Martedì sera sono tornati i Daft Punk. Calma, però: non sono tornati davvero (e comunque i robot possono tornare? Hanno la coscienza del significato di andare e/o tornare? Percepisco il tempo oltre al mero segno matematico?). Il profilo Instagram dei Daft Punk è tornato a pubblicare dopo un anno esatto di silenzio. Era il 22 febbraio 2021 quando, improvvisamente, i due avevano sentito la necessità di chiudere il progetto così, dal nulla, dopo otto anni di relativo silenzio (se escludiamo la collaborazione con The Weeknd per le hit Starboy e I Feel It Coming e con i Parcels per Overnight). Ma quindi cosa è successo?
In primis, e soprattutto, del gran fomento. Poco importa se i Daft non fanno musica a loro nome da otto anni, e ancor meno importa se si sono sciolti (nell’ottica in cui ogni mossa del duo è velata da una perenne ambiguità), per i fanboy e le fangirl dei robot la loro importanza travalica lo spazio-tempo come in Tron. E martedì i Daft Punk, almeno per una sera, sono effettivamente tornati. Tornati, sì, ma al 1997. L’apparizione digitale infatti direzionava l’utente sul canale Twitch dei Daft (ennesima protesi digitale del progetto) su cui è stato trasmesso il live tenutosi al Mayan di Los Angeles il 17 dicembre 1997 per Daftendirektour, il tour in supporto al loro primo disco, Homework del 1997, che abbiamo imparato a conoscere nella sua versione live grazie alla pubblicazione discografica di Alive ’97. Venticinque anni passati in un bleep.
Un quarto di secolo è trascorso dall’uscita di Homework, il fulminante disco d’esordio dei Daft Punk, eppur a risentirlo non sembra. Se da un lato è preoccupante come da allora i tentativi di reinventare la musica da club siano falliti, d’altra parte è assolutamente incredibile quanto questo disco porti in sé radici, semi, piante e frutti del suono per il dancefloor. Homework difatti fu – ed è ancora – una premonizione, un eterno futuro che continua ad accadere, un classico-futuro-passato che nella sua capacità atemporale di prendere piedi, fianchi e cervello dell’ascoltatore, costringe le articolazioni umane a movimenti umanoidi. Oggi come ieri come domani. È un lavaggio del cervello di massa in cui le scosse elettriche emanate hanno avuto – e ancora hanno – la capacità di riprogrammare la storia collettiva del ballo.
I Daft Punk sono stati un enorme glitch che ha inevitabilmente cambiato il funzionamento della Macchina. Nel loro pastiche sonoro di drum 909, bassi saltellanti e sample disco intravediamo l’umano oltre umano. Homework è l’uncanny valley del dancefloor, il robotico così umano (o ai tempi l’umano così robotico?) che ci crea un ambiguo disagio, una perfezione digitale troppo umana, troppo perfetta che – oggi come nel 1997 – se suonata all’interno di un dj set fa impazzire il pubblico, proprio come è accaduto martedì nella chat del canale Twitch del duo, uno spettacolo futuristico di comunicazione ad emoticon, una scrollata infinita a ritmo forsennato di entusiasmo globale che dall’umano entrava nella macchina e per radunarsi in una chatbox impazzita in un linguaggio ad immagini e simboli. Bleep, glitch, scossa elettrica. Reset.
Homework è semplicemente monumentale, nella sua forma originale come ricomposto nella versione live di Alive ’97. Prendete Around the World e Da Funk, i singoli da classifica (impensabile ora che un disco orientato al dancefloor abbia una tale capacità di entrare nelle classifiche di vendita e ascolto). O i brani spacca-pista come Revolution 909, Rollin’ & Scratchin’, Burnin’, Indo Silver Club. Riuscite a pensare che quei brani hanno 25 anni? Sono la storia-che-sta-ancora-accadendo della musica per il dancefloor. Nessun disco è invecchiato come Homework perché Homework non è invecchiato. Homework non ha solamente inventato un suono, lo sta continuando ad inventare. Ogni “nuovo” genere dell’elettronica da dancefloor deve qualcosa a quel disco e a quelle tracce e ogni “nuovo” genere deve così tanto a quel disco e a quelle tracce da non riuscire ad emanciparsi. Homework è un iperoggetto del dancefloor tanto che gli stessi Daft Punk non sono più riusciti a replicarne la potenza eterna; nemmeno il colossale Discovery è riuscito davvero a non conoscere il tempo umano. Homework è l’eterno ritorno ed è giusto celebrarlo in questa ristampa: fa bene, fa godere.
In un momento in cui la cultura legata al dancefloor ha subito un arresto storico a causa della pandemia, poterci riassaporare almeno per una notte Alive ’97, nei suoi polverosi filmati d’epoca in cui – tra l’altro – i Daft non indossano i caschi che li hanno resi icone del nostro tempo, è un bagno di suono che idrata i nostri corpi. E ci ricorda, se ce ne fosse ancora bisogno, dell’importanza di Homework nella club music e nella club culture.
Se l’ultimo decennio ci aveva lasciato con l’immagine di una coppia di robot intenti a programmare l’algoritmo della canzone perfetta, dell’instant classic, la ripubblicazione di Homework e la visione del live a Los Angeles del 1997 ci ricorda che il disco perfetto, l’instant classic, è già stato scritto da due esseri umani, Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter, 25 anni fa. Ci vorrà ancora del tempo prima che la Macchina sarà in grado di superare l’uomo, almeno sul dancefloor.