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Il capolavoro dei Talking Heads ‘Remain in Light’ compie 40 anni

La band sull'orlo del collasso, l’idea di decostruire la canzone pop, l’influenza della musica africana, le jam, la supervisione di Brian Eno, il groove perfetto di ‘Once in a Lifetime’: che gran disco

Foto: Luciano Viti/Getty Images

Nell’estate del 1980 i Talking Heads entravano ai Compass Point Studios di Nassau per dare il via alle registrazioni di Remain in Light. Si parlavano a stento e avevano con sé una sola canzone pronta per essere incisa, I Zimbra. Dopo anni di litigi, il frontman David Byrne aveva meditato di cacciare la bassista Tina Weymouth ed era nel bel mezzo della registrazione del suo disco sperimentale con Brian Eno My Life in the Bush of Ghosts. Già pensava alla vita dopo i Talking Heads che sarebbe stata priva dei compromessi e delle discussioni tipiche di una rock band.

Poi accadde una cosa che nessun s’aspettava. Il gruppo cominciò a jammare e le canzoni iniziarono a materializzarsi. E non canzoni qualunque, ma groove selvaggi in una miscela di funk, hip hop, worldbeat, new wave, rock. «Adoravamo il pop, davvero», ha scritto il batterista Chris Frantz nell’autobiografia Remain in Love. «In quel momento, però, ci interessava maggiormente creare suoni che la gente non s’aspettava da noi».

Mentre gli AC/DC registravano Back in Black nello Studio A accanto al loro, i quattro musicisti creavano sotto la guida di Brian Eno pezzi come Born Under Punches (The Heat Goes On), Crosseyed and Painless e The Great Curve. Venivano fuori senza alcuno sforzo, come se i loro problemi non fossero mai esistiti. Era materiale completamente diverso da quello inciso dal gruppo appena tre anni prima, ai tempi di Psycho Killer. Ci potevi persino ballare su.

«Ascoltavamo quel poco di pop africano che era disponibile come Fela Kuti, King Sunny Adé, qualche registrazione sul campo», ha detto Byrne alla Library of Congress nel 2017. «Non volevamo imitarli. Decostruivamo ogni singolo elemento e nel mezzo del processo abbiamo cominciato a capire che in un certo senso stavamo reinventando la ruota. Il risultato era sì affine all’Afro funk, ma ci eravamo arrivati facendo un giro largo. E naturalmente la nostra versione era lievemente… fuori. Non suonavamo nel modo corretto, ma sbagliando abbiamo creato una cosa nuova».

Non sembrava una formula in grado di generare successi radiofonici, eppure nel bel mezzo delle session si è materializzato il groove che ha poi dato vita a Once in a Lifetime. La canzone ha introdotto i Talking Heads alla generazione che dall’anno seguente avrebbe iniziato a guardare MTV ed è ancora oggi una delle più note del gruppo. «Non sono sicuro che il testo abbia fatto la differenza», ha detto Byrne nel 2017 cercando di analizzare i motivi del successo del pezzo. «Anche se credo che la ripetizione di “You may ask yourself” e la parte che fa “How did I get here?” abbiano toccato le giuste corde, diventando memorabili. In un modo o nell’altro, esprimono sentimenti e preoccupazioni universali».

Alle fine delle session ai Compass Point, la band è tornata a New York dove il chitarrista dei King Crimson Adrian Belew e la cantante Nona Hendryx hanno effettuato alcune sovraincisioni. Le canzoni erano nate da jam informi e perciò i musicisti della band avevano deciso di spartirsi equamente i crediti, eppure quando Frantz, Weymouth e il chitarrista Jerry Harrison hanno avuto per le mani le copie in anteprima hanno letto la scritta “Tutte le canzoni sono di David Byrne, Brian Eno e dei Talking Heads”. «David Byrne aveva detto l’ennesima bugia a noi e ai nostri ascoltatori», ha scritto Frantz. «Questa cosa ci ha fatto male. Senza la nostra ostinazione, il nostro amore, il nostro talento musicale, Remain in Light non sarebbe mai nato».

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