Il post rock italiano ha riservato non poche sorprese e peculiarità. Nato negli Stati Uniti, il genere si è sviluppato a macchia d’olio in tutto il mondo con la sua fusione di kraut rock, prog, elettronica, ambient e new wave. È musica che abbatte definitivamente gli schemi pre-imposti. Il prog e il punk possono dialogare? Certo e la nascita di questa corrente ne è stata l’esempio, con le sue lunghe suite dove non c’è spazio per virtuosismi, ma le atmosfere sono spesso rarefatte come nel kraut, con ritmi ossessivi e “paesaggi” ambient. Non sono però mancati i gruppi che, specie sulla scia dell’insegnamento dei King Crimson, hanno matematizzato la musica con un ampio senso della misura, atmosfere secche e claustrofobiche.
In Italia però c’è sempre quel pizzico di calore in più. Così come il prog nostrano ha avuto le sue precise connotazioni e una più spiccata propensione alla melodia, così nel post rock di casa nostra c’è un diverso languore che rende questa musica assai più vicina al cuore che al cervello rispetto a quella statunitense. Alcuni gruppi poi hanno optato per l’inserimento di testi in strutture che altrove sono state essenzialmente strumentali. Col canto il tutto si avvicina più a una forma canzone destrutturata e asciugata nella quale descrivere stati di abbandono e desolazione. Quando invece ci si è basati su brani strumentali è emersa maggiore attenzione a temi musicali che, secondo la lezione dei Godspeed You! Black Emperor, paiono a volte oasi morriconiane in nuvole di atonalità psichedelica.
Negli Stati Uniti il fenomeno si esaurisce quasi del tutto nel corso dei ’90, da noi continuerà a sorprendere anche nel decennio successivo, con una serie di album degni di essere ascoltati. Eccoli, in ordine cronologico.
“Sinistri” Starfuckers (1994)
Uno dei manifesti del post rock italiano da parte di una band che univa mondi differenti per dare vita a una sonorità da dopo-bomba. Sinistri unisce frammenti in una sorta di cut-up che sarebbe piaciuto a William Burroughs, funk malato, richiami agli Slint, al Morricone più free, paesaggi alieni e via delirando. Il tutto come base per una serie di testi pregni di malinconia contemporanea. È un grande passo per la nascita del post rock italiano che mai come in questo caso è stato originale.
“Lungo i bordi” Massimo Volume (1995)
Post e cantautorato, o post cantautorato. In qualunque modo la si metta, qui la via autoctona al genere raggiunge uno dei più alti gradi di personalità. Il sound dei Massimo Volume è teso e scheletrico, fatto di chitarre sferraglianti su ritmiche post punk jazzose sottili (a volte) come ragnatele. Sul tutto la voce recitante di Emidio Clementi in veri e propri poemi di disagio metropolitano, tra amori devastati, ricordi in filigrana e notti di periferia. Clementi racconta con fare imperturbabile e apparentemente poco connesso con ciò che narra. In questa assenza sta la sua grandezza.
“Il vuoto elettrico” Six Minute War Madness (1997)
Il vuoto elettrico non teme compromessi, spara in faccia il suo muro sonoro dissonante (alla chitarra Xabier Iriondo, che suona anche con gli Afterhours) che penetra nel cuore di chi ascolta come una lama fredda. È un disco nel quale sembrano visualizzarsi certe periferie milanesi con i loro non-luoghi e i loro personaggi. La voce di Federico Ciappini declama con il suo stile unico e grezzo in un’opera oscura e selvaggia dove la vita notturna urbana si fa arte declinando trame sonore figlie di Fugazi e Sonic Youth in Italo post style.
“Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo” Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo (2000)
Ancora musica figlia di una metropoli, in questo caso una Torino tutta gelo, smog e Fiat. Un’inquietudine che si attacca all’anima. Pubblicato dalla minuscola etichetta Beware! messa su da John Vignola, l’esordio di una band dal nome tanto peculiare ha vaghe ascendenze Sigur Rós, si concentra maggiormente su strumentali che evocano qualcosa che si è perso irreparabilmente.
“Negarville” Madrigali Magri (2000)
Paolo Conte in salsa post rock? È innegabile che il progetto di Giovanni Succi (poi nei Bachi da Pietra) prenda vita grazie anche a suggestioni mutate dal famoso astigiano, che però vengono spalmate in una musica fatta di pochissimo: accordi malati e sbilenchi di chitarra, una rada sezione ritmica di stampo slowcore, una voce sussurrata e minacciosa. Quella di Negarville è musica del vuoto, dell’assenza, della perdita assoluta di senso.
“Cinque piccoli pezzi per gruppo con titolo” Aidoru (2001)
Gli Aidoru sono una band di folli che triturano insieme Sonic Youth, Stereolab, Tortoise, Morricone, Lucio Dalla, Duran Duran, Fugazi e King Crimson con pianoforti, chitarre oblique, basso distorto e nastri più o meno trattati. In questo disco c’è tutto e il contrario di tutto: kitsch ed eleganza, metallo e liscio, gioia e rivoluzione.
“Rise and Fall of Academic Drifting” Giardini di Mirò (2001)
Rise and Fall of Academic Drifting è un caposaldo della scuola post da parte di un gruppo che ha saputo fondere con eleganza umori d’oltremanica (l’influenza dei Mogwai è manifesta) con una passione tutta italica. Bastano le prime note di A New Start (For Swinging Shoes) per cadere in una sorta di gorgo allucinogeno, salvo poi ritrovarsi sospesi in una dimensione onirica, eterea e fugace, momenti nei quali il tempo sembra dilatarsi e cessare di esistere.
“Bachelite” Offlaga Disco Pax (2008)
Come mettere insieme post rock in salsa wave, a base di Suicide ed Echo & the Bunnymen passando per doverosi omaggi ai CCCP, con declamazioni di sdegno civile, evocazioni dell’atleta sovietico Vladimir Yashchenko (condite da mitragliate di Moog), trattati su post comunismo e post capitalismo, commoventi ricordi di famiglia. Come i Massimo Volume ma in maniera diversa, gli Offlaga Disco Pax sono un gioiello del post rock cantautorale.
“Oh, No, It Wasn’t The Airplanes It Was Beauty Killed The Beast” Hermitage (2009)
Un gioiellino misconosciuto di post rock strumentale pubblicato dalla genovese Marsiglia Records. Solo tre tracce per poco più di 25 minuti ad altissimo tasso emozionale, con chitarre che si lanciano in arpeggi diafani a evocare scenari apocalittici, ritmi pari e dispari che rilassano e inquietano, i Mogwai e i GY!BE dietro l’angolo ma anche tanta voglia di uscire dal bozzolo delle influenze e dire la propria. The Postman’s Secret Hate è una caduta agli inferi e una veloce risalita al paradiso. Peccato siano scomparsi senza lasciare traccia.
“Cercando niente” St.Ride (2010)
O del malessere sublime tra echi di Starfuckers, industrial, no wave, noise, astrattismo digitale e calore analogico. St.Ride parte come ensemble sperimentale e ci resta, ma in Cercando niente trasla la sperimentazione in canzoni fuori da ogni schema e logica, quasi polveri radioattive in un mondo nel quale ogni cosa è disgregata: “Non ho soluzioni / a pretese del cazzo / mi suona nel cesso / nel cesso di un bar / io ci vado spesso / ma piscio soltanto / son dentro e rispondo / e schizzo per terra…”.