Nel 1987 Miles Davis accettò mal volentieri l’invito a una cena di gala alla Casa Bianca, all’epoca occupata da Ronald Reagan. Era effettivamente strano che uno come lui ci andasse. Nell’autobiografia Miles racconta di essere stato invitato da Cicely Tyson, una delle donne che frequentava, e di avere accettato perché fra i premiati c’era Ray Charles. Era facile prevedere che sarebbe scoppiato un casino.
Il trombettista s’è ritrovato seduto accanto a quella che descrive come la moglie di un uomo politico che, secondo il racconto del musicista contenuto nell’autobiografia, gli ha chiesto apparentemente benintenzionata perché mai il jazz non fosse più popolare in America. «Il jazz è ignorato perché i bianchi vogliono vincere tutto», rispose Davis. Innervosita, la donna ha replicato «E lei cosa ha fatto di tanto importante nella sua vita?».
Davis aveva la risposta pronta: «Beh, ho cambiato la musica cinque o sei volte».
Quel giudizio improvvisato su di sé sembra più che mai azzeccato ora che Davis non c’è più. E «cambiare la musica» non è nemmeno l’unica cosa per la quale Davis verrà ricordato. È stato uno dei trombettisti più personali, dotati, influenti della seconda metà del Novecento. I suoi album, da Birth of the Cool (registrato tra il 1949 e il 1950) a Kind of Blue (1959) e Sketches of Spain (1960), attraverso le tempeste elettriche di Bitches Brew (1970) e Pangaea (1975) fino al più recente Tutu (premiato con un Grammy nel 1987), sono più che eccezionali. La gente rammenta il momento esatto in cui ha ascoltato per la prima volta un disco di Miles proprio come ci si ricorda dove si era quando sono stati uccisi Kennedy o Lennon, perché sono tutti momenti storici e rappresentano svolte nelle loro vite personali.
In un genere come il jazz in cui ci sono più solisti che bandleader, Davis ha alzato l’asticella per quanto riguarda gli ensemble e l’interplay. La lista dei musicisti che hanno suonato con lui è una specie di who’s who del jazz: i sassofonisti John Coltrane, Cannonball Adderley, Wayne Shorter; i pianisti Bill Evans, Herbie Hancock, Chick Corea; i batteristi Philly Joe Jones, Tony Williams, Jack DeJohnette; i chitarristi John McLaughlin e John Scofield. Attenzione però: grandi musicisti non significa automaticamente grandi band. Davis lo sapeva e voleva entrambe le cose.
Se c’è un genere nato dalla creatività degli afroamericani che è mosso dall’innovazione, quello è il jazz. E se parliamo di innovazione, o come diceva Miles di «musica che cambia», lui non aveva pari. Persino rivoluzionari come Louis Armstrong e Charlie Parker hanno sì creato stili radicalmente diversi dagli esistenti, ma vi sono rimasti fedeli mentre il resto del mondo arrancava alle loro spalle. Pochi individui fuori dall’ordinario, i John Coltrane e gli Ornette Coleman, hanno cambiato la musica più d’una volta. Quella frase di Davis, «ho cambiato la musica cinque o sei volte», non era esagerata. E si noti che in quell’occasione non disse “jazz”, ma “musica” e basta.
Miles Davis era l’anello di congiunzione con la prima ondata di jazzisti moderni come Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Thelonious Monk. Ma la sua musica ha allargato i confini del genere fin dai tempi di Birth of the Cool, l’album che ha dato il via alla conversazione tra jazz e musica classica di matrice europea. Negli anni ’60 e nei primi ’70 l’ammirazione di Davis per innovatori come Jimi Hendrix e Sly and the Family Stone l’ha portato a mescolare jazz, rock e funk.
Non si è limitato a far cadere delle barriere. Le ha proprio polverizzate attenuando la forza coercitiva della distinzione fra stili musicali, nonché della differenza fra arte alta e bassa. Critici e musicisti che ancora cercano di contrastare questo processo di democratizzazione culturale, soprattutto nei campi della classica e del jazz, sono bigotti classisti che combattono una battaglia persa. E del resto Davis sapeva come irritare i puristi.
Sono le radici famigliari a farci capire perché il musicista era tanto sicuro di sé. Nato Miles Dewey Davis III ad Alton, Illinois il 26 maggio 1926, era il figlio di un odontoiatra di successo. La stilosissima madre, pianista e violinista, amava indossare pellicce di visone e gioielli. Lo stile Davis deriva dall’eleganza della donna, così ha detto il musicista.
È cresciuto a East St. Louis, Illinois, dove hanno avuto luogo gli scontri razziali più violenti d’America, in realtà veri e propri linciaggi a danni dei neri. Il peggiore è datato 1917. Sono quasi dieci anni prima della nascita di Miles, ma l’eco di quei fatti era ancora presente.
Nel 1944, quando aveva 18 anni, Miles Davis ha scoperto il jazz moderno, la musica che gli ha cambiato la vita, grazie all’arrivo a St. Louis della band di Billy Eckstine dove c’erano Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Il terzo trombettista dell’ensemble s’ammalò e venne chiamato a sostituirlo lui, che già suonava da solo e in gruppo.
Dopo due settimane di esibizioni a St. Louis, Davis desiderava andare in tour. I genitori lo frenarono, ma nel settembre 1944 gli permisero di andare a studiare musica classica alla Juilliard di New York. Di giorno frequentava le lezioni, di sera si faceva le ossa nei club della città arrivando a debuttare su disco nel maggio 1945, accompagnando il cantante blues Rubberlegs Williams.
A volte condivideva la stanza col suo punto di riferimento musicale Charlie Parker. Non è però stato quest’ultimo, la cui dipendenza dalle sostanze è leggendaria, a far conoscere le droghe a Davis come si dice. Aveva già provato la marijuana (che fumava raramente), l’eroina (di cui sarebbe stato presto dipendente) e la cocaina (una delle sue passioni più in là nel tempo). E però Davis aveva un carattere troppo forte per sopportare le umiliazioni e le incertezze della vita da tossico. Ha smesso con l’eroina nel 1954 e a metà degli anni ’80 anche con cocaina e alcol.
Ha mollato la Juillard per unirsi al quintetto di Parker verso la fine del 1945. La prima registrazione da leader risale al 14 agosto 1947, con Parker che lo accompagnava al sax tenore (e non all’alto). Le composizioni di Miles suonate in quelle session, Half Nelson e Milestones, erano più audaci dal punto di vista armonico di gran parte dei pezzi di Parker. Sono ancora considerati classici jazz.
Nel 1948 ha messo in piedi un gruppo di nove elementi per suonare pezzi ricchi, dalle tessiture quasi orchestrali. I musicisti della band, in cui suonava il sassofonista Gerry Mulligan e che eseguiva due composizioni arrangiate da Gil Evans, era per lo più bianchi. perché nelle interviste parlava dei problemi razziali in modo tanto diretto da sembrare arrogante e per alcuni persino razzista al contrario. Quando però si trattava di reclutare i musicisti non badava al colore della pelle. Molte sue band post 1980 erano miste.
La prima volta che ha «cambiato la musica» è stato con Birth of the Cool, ma all’epoca non gli portò grandi soldi. Per lungo tempo ha registrato e si è esibito cerdando al contempo di liberarsi dalla dipendenza dall’eroina. Nel 1954, con la roba ormai alle spalle, ha effettuato registrazioni importanti con Sonny Rollins, Thelonious Monk e altri grandi del jazz. In quello stesso anno ha cambiato la musica (di nuovo) con Walkin’: messe alle spalle le tessiture serene e vitree della sua band cool, si dedicava ora a un linguaggio sonoro più caldo e basato sul blues che presto avrebbe dato origine all’hard bop, uno degli stili jazz più importanti negli anni ’50 e nei primi ’60.
Nel 1955 ha messo assieme un’altra band fondamentale, il quintetto col giovane John Coltrane. Nel corso di due session-maratona il gruppo ha registrato materiale sufficiente per vari album poi pubblicati dall’etichetta Prestige. L’ultimo, ‘Round About Midnight, uscì per la Columbia, che è stata per anni l’etichetta di Davis prima del passaggio alla Warner a metà anni ’80.
La svolta successiva è arrivata a metà anni ’60 con l’aiuto di un quintetto formato con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Tony Williams e Ron Carter. La musica era al tempo stesso una reazione e un’alternativa al free jazz che andava forte all’epoca. La struttura tradizionale e la pulsazione ritmica regolare non erano annientate, ma erano plasmate in modo impressionante. Il quintetto rimane alla base dell’opera di tanti musicisti. I primi album di Wynton e Branford Marsalis gli devono parecchio.
L’amicizia con Hendrix, Sly Stone e altre rock star degli anni ’60 gli fece venire voglia di mettere in piedi «la rock band più cazzuta al mondo». La fase jazz-rock iniziò con le tastiere elettriche e le tessiture di In a Silent Way. Ma con l’aiuto di nuovi musicisti come il chitarrista John McLaughlin, Davis tornò a fare musiche più calde negli album Bitches Brew e Jack Johnson. Ovviamente ai vecchi critici jazz questi dischi non piacevano, ma non potevano negare l’impatto sonoro devastante della band di metà anni ’70.
In album come Agharta, Pangaea e Dark Magus c’erano due, a volte tre chitarristi elettrici. Alienarono il pubblico jazz, ammiccando ai suoni del punk-rock e del post punk. Dark Magus è il più estremo di tutti e in America non è ancora ancora pubblicato, una svista incomprensibile dal parte della Columbia (è poi uscito anche negli Stati Uniti, ndr). Pur essendo un disco d’importazione, dal Giappone, ha influenzato musicisti rock come il chitarrista Robert Quine (uno che ha suonato con Richard Hell e Lou Reed) e i pionieri del punk-funk James Chance and the Contortions.
Nel 1975 Davis si è ritirato per cinque anni. Aveva problemi di salute, tra cui lesioni all’anca e alla gamba che gli procuravano dolori pressoché costanti. Nell’autobiografia scritta con Quincy Troupe, definisce questo periodo cupo quasi quanto quello da tossico. Lasciò da parte lo strumento. Nel libro nota che il sesso e la droga avevano preso il posto che la musica aveva occupato nella sua vita fino ad allora: «Li facevo entrambi 24 ore su 24». Gli amici pensavano che non avrebbe mai ripreso a suonare, eppure nel 1980 tornò con un disco, The Man With the Horn, e una band nuova.
Ha continuato ad andare in tour, fino alla scorsa estate, a un ritmo notevole. S’è fermato quando, a inizio settembre, è stato ricoverato al St. John’s Hospital and Health Center di Santa Monica, California. Secondo il suo medico, Jeff Harris, aveva la polmonite, soffriva di insufficienza respiratoria, ha avuto un ictus. È morto in ospedale.
La storia non ha ancora emesso una sentenza sui dischi pubblicati dopo il grande ritorno degli anni ’80. Giudicarli oggi sarebbe prematuro. Del resto, la musica di Miles che all’inizio degli anni ’70 molti giudicavano troppo semplice e caotica ha assunto poi un grande significato con l’avvento della no wave, dell’industrial, del rock chitarristico dei Sonic Youth. C’è chi ha conosciuto Miles grazie a dischi anni ’80 come We Want Miles, Tutu e Siesta: per loro sono registrazioni importanti, in alcuni casi fondamentali.
Negli ultimi cinquant’anni non c’è un altro jazzista che ha portato a casa più elogi, critiche, donne, soldi e rispetto dei colleghi. È uno a cui sarebbe piaciuto avere l’ultima parola.
Eccola, tratta da Miles, il testamento più coraggioso e onesto che un gigante della musica americana ci abbia lasciato: «Il mondo è un continuo cambiamento. La gente che non cambia si troverà come i musicisti folk, a suonare nei musei e conosciuti solo dalla gente del posto. La musica e i suoni sono diventati internazionali e non ha senso cercare di tornare indietro. Un uomo non può tornare nel grembo di sua madre».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.