’internazionalizzazione di Sfera, rap, trap e urban sono stati al centro della conversazione sul pop italiano, ma tutt’intorno è stato un fiorire di dischi che gettano un ponte verso la canzone tradizionale e la melodia pop, e non solo.
Non è il caso di celebrare il funerale all’album. Anche nel 2020, con le playlist che orientano gli ascolti sulle piattaforme di streaming, gli artisti italiani hanno pubblicato dischi magari non concettuali, ma comunque coerenti, solidi, in cui una poetica sonora è sviluppata nell’arco di 10, 12, 15 canzoni. Quando un artista vuole lasciare un segno e raccontarsi in modo articolato, pubblica un album.
Per stilare una classifica dei migliori dischi italiani del 2020 abbiamo chiesto ai collaboratori di Rolling di inviare le liste di quelli che sono stati per loro i lavori più importanti dell’anno, dei più rilevanti, di quelli che hanno lasciato un segno. Ecco la classifica derivante dalle loro preferenze, con i link per approfondire.
20. “Che vita meravigliosa” Diodato
Probabilmente sarà ricordato come il disco di Fai rumore, ballata d’amore e lotta, ma in realtà è molto altro. È il disco di un cantautore maturo che ha messo a fuoco il suo stile, in equilibrio tra l’autobiografia e il commento sociale, e che ha firmato una collezione di brani essenziali, discreti ed emozionanti. Dietro a Diodato c’è un grande cast: Tommaso Colliva ai suoni, Fabio Rondanini alla batteria, Rodrigo D’Erasmo al violino, Daniel Plentz alle percussioni, Adriano Viterbini alle chitarre. «In Che vita meravigliosa ci sono canzoni d’amore, ma anche un’interazione con il mondo che ci circonda», ha detto Diodato. «Mi sembra inevitabile: un cantautore deve guardarsi intorno e raccontare ciò che vede». L’intervista pre Sanremo. (Andrea Coclite)
19. “Liquid Portraits” Clap! Clap!
Il gusto di Clap! Clap! è qualcosa di raro. Lo confermano questi suoi ritratti liquidi, viaggi sinestetici nella memoria, gocce che formano un oceano di suono. È una goduria lasciar scorrer il disco, senza skippare alcuna traccia, lasciandosi trascinare dall’estro del producer toscano. Un album costruito da campioni che mantiene il feeling di un disco suonato. Rotondo, sinuoso, sexy e con quell’andamento ritmico perpetuo che ti smuove il bacino. Cool è l’unico termine adatto. L’intervista. (Mattia Barro)
18. “Cristian Bugatti” Bugo
E ok Sanremo, Morgan, “le brutte intenzioni, la maleducazione”, i teatrini da Barbara D’Urso. Va bene tutto. Ma dietro i meme c’è un disco vero, questo (qui il racconto di Bugo canzone per canzone). Che è uscito a quattro anni dal precedente e che per il suo autore è il lavoro più ispirato dal mesozoico di Contatti (2008). Certo meno stralunato di allora, più concreto e operaio. Ma siamo lì: Celentano, Liam Gallagher, Vasco. Con un duetto insieme a Ermal Meta (Mi manca) che all’Ariston non sarebbe diventato virale, ma avrebbe vinto a mani basse. Tant’è. Per molti il 2020 ha conciso con la scoperta di Bugo; per i suoi fan storici, con un piacevole ritorno. In entrambi i casi, è andata benone. (Patrizio Ruviglioni)
17. “Mi ero perso il cuore” Cristiano Godano
Spesso gli artisti possiedono una sensibilità tale da permettere loro di viaggiare a una velocità diversa rispetto al resto dell’umanità. I brani del suo primo album solista giravano nella testa di Cristiano Godano da almeno tre anni, ma l’attualità di cui sono permeati lascia interdetti, tanto sembrano fotografie di uno dei momenti più drammatici dal dopoguerra. Mi ero perso il cuore è una raccolta di brani intimi e crudi, in cui Godano si scopre libero, soprattutto musicalmente, dai suoi Marlene, ma senza perdere un briciolo della sua forza compositiva. Un album cupo e intenso, che però è anche un invito alla resilienza, all’attivismo. Perché, nonostante tutto, il cuore batte ancora. L’intervista. (Luca Garrò)
16. “W” Populous
Uno dei dischi italiani più internazionali dell’anno porta la firma di Populous da Lecce. In W – che sta per woman: le collaborazioni sono al femminile, l’estetica è queer, l’identità di genere fluida e consapevole – il Salento si apre alla cumbia e agli echi latini, in una sorta di house tropicale che è la controparte colta del reggaeton. Per noi, è stato l’album da ballare in estate, quello che ha dimostrato come si possa fare musica esotica senza scimmiottare i soliti modelli, e si possa fare in Italia. Per il producer, al sesto lavoro in studio e con una rete di ospiti e suoni che ormai spazia in tutto il mondo, ha rappresentato il fatidico passaggio alla maturità. L’intervista. (P.R.)
15. “Cip!” Brunori SAS
Targa Tenco 2020, l’ultimo album di Brunori è quello della consacrazione, di un suono più largo e corale, di canzoni meno legate all’attualità e scritte con quella che il cantautore ha definito la sindrome da visione d’insieme. Cip! è anche il disco musicalmente più ricco della carriera di Brunori: le atmosfere alla Vasco di Capita così, l’elenco tropicale di Fuori dal mondo, i sintetizzatori di Al di là dell’amore, la ballata per pianoforte e orchestra Per due che come noi, i fiati di Anche senza di noi. Peccato non essercelo goduto dal vivo nei palazzetti, in uno dei tour che la pandemia ci ha tolto da sotto i piedi. Dopo averlo riascoltato, non vediamo l’ora di recuperare. (A.C.)
14. “Gemelli” Ernia
L’anima di questo artista è duplice, proprio come il titolo del suo album. C’è l’Ernia melodico e nazionalpopolare di Superclassico, vero grande tormentone estivo del 2020 (se ci fosse stato ancora il Festivalbar avrebbe vinto a mani basse, ne siamo sicuri), e c’è l’Ernia di Puro Sinaloa, che riprende Puro Bogotà, un brano di culto di Club Dogo, Marracash e Vincenzo da Via Anfossi del 2007, e ne rifà una versione 2.0 insieme a Tedua, Rkomi e Lazza. Entrambi i lati di questa medaglia dimostrano che non è particolarmente interessato alle convenzioni discografiche, ma piuttosto a fare quello che gli piace, e quando ne ha voglia. Il che è la cosa migliore che ci si possa augurare da chi fa musica. L’intervista. (Marta Blumi Tripodi)
13. “DNA” Ghali
Il Ghali degli ultimi anni ha un pregio che è anche un difetto: la semplicità e l’immediatezza. Se da una parte questo lo rende subito orecchiabile e accessibile a tutti, anche a chi di solito non ascolta musica come la sua, dall’altra a volte rischia di trasformare molte sue canzoni in earworm da jingle pubblicitario (e infatti, non a caso, i suoi brani sono tra i più gettonati per questo scopo). Resta però un caposaldo per chi cerca vibrazioni positive e un hip pop che non si vergogna di esserlo, ma anzi, cerca di spingere i suoi confini sempre un passo oltre, coadiuvato in questo caso una vasta rosa di produttori capitanati da un ottimo Mace. Ce lo ha raccontato qui. (M.B.T.)
12. “Merce Funebre” Tutti Fenomeni
Anche nel disastro di questo 2020 sono nati dei bambini. E allo stesso modo, nonostante i tempi, la musica è andata avanti con esordi sorprendenti fra gli artisti. È il caso di Tutti Fenomeni, con un pop à la Battiato tutto filosofia, citazioni e ritornelli killer. In scia de I Cani (la produzione è proprio di Contessa), e sorpassandoli a destra direzione Battisti-Panella. I paroloni diventano suono, ma restano pure coperti da una patina di post ironia, fra meme, esercizi barocchi nonsense e ammiccamenti da liceo classico. Merce Funebre, però, non è un disco per il pubblico del Superuovo, ma un lavoro it-pop – per restare in tema – “illuministico”. (P.R.)
11. “Canale Paesaggi” Post Nebbia
Eppur si muove: mentre it-pop e trap monopolizzano la nostra musica, qualche ragazzino prende ancora la strada lunga. Tipo i Post Nebbia, che con un frontman classe ’99 e il poster dei Tame Impala in cameretta hanno scommesso sulla psichedelia e le chitarre liquide. Canale Paesaggi – il loro secondo album, quello che li lancia fra i “grandi” – è inaspettato e originale, perché se da un lato pensa all’America dall’altro è un collage di televendite delle reti locali, echi di miseri quiz a premi, frammenti di giornate passate davanti alla tv, fra la noia e un po’ d’erba (lo spiegano qui). Risultato? Un piccolo trip di provincia, firmato dagli alternativi per eccellenza della Generazione Z. (P.R.)
10. “Cinema Samuele” Samuele Bersani
Sorpresa: il nuovo di Samuele Bersani sta sul pezzo ben oltre i pronostici, perché per la prima volta cambia d’abito la sua scrittura pop raffinata imbevendola con un’elettronica à la National. Inaspettata, sì, ed elegante pure. Ma dopo un po’ chissenefrega: in una situazione del genere, ci servivano soprattutto i suoi testi, per fortuna commoventi come sempre. Stavolta, sono storie di uomini che – come lui, in questi sette anni di silenzio – toccano il fondo per risalire, fanno a botte col passato (Il tuo ricordo), con sé stessi (Harakiri), con la fantasia (Il tiranno) e con le riverenze dell’occasione (L’intervista). Ma poi, insomma, ne escono vivi. Una garanzia. L’intervista. (P.R.)
9. “Banzai (Lato blu)” Frah Quintale
Se esiste un artista in Italia che riesce a incarnare la naturalezza, la poliedricità, la spontaneità e la creatività di un Anderson .Paak, quello è senz’altro Frah Quintale (qui il racconto dell’album). Come molti rapper che hanno cominciato a sperimentare anche in campo melodico, ha trovato un approccio del tutto personale e particolare alla materia, creando una nuova tipologia di canzoniere italiano e togliendo uno spesso strato di polvere che ormai rischiava di ricoprirne per sempre le pagine. Piccole perle sofisticate come Buio di giorno o pezzi in apparenza semplicissimi come Due ali saranno la colonna sonora di una nuova generazione. (M.B.T.)
8. “Scritto nelle stelle” Ghemon
Continua la trasformazione di Ghemon in un artista in grado di assorbire tutte le sue molteplici influenze musicali (perché è chiaro anche a chi non lo conosce che Ghemon di musica ne ascolta e ne apprezza proprio tanta) e rielaborarle in un prodotto tutto suo, che assomiglia a tanti generi e a nessuno in particolare. Scritto nelle stelle (qui l’intervista) ha il flow di un ottimo disco rap, le armonie di un ottimo disco soul e la perseveranza e il coraggio di chi ha voglia di sperimentare sempre cose nuove, indipendentemente da quello che i fan e i critici potrebbero pensare. Merita più di un ascolto, e attento. (M.B.T.)
7. “Mr. Fini” Gué Pequeno
Un album cinematografico, dalle grandi e visionarie ambizioni, ma anche un ritorno alle origini per Gué, che dopo anni di esplorazione in senso geografico riporta il focus sulla sua esistenza e sui suoi trascorsi. Mr. Fini recupera il sound con cui il suo protagonista è cresciuto: l’hip hop della golden age, la dancehall, la bass music, il rap francese. E scava in profondità anche dal punto di vista dei testi e delle esperienze, come dimostrano i molti brani intimisti come Stanza 106, Ti ricordi? o Mercy on Me (In sbatti). Un lavoro maturo e artisticamente complesso, che rende giustizia a uno dei migliori rapper italiani di sempre. La nostra digital cover. (M.B.T.)
6. “Forever” Francesco Bianconi
Premessa: il primo album solista di Francesco Bianconi doveva essere radicalmente diverso da quelli dei Baustelle. Andata. Certo però provateci voi a uscire con un disco coraggioso come questo: arrangiato per archi e piano, senza sezione ritmica, con versi in francese e in inglese e dal tono grave e austero. C’è tutto, ma non come te lo aspetti: le collaborazioni chiamano in causa Rufus Wainwright, il pezzo spacca-tutto è una ballata da camera per la fica (o per il ritorno nella), l’esistenzialismo è nero e passionale (Zuma Beach). In un anno in cui molti artisti hanno preferito non rischiare, rimandare, Forever è un atto d’amore per la musica e la vita. L’intervista e la «radio libera dello spirito» Storie inventate. (P.R.)
5. “Scacco Matto” Lorenzo Senni
Se nella geografia della musica elettronica mondiale c’è pure una bandierina italiana, il merito è di Lorenzo Senni. E non a caso a questo giro il producer cesenate ha pubblicato per la Warp Records, etichetta-sacrario londinese con in scuderia gente come Aphex Twin e Yves Tumor. Scacco Matto è l’ennesimo passo avanti nella ricerca sonora del suo autore, a decostruire la trance in un groviglio di sintetizzatori onnivori e mai dozzinali, che fagocitano tutto il resto – drop e ritmiche comprese. Spiazzante, sperimentale. E, come sempre, ciò che Senni fa quest’anno, gli altri proveranno a replicarlo il prossimo. L’intervista. (P.R.)
4. “L’ultimo a morire” Speranza
È raro che un album d’esordio riesca a convincere al 100% al primo ascolto, ma è senz’altro il caso di L’ultimo a morire, un disco potente, completo, che rende pienamente giustizia alla crescita europea del suo artefice (ce ne ha parlato qui). Traghettato dalla periferia francese (Behren, al confine con la Germania) alla provincia italiana (Caserta), Speranza è riuscito a crearsi uno stile tutto suo, spezzato e spiazzante come la sua voce quando dal palco urla le sue barre in faccia ai fan. Alternando italiano, francese, dialetto e perfino la lingua gitana, riesce a trasmettere perfettamente il messaggio che tutta la banlieue è paese, senza suonare artefatto come molti suoi colleghi di oggi. (M.B.T.)
3. “Momentum” Calibro 35
Dopo un decennio di poliziotteschi, colonne sonore immaginarie e viaggi spaziali, i Calibro 35 si confrontano con la contemporaneità. Momentum è un disco di loop “umanizzati”, jazz contaminato, post rock, persino hip hop – grazie ai featuring con Illa J e MEI –, scritto con la curiosità dei grandi musicisti e senza inseguire nessun trend da classifica. «È il primo album dove non abbiamo giocato al gioco del “come se”. Se ci pensi, molti dischi dei Calibro sono nati così», ci hanno detto. «Dopo Decade, che è un disco che in qualche modo riassume i “come se” di un decennio, abbiamo deciso di raccontare chi siamo adesso». (A.C.)
2. “Cosa faremo da grandi?” Lucio Corsi
Il 2020 è stato anche l’anno di Lucio Corsi, che dopo gli esperimenti in ossequio alla sua Maremma di Bestiario musicale è riuscito a mettere definitivamente a fuoco la propria estetica. Altro che it-pop e copia-incolla: Cosa faremo da grandi? è una fiaba-tesoro che guarda ai ’60 italiani, allo storytelling in stile spoken di Dylan, al glam rock di certe chitarre, e che al tempo stesso suggella una poetica stralunata e immaginifica che è già solo sua, in cui un Freccia Bianca nasconde lo spirito di un capo indiano, i vasi si “buttano” dai terrazzi e nessuno vuole crescere (qui il racconto di Corsi canzone per canzone). Ma cosa fare da grande, lui, l’ha capito: il cantautore, l’ultimo della dinastia. (P.R.)
1. “Famoso” Sfera Ebbasta
L’ascesa di Sfera Ebbasta assomiglia a quei grafici dei fumetti Disney con la proiezione dei guadagni di Paperon De’ Paperoni, che a un certo punto sfondano il foglio di carta e sconfinano sul muro, fino ad arrivare al soffitto. Disco d’oro in 24 ore, disco di platino in 10 giorni, Famoso ha alzato l’asticella per tutta la concorrenza. Ma soprattutto, cosa ben più importante rispetto al metro quantitativo, è un gran bel disco, che segna l’esordio ufficiale di Sfera nel panorama internazionale con collaborazioni eccellenti e molto ben riuscite (Future, Offset, Diplo, Steve Aoki e molti altri ancora). È anche un album variegato e sorprendente, che attinge più dal pop contemporaneo che dalla trap in senso stretto; e non a caso, visto che oltreoceano il mainstream di oggi è pesantemente influenzato dall’hip hop e dai suoi derivati. Un plauso va dato a Charlie Charles, produttore di fiducia di Sfera e nuovo Re Mida della discografia italiana, che in questo caso ha dato la sua impronta al lavoro in qualità di direttore artistico. Come ci tengono a sottolineare i diretti interessati, però, non è un punto d’arrivo, ma un primo passo: attendiamo con grande curiosità il successivo. (M.B.T.)
Hanno votato Graziella Balestrieri, Mattia Barro, Michele Bisceglia, Carlo Bordone, Giulia Cavaliere, Andrea Coclite, Giovanni De Stefano, Filippo Ferrari, Luca Garrò, Alessandro Giberti, Paolo Madeddu, Alfredo Marziano, Raffaella Oliva, Patrizio Ruviglioni, Claudio Todesco, Marta Blumi Tripodi, Andrea Valentini, Edoardo Vitale, Fabio Zuffanti.