L’idea comune vuole che il rock sia fatto di chitarre, sudore, sesso ed eccessi. E non è certamente falso. Ma esiste anche un elemento più defilato, che spesso fatica a emergere anche quando presente: il pensiero. Ergo la filosofia – un termine che potrebbe spaventare qualcuno, evocando immagini di signori magari un po’ âgée, in completo professorale, che disquisiscono del rapporto fra reale e razionale, trascendenza e immanenza, divino e terreno… Superato l’ostacolo dello stereotipo, però, ci si può trovare di fronte a rocker da manuale come i Pearl Jam.
Di quell’impetuosa ondata grunge che, fra la fine degli anni ’80 e la metà dei ’90, travolse il panorama del rock – mainstream e indipendente – i Pearl Jam sono gli ultimi grandi sopravvissuti. Sono riusciti a resistere in virtù della loro vena musicale/artistica (capace di conquistare e soprattutto mantenere schiere di fan anche con l’appassire di mode e tendenze), ma non è da sottovalutare l’aspetto ideale/filosofico, quindi il pensiero, che in qualche modo costituisce una sovrastruttura, un collante e un fil rouge per la loro musica. Un aspetto che si manifesta nelle tematiche dei testi in maniera spontanea, non necessariamente deliberata o studiata. Non certo come un sistema filosofico delineato e costruito, ma più come prodotto di un pensiero a costellazione in cui i concetti, le grandi domande, le illuminazioni e le risposte inafferrabili costituiscono una mappa in cui orientarsi e trovare una rotta.
A occuparsi di questo tema è un volume curato dai docenti universitari Stefano Marino e Andrea Schembari (rispettivamente docente di Estetica all’Università di Bologna e di letterature comparate all’Università di Szczecin, in Polonia) dal titolo Pearl Jam and Philosophy. Edito (per ora solo in lingua inglese) da Bloomsbury Academic, è il primo libro che esamina – raccogliendo contributi di accademici di tutto il mondo, in forma di paper – la musica e le attività dei Pearl Jam da un punto di vista filosofico.
«Anche se non tutte le canzoni della band possono essere considerate filosofiche in senso stretto a livello di tematiche e argomenti dei testi», scrivono i due curatori/autori nell’introduzione, «per molte il discorso vale, in quanto si occupano di argomenti centrali che hanno attirato l’attenzione di filosofi – occidentali e non – da secoli, oltre a porsi domande profonde e a cercarne le risposte, anche se a volte si vedono costretti ad ammettere (peraltro in modo tipicamente filosofico) che “gli interrogativi emergono e vanno a cadere… / Insormontabili” oppure “le domande restano lassù appese”».
«La comunità accademica ha risposto con entusiasmo alla nostra call for paper che invitava a inviarci dei contributi che analizzassero la band da un punto di vista filosofico e poetico», raccontano Marino e Schembari. «Senza però innalzare troppi paletti e, anzi, lasciando grande libertà di approccio. In questo modo abbiamo scoperto che ci sono molti colleghi in tutto il mondo, alcuni anche insospettabili, fan dei Pearl Jam: tutti hanno offerto punti di vista molto vari e peculiari, davvero interessanti. C’è da dire che negli ultimi anni l’ambito, fortunatamente, si sta aprendo ad argomenti che in precedenza venivano trascurati o percepiti, magari per partito preso, come poco seri o troppo leggeri per divenire oggetto di studio».
Nell’avvicinarsi ai Pearl Jam in modalità philosophy on, colpisce ciò che nel volume è sottolineato in apertura: il fatto che la band di Seattle metta un’enfasi particolare sul procedimento del questioning, ovvero il porsi domande per cercare risposte che aiutino a interpretare, capire e affrontare la realtà in cui viviamo. In pratica adottano quella che è una delle più genuine componenti del pensiero filosofico – «il domandare è il principio del filosofare», mettono in chiaro i curatori – che diviene il perno su cui ruotano molti testi di Vedder e sodali. Come, ad esempio, in Alive (il primo grandissimo successo dei Pearl Jam), il cui tema centrale è una domanda aperta, di quelle senza risposte univoche o certe, come accade per tutte le grandi questioni filosofiche: merito di essere vivo? È come se Vedder, sicuramente non in maniera deliberata, sollevasse spesso interrogativi di questo tipo e andasse in cerca non tanto di una risposta definitiva – che non esiste – ma piuttosto di principi e intuizioni che aiutino a tirare avanti e, soprattutto, a impegnarci. L’idea di impegno (non politico, o meglio non solo politico) è in effetti centrale nell’universo Pearl Jam: occorre agire sul mondo e farsi avanti per cambiare le cose anche poco a poco, non limitarsi a restare nella propria bolla a osservare ciò che ci accade intorno.
Ma non è tutto. Quanto esposto poco sopra, infatti, è interpretabile – ad esempio tramite il testo del brano Present Tense – nel senso che la cosa più importante che una persona possa fare è vivere il presente e nel presente: riconosciuti i gravi limiti e le fragilità dell’essere umano, la risposta non è arrendersi e cedere al nichilismo. Anzi. Compreso il quadro, occorre affermare stoicamente il primato del presente, in cui viviamo e possiamo agire, senza avere ossessioni progettuali volte al futuro.
La ricerca di Vedder e compagni procede per sentieri e percorsi tortuosi, anche per via della non sistematicità a cui si accennava. Ma è possibile, facendo un po’ di philosohphical/poetical reverse engineering, individuare una sorta di fil rouge che si sviluppa attorno al concetto romantico e utopistico della ricerca dell’innocenza perduta che porterà (se recuperata) a un mondo migliore. In linea, se vogliamo, con la poetica di autori del secolo XVIII come Blake e Wordsworth. In questo senso si può riconoscere una pulsione all’agire per ritrovare quell’innocenza che, di riflesso, diverrebbe base fondante di un mondo ideale libero dalle gabbie deterministiche dell’economia, della politica e della società. Un mondo più umano.
È il riconoscimento della dimensione “non umana” del mondo che ci circonda a originare una componente che è stata molto presente nei testi di Vedder, ossia la rabbia, tanto da dar vita a una sorta di moto oscillatorio ideale che ai propri estremi ha i sentimenti contrastanti di rabbia e saggezza. Ma con la maturazione dell’individuo la rabbia viene in qualche modo razionalizzata e Vedder impara a utilizzarla, piuttosto che lasciarla sempre e solo esplodere: la saggezza è quindi espressione della capacità di canalizzare la rabbia, che «non deve per forza bruciarti, stile Neil Young quando scriveva “it’s better to burn out than fade away”, non deve per forza distruggerti e portarti sulla via di Kurt Cobain, Layne Staley e poi Chris Cornell, perché c’è un modo per tramutare quell’impulso in saggezza, in determinate condizioni». Ciò senza sopprimere comunque la componente della reazione/ribellione, per non ridursi ad accettare passivamente la realtà.
In questo quadro si inserisce il corpus di testi dell’ultimo album Gigaton (2020), un disco che qualcuno ha definito apocalittico e in cui il tema della rabbia, anche a livello politico (ad esempio la critica verso Donald Trump), è ben presente. I curatori del volume spiegano come a livello di concetti, poetica e pensiero sia un disco che tocca vette molto alte, mettendo sul piatto problematiche e interrogativi dal peso specifico elevatissimo – come, ad esempio, il nodo della questione del tempo, tema chiave nella storia del pensiero filosofico. L’uomo di fronte all’entità tempo si trova a vivere un conflitto per cui ha la pulsione a incasellarlo, definirlo e chiuderlo dentro gabbie che permettano in qualche modo di regolamentarlo, anche se, oggettivamente, il fluire del tempo è ineluttabile e non manipolabile.
Ovviamente tutti i concetti, le interpretazioni e le deduzioni presenti nei saggi raccolti in Pearl Jam and Philosophy, ci tengono a precisare con grande ironia i due curatori, rappresentano punti di vista e tentativi di analisi esterni. «Ci piace pensare, per fare una battuta, che Eddie Vedder dopo aver letto i libro ci possa chiamare dicendoci: “Ma io non pensavo di avere scritto della roba così seria… però mi avete convinto”».