Allora: iniziamo subito a mettere le cose in chiaro. Seguiteci in questa lunga premessa, è necessaria. La portata simbolica del Cocoricò è qualcosa di assolutamente unico, nel panorama italiano, perché anche chi non c’è mai stato, nella discoteca riccionese, quando la sente nominare pensa subito a un certo tipo di contesto, a un certo tipo di situazione, a un certo tipo di realtà sopra le righe. Vero? Probabilmente capita pure a voi, che state leggendo queste righe. C’è sempre una robusta dose di verità in tutti i luoghi comuni; e sì, questo principio vale anche anche in questo caso. Dagli anni ’90 ai primi anni del nuovo millennio – ovvero nella fase uno della sua storia più che trentennale – il Cocoricò è stato davvero la discoteca più estrema, più creativa, più arty e spesso la più brutalmente selvaggia dell’epoca, fra i grandi santuari del clubbing mondiale. Sì. Lo è stato eccome. Punto.
Nella sua seconda vita invece, dopo che la prima fase ha iniziato a sfarinarsi e ad avere debiti che diventavano sempre più grossi rispetto alle idee e alle trovate estreme, c’è stata la calata della cordata in arrivo da Roma (i creatori del marchio Diabolika, altra faccenda molto popolare e bella hardcore nei territori della capitale in quanto a ballo) e ciò che è stato fatto è stato altro: è stato rafforzare l’idea di Cocoricò come “forza” più che come come “creatività”. Il Cocco è diventato il posto delle serate sempre strapiene. Dei nomi più grandi, dei nomi più famosi (anche quelli dell’allora nascente scena EDM, una scena disprezzata dal pubblico storico del santuario riccionese: ma questa scelta ha evitato al marchio Cocoricò di morire per mancato ricambio generazionale). Insomma: un super-club. Il posto dove sai che vanno a suonare i migliori e punto, ti basti questo e non ti mettere a fare altre domande e farti venire altri dubbi, perché non c’è nulla al di sopra del Cocoricò (e non a caso il tema di una delle stagioni più fortunate di questa seconda fase fu proprio Religion, con tanto di immaginario biblico e messianico nella comunicazione: tutto torna).
Non è che questa seconda fase avesse tradito e violentato l’idea originaria, attenzione, come molti sostengono; o almeno, non è stato del tutto così. È una interpretazione troppo semplicistica. È vero che nel “primo” Cocoricò, quello entrato nella leggenda, c’era il Morphine, c’erano i set lisergici sofisticati e bellissimi di David Love Calò, c’era NicoNote – reginetta della new wave anni ’80 – a fare da padrona di casa, e con lei i cori tibetani, i dj più atipici e ricercati, Arto Lindsay che fa set di chitarra noise mentre attorno a lui trans e travestiti cucinano spaghetti per tutti, Enrico Ghezzi che declama e delira per tre ore di fila fino a quando il radiomicrofono non gli si spegne per batteria esaurita; e poi ancora il meglio del teatro d’avanguardia dell’epoca, sia tra il pubblico che come performer assoldati per avere idee fulminanti per l’animazione, sotto la visionaria guida del geniale direttore artistico Loris Riccardi (tipo: attori seminudi ricoperti d’insetti rinchiusi in teche trasparenti, o ricoperti di sangue finto ed appesi in giro come fosse carne da macello), oppure ancora la scrittrice Isabella Santacroce a fare l’anima mefistofelica per i più introdotti.
C’è stato questo, sì, e ci sono state mille altre cose simili ancora: chi c’era e chi aveva le conoscenze e le introduzioni giuste lo sa. Ma tutta questa componente è sempre stata la schiuma mediatica che serviva a costruire il marchio, qui stava la sua funzione, non altrove. Una schiuma bellissima, strepitosa, epocale, leggendaria, iconoclasta, stupenda, ok; ma pur sempre schiuma. Una schiuma che era al servizio dell’essenziale: ovvero riempire la Piramide – la sala più grande e spettacolare – come un uovo, costi quel che costi, e popolare il Titilla – la sala più elegante e più morbida nei suoni – di “bella gente” in grado di avere anche un bel portafoglio quando era il momento di fare la fila al bar. Punto.
La verità? Non è che in Piramide, per quanto si amassero i suoni techno e trance più duri e i resident (Cirillo, Saccoman, il compianto Ricci) abbiano fatto un lavoro strepitoso, ci fosse la musica più estrema o bizzarra del clubbing dell’universo mondo; né si può dire che il Titilla avesse qualcosa di particolare rispetto ad altre discoteche di buon livello sparse per l’Italia. L’intuizione di Loris era stata il mettere in campo l’eccentricità e le scelte bizzarre non (solo) come valore in sé, ma anche e soprattutto come specchietto per le allodole per il consumatore standard: perché il vero business stava comunque nel catturare quest’ultimo.
Il gioco stava in piedi non con le raffinatezze, ma coi tamarri in canottiera (oppure le loro fidanzate d’assalto). Così come stava in piedi coi wannabe fighetti e fighette e con quelli che il grano ce l’avevano davvero, ed erano ben contenti di spenderlo in discoteca. Il resto c’era, la componente folle c’era, ed era pure autentica e fatta da persone incredibili, ma era sempre funzionale al risultato finale. Aveva funzionato, questo sistema. Eccome. Il Cocoricò nel mito e come leader assoluto del mercato c’è entrato subito, e c’è rimasto per un bel po’. Si parlava delle eccentricità, ma si facevano i soldi con le migrazioni da tutta Italia di gente a cui dell’eccentricità importava il giusto – era al massimo la certificazione che “in quel posto lì” si poteva fare di tutto e spingere sul pedale del gas, allegramente, euforicamente. Smodatamente. E ben poco culturalmente.
La gestione successiva ci ha dato un taglio. Ha scelto di sfrondare tutta la parte artistica ed intellettualoide: un po’ perché non gliene fregava granché, un po’ perché lo considerava un investimento ormai infruttifero, e come dargli torto. Il mito Cocco c’era già sotto quel punto di vista, inutile insisterci ancora; il messaggio era giunto a destinazione ed era nell’immaginario collettivo. In quel momento, a partire da metà dei primi 2000, bisognava più che altro dimostrare di essere i più forti non solo nelle idee ma anche e soprattutto nella lotta di mercato su chi ce l’ha più lungo (il cachet del dj). Scelta coerente e anzi necessaria se si voleva restare un’eccellenza, visto che il clubbing e la club culture erano diventati proprio in quegli anni delle macchine industriali al 100%, basta poesia e cazzate insomma (se non a parole…), perdendo sempre più le caratteristiche di unicità e alternatività che li avevano invece caratterizzati alla nascita con la fase dell’acid house inglese a fine anni ’80 e con l’avvento della techno, dei rave e della TAZ in Europa. Bei ricordi. Presto rimpiazzati sempre più dalla necessità di essere imprenditori (e, per il pubblico, di essere disimpegnati e spensierati consumatori, senza rischi inutili da correre).
Ma se questa scelta della nuova proprietà “diabolika” aveva un suo perché e delle giustificazioni pratiche (leggi: probabilmente era una scelta obbligata, non c’erano molte alternative), è vero che è stata col senno di poi anche una condanna, un capestro. Già. Perché a un certo punto il Cocoricò si era attaccato appunto solo e unicamente alle dimensioni: solo a quelle. Peccato però che per stare in quel gioco bisognava competere con soldi veri, soldi che non c’erano più o non erano più così tanti (i capitali e gli interessi del pubblico si spostavano sempre più verso i festival invece che verso i club e le discoteche; poi, i maggiori controlli fiscali da un lato e i fitti controlli stradali dall’altro avevano dimezzato i proventi da bar e similari, sballando ogni business plan vecchia maniera).
Sono arrivati così al Cocoricò gli scricchiolii, e belli forti: ad esempio anno 2014 un misterioso furto della cassaforte dentro la sede della società, furto dalle dinamiche strane e un po’ improbabili, che a lungo è stata la scusa per non pagare le fatture alle agenzie di booking che portavano gli artisti; oppure ristoranti e alberghi e fornitori vari della zona che iniziavano a non essere pagati, sempre di più, sempre più spesso. Tutto questo fino al tonfo fragoroso finale, fino al fallimento. Fallimento che dalla proprietà di allora – era rimasto alla fine un uomo solo al comando, che a un certo punto per tentare di recuperare i favori del comprensorio si era anche accollato la proprietà di un Rimini Calcio gonfio di debiti, venendone travolto – è stato attribuito alla chiusura punitiva e forzata per mesi e mesi da parte della autorità dopo il tragico evento della morte di un sedicenne in seguito a un malore da assunzione di MDMA. In realtà per quel Cocoricò il collasso era appunto qualcosa che stava già accadendo, che era scritto nel destino. I segnali del declino (ed erano tanti…) erano stati però ignorati per volontà di potenza e per la convinzione, molto da gioco d’azzardo, che prima a poi sarebbe arrivato un colpo gobbo a rovesciare il destino e a rimettere il tutto sulla giusta, euforica direzione degli anni d’oro. Ovviamente non è stato così.
La fine di questa seconda fase è stata progressivamente ingloriosa. Appunto: sempre più fatture non pagate, dispute imbarazzanti (Gabry Ponte – sì, quello degli Eiffel 65 – che ottiene il pignoramento dei marchi per debiti pregressi non pagati di oltre 200 mila euro…), una crescente disaffezione del pubblico (simboleggiata da un Richie Hawtin che negli anni d’oro faceva 7000 paganti minimo, e invece nell’ultima sua esibizione sotto la Piramide ne radunò poco più di 2000, tra la desolazione generale, anche se nel frattempo il suo cachet era quintuplicato: chiaro che salta tutto per aria). Ma anche un Cocoricò così agonizzante, anzi, tecnicamente proprio morto e dead club walking, continuava a fare gola. Troppo forte come simbolo. Troppo iscritto nell’immaginario collettivo. Troppo capace, almeno potenzialmente, di generare cash flow gigantesco. Troppo iconico per tutto l’immaginario della riviera romagnola degli ultimi decenni, per anni il vero avamposto di modernità, di capacità di saper parlare alle generazioni più giovani.
Falliti gli ultimi tentativi della gestione “romana” con una stagione del trentennale partita nel 2018 fra proclami e chiusa fra i buchi, terminate le danze, con la Piramide e tutto il resto della struttura lasciato in stato di progressivo ed inevitabile abbandono, si è scatenata un’asta che ha visto un vincitore: Enrico Galli, stimatissimo imprenditore della zona già nel settore del divertimento notturno (suo anche l’Altromondo Studios), che facendosi aiutare economicamente da un socio in arrivo dalla Lombardia e con investimenti forti a Firenze – Antonella Bonicalzi, figlia del fondatore della discoteca Nautilus di Cardano al Campo, chi abita a nord di Milano lo ha sentito ben nominare di sicuro – ha buttato sul piatto un mare di investimenti per riprendere la gestione del locale e anche le proprietà dei marchi Cocoricò, Piramide, Titilla, Morphine, Ciaosex (perché il Cocco era così leggendario che pure i nomi delle sue singole sale erano un valore aggiunto, commercialmente parlando; ricomprarseli è costato cifre a cinque zeri). Sullo slancio e su input del suo plenipotenziario operativo, ha fatto shopping anche sulla sponda opposta, rilevando in Toscana la Bussola di Viareggio, il Tinì a Cecina, la Barcaccina nel livornese. Tutti posti con una storia, tutti posti bisognosi di investimenti e nuove energie. Galli e l’intera sua struttura si sono buttati, parliamo di cifre che superano agilmente i due milioni di euro e puntano anzi verso i tre: e l’hanno fatto quando ancora una pandemia era inimmaginabile, nelle nostre vite e nelle dinamiche dell’intrattenimento notturno. Una pandemia che è arrivata ad incasinare la vita e le economie di tutti.
Ecco. Se finora siamo stati sulla premessa e sul contesto, e non sul racconto in sé di com’è e come sarà il “nuovo” Cocoricò dopo averlo visitato nel weekend della sua riapertura come abbiamo effettivamente fatto, è perché questa premessa e l’intero contesto sono assolutamente fondamentali nel capire la portata della scommessa in corso. Non è solo una discoteca che riapre, per quanto importante; no, è la realtà più importante – e quella coi danni più ampi da sanare – di un settore però già di suo da un bel po’ in crisi strisciante & pesante (ne parlano ormai anche i documentari, non è solo una speculazione da bar la nostra).
Insomma: sul Cocoricò si concentrano portate simboliche enormi, economie reali, interessi politici (la riviera romagnola vive sul turismo), anche la possibilità di dimostrare che una realtà in crisi ha la capacità, in Italia, di risorgere, riformarsi, rimettersi in carreggiata, tornare a primeggiare. Dato che da anni ci stiamo silenziosamente assuefando all’idea che il declino sia inevitabile, e i pesci grossi di un settore – di un qualsiasi settore – si possono salvare unicamente (s)vendendo gli asset a chi arriva da fuori Italia (ciao, famiglia Agnelli!). Ok, il Cocoricò non è la Fiat – pardon FCA, anzi, ri-pardon, Stellantis – ma tanto per darvi un’idea è una macchina che a regime dà lavoro, in una sera, a 200 persone circa. Per non parlare dell’indotto.
Il problema qual è? Il problema, e qua torniamo a quello che si diceva all’inizio, è che ancora oggi dal Cocoricò si aspettano sempre le follie, le scelte controcorrente, il tremendismo, l’esagerazione, l’estremo. Ecco che quindi c’era chi favoleggiava – e la stessa direzione artistica del nuovo Cocco ha strizzato l’occhio, in modo astuto e paraculo – a un ritorno agli anni d’oro, all’arte, alle provocazioni. Ma puoi veramente farlo ora che gli interessi in campo e le sfide finanziarie sono così pesanti? Puoi farlo nel 2021, quando i soldi e la gente vanno sempre più a ballare ai festival tre volte all’anno e non nei club ogni weekend, mentre negli anni ’90 era l’esatto contrario visto che i festival in Italia manco c’erano e le low cost per volare per l’Europa nemmeno?
La risposta arriva da sé. Ecco che quindi attorno a questa riapertura del Cocoricò va tolta ogni retorica troppo immaginifica e bisogna invece concentrarsi su cose poco poetiche, ma concrete: il posto non è stato stravolto, la Piramide ha più o meno sempre la stessa disposizione degli spazi (la grossa pista centrale, mentre i tavoli e il servizio “premium” ha conquistato anche la balconata più alta e non solo quella a favore di vetrate), il Titilla è stato ridotto di un terzo, il Morphine non c’è più, e per quanto riguarda spazi nuovi nella zona esterna bisogna aspettare la bella stagione e vedere come butta. Non ci sono azzardi architettonici o trovate wow, ma è stato fatto un certosino lavoro di ristrutturazione delle cose più ovvie: la struttura stessa della Piramide (che prima sempre più era fatiscente e soggetta a ruggini ed infiltrazioni), le vetrate, i bar, i bagni. Due milioni di euro sono andati via così. Sono andati via anche nel garantire un impianto luci senza particolari trovate originali o assurde ma robusto e ben disegnato, e in un impianto audio che non è proprio allo stato dell’arte (e nelle riaperture del giovedì e venerdì solo ad inviti era tutto ancora da tarare, andando meglio il sabato per l’apertura “vera”) ma che comunque garantisce sufficiente forza e pressione sonora.
L’azzardo più grande, e la scommessa più interessante, è stato l’andare alla prova dei fatti un po’ contro il luogo comune di se stessi, per quanto riguarda la musica (e di conseguenza il tipo di pubblico che riempie il dancefloor): l’idea cioè è quella di essere molto più morbidi nella grande Piramide, basta techno e spazio alla house e tech-house di stampo più Ibiza, confinando invece le sonorità da dancefloor più dure e senza compromessi al Titilla, ora T-Room, un Titilla non solo rimpicciolito rispetto al passato ma parecchio scarnificato e tinto di nero. Un tempo il grosso del Cocoricò pulsava in Piramide ed era per chi voleva esagerare per una sera arrivando al limite dell’adrenalina, dell’impatto, dello sforzo fisico, mentre il Titilla era la riserva più signorile e posata. Ora i ruoli si sono invertiti.
La Piramide vuole essere meno un unicum e più una riproposizione in grande di ciò che succede da anni ad Ibiza. Clubbing ad alta professionalità ed imprenditorialità, con quindi un pubblico un po’ più generalista e pure un po’ più femminile. Se invece vuoi la techno, vuoi l’estremo, vuoi la cassa e le frequenze basse che ti penetrano nel corpo mentre sei circondato dalle luci e dal nulla, allora accomodati in T-Room: ma c’è spazio per te ed altre 300 persone, non di più. In tutto questo, che sia techno o sia tech-house, è finita l’era dei grandi nomi sempre-e-comunque (se uno guarda le pagine Facebook o Instagram del Cocoricò leggerà molte lamentele sulla line up della riapertura per la sua supposta debolezza), perché questi grandi nomi sapendo di essere desiderati sempre-e-comunque ormai chiedono cifre fuori mercato, a meno che tu non sia un festival con tutte le economie di scala conseguenti o uno sceicco pronto a dilapidare petrodrollari a fondo perduto. Il Cocoricò lancia un segnale importante: amici, bella lì, bravi tutti, ma noi certe cifre non ve le diamo più. Proviamo a vivere anche senza di voi. Tanti saluti.
La pandemia in questo è stata ed è un alleato: tanto quanto ha rischiato di mandare a gambe all’aria l’investimento attorno alla riapertura del locale, rinviando la ripresa delle operazioni di oltre un anno e mezzo ad esposizione finanziaria già in corso, altrettanto ora permette di seguire una strategia decisa, coraggiosa. La gente in questo momento ha una voglia clamorosa di ballare e, pur senza grandi nomi, ha già fulminato in prevendita i biglietti sia per le prime date “normali” (la riapertura appena avvenuta, e poi un altro appuntamento a dicembre) che per la data-revival (le serate a nome Memorabilia, dove fare finta che sia ancora il 1993 anche se in realtà sono passati quasi trent’anni), con quest’ultima addirittura raddoppiata (e anche il raddoppio, fissato per la sera di Natale, è scontato vada sold out). Non solo: la voglia di ballare ha anche permesso di digerire senza scompensi la svolta “morbida”in Piramide (dove il set d’apertura è stato affidato ad una dj italiana nemmeno particolarmente quotata secondo i canoni commerciali del mercato, Matisa, che ha fatto un lavoro strepitoso).
Il resto ce l’ha messo la nuova gestione, non particolarmente glamourous o arty ma armata di abaco e buon senso: basta cazzate, basta sprechi, conti sotto controllo, personale rinnovato e molto ben istruito, basta via libera agli eccessi sotto gli occhi di tutti (che all’inizio diverte, ma poi porta all’ingestibilità), grande attenzione – anche con metodi forzati e onestamente pre-moderni, ma è l’Italia ad essere ancora pre-moderna, non il Cocoricò – a riequilibrare i generi in pista. La tanto criticata scelta di mettere il biglietto per la donna a quasi metà rispetto al costo di quello uomo e il fatto di imporre, in sede di prenotazione tavoli, una presenza mista uomo-donna, ha portato a una presenza quasi paritaria fra i due generi, a partire dalla Piramide. Chi al Cocoricò c’è stato, ed è onesto, lo sa: è un dato quasi incredibile, guardando agli ultimi dieci anni di vita del locale. Poi chiaro, in un mondo migliore mettere il “ridotto donna” è un cascame del passato che solo gli sfigati di provincia possono ancora mettere in campo nel 2021; e il fatto di proibire l’ingresso alle donne sotto i 18 anni e gli uomini invece sotto i 20 è una scelta assurda. Ma nel mondo reale queste sono scelte che servono a riequilibrare la demografia di un club – e quindi il clima che vi si respira – ed anche ad evitare i problemi, perché statistiche alla mano i problemi maggiori nella storia del Cocoricò, soprattutto di quella dell’ultimo decennio, sono arrivati dai minorenni e dai maschi appena maggiorenni.
Ci vorrebbe la sfera di cristallo – e non ce l’ha nessuno, a maggior ragione in momenti di varianti pandemiche emergenti sempre dietro l’angolo – per capire come andrà a finire, se questa nuova gestione della discoteca più iconica d’Italia (ed unica delle più iconiche al mondo) riuscirà nel miracolo anticiclico di tornare a primeggiare e mietere successi o se invece sarà un eroico e drammatico tentativo di invertire una storia già scritta. Una cosa è certa: il Cocoricò è un’eccellenza storica globale in un campo, quello del clubbing e del ballo, dove l’Italia è stata all’avanguardia nel mondo attorno agli anni ’90. La scommessa in cui s’è buttato è da seguire con attenzione, è da seguire con partecipazione. Anche se tutto ciò che rappresenta il Cocoricò (e la domanda è: lo rappresenta ancora?) vi fa schifo. A maggior ragione invece se un po’ ci siete affezionati, e l’idea di emozionarsi andando a ballare ascoltando musica non pop e non “addomesticata” vi scalda ancora un po’ il cuore – anche senza l’ausilio di additivi.