Quando la sera del 13 maggio del 1988 un passante trova il corpo ormai privo di vita di Chet Baker in una strada nel cuore del Red Lights District di Amsterdam, il trombettista, una delle stelle più lucenti della storia del jazz, è appena precipitato da una finestra del quarto piano del Prins Hendrik Hotel, l’albergo che aveva scelto per la sua permanenza in città, dove si trovava per una serie di concerti. Quella sera avrebbe dovuto suonare con il sassofonista Archie Shepp, altro nome di punta della scena jazz internazionale, ma nel club in cui lo aspettavano impazienti musicisti e pubblico, Chet Baker non è mai arrivato.
Una volta confermata la sua identità, le ipotesi più accreditate dagli investigatori per la causa della morte erano, fin dall’inizio, la caduta accidentale o il suicidio, ma non si potevano naturalmente escludere un incidente dovuto a un’overdose di eroina – si sapeva che Baker era un tossicodipendente – o un omicidio. Quale fosse la causa, la cosa certa era che il jazz aveva perso troppo presto uno dei suoi interpreti più lirici, intensi e poetici, un artista che grazie alla musica era riuscito ad arginare, anche se solo parzialmente, i demoni che vivevano in lui.
Gli ultimi tre giorni di vita del grande Chet Baker rivivono in Jazz Noir – Indagine sulla misteriosa morte del leggendario Chet, il bel film di debutto del 37enne regista e sceneggiatore olandese Rolf van Eijk (in originale, My Foolish Heart, ndr). Nelle sale italiane per soli tre giorni (22, 23 e 24 novembre, qui l’elenco dei cinema), Jazz Noir è una minuziosa e appassionata ricostruzione delle ultime tormentate ore del musicista e delle indagini che hanno seguito la sua morte. Fra l’ennesimo amore appena finito e la spasmodica ricerca dell’eroina, il film in poco più di 80 minuti fotografa alla perfezione il percorso di un uomo perennemente in bilico fra una quotidianità difficile, talvolta infernale, e la creazione di una musica sublime dai contorni quasi celestiali.
L’eroina, l’unica cosa insieme alla musica che riusciva a placare momentaneamente la sua inquietudine e la sua irrequietezza, è comparsa nella vita di Baker a partire dal 1955, anno in cui il trombettista, allora già nell’olimpo delle stelle del jazz, rimase scioccato dalla morte per overdose, ad appena 24 anni, di Dick Twardzick, il pianista della sua formazione. È più o meno da allora che l’eroina è diventata parte integrante anche della sua vita e sua inseparabile compagna di viaggio.
È un episodio, quello di Twardzick, che nel film viene citato, così come viene raccontato il modo naturale, quasi senza alcuna preparazione, con cui Chet da un certo punto della sua carriera ha affrontato, anche nei suoi ultimi giorni olandesi, i concerti nei club, che preferiva ai grandi spazi, o le sedute di registrazione.
Quando arrivava in sala, Baker poteva cambiare sul filo di lana la scelta del brano da incidere, decidendo sull’onda emotiva del momento e spiazzando spesso gli stessi musicisti che si erano preparati per suonare altro. Con loro era molto esigente, talvolta anche duro, e non c’era mai nulla di scontato, le cose potevano cambiare da un momento all’altro, a seconda dell’ispirazione, come solo ai veri artisti è concesso fare. L’importante per lui era suonare, suonare, ancora suonare e farlo sempre con swing. Ci riusciva, in qualsiasi condizione si trovasse: la sua era una musica evocativa ed espressiva davvero come poche altre.
Tutto questo il film di Van Eijk lo racconta in modo brillante, sullo sfondo di una Amsterdam sfuggente, notturna, cupa, dalla quale, con un abile montaggio, può spuntare fuori d’improvviso il primo piano di un pusher che in un vicolo degradato della città, sulle note di Imagination, uno dei classici del repertorio di Baker, inchioda al muro il musicista chiedendogli brutalmente i soldi che gli deve entro 24 ore altrimenti sono guai seri.
Sono i guai seri con cui Chet ha avuto a che fare per gran parte della sua vita e di cui ha portato per sempre i segni, da quando nel 1968 a San Francisco fu pestato da un gruppo di spacciatori che gli spaccarono tutti i denti proprio per delle dosi di eroina non pagate.
La pista dell’eroina e di una possibile vendetta per non averla pagata è quella che nel film il detective Lucas (il bravo Gijs Naber) segue con una certa convinzione, senza però trascurare quella legata al suicidio per una delusione d’amore causata dall’abbandono di Sarah (l’attrice Lynsey Beauchamp), l’ultima delle donne di Baker, innamorata del suo animo gentile, della sua intelligenza viva, della sua amara ironia e del suo talento, ma provata da un carattere così difficile e tormentato.
Il film, nato soprattutto dalla grande passione del giovane regista per la musica di Baker, non può fornire risposte, ma indaga sull’animo di Chet e sulla sua personalità dalle molteplici sfaccettature. Non deve essere stato facile scegliere il ruolo di protagonista per un film del genere. Ci sono stati diversi provini, ha raccontato il regista, ma la scintilla è scoccata subito soltanto guardando all’opera Steve Wall, attore irlandese e frontman delle band Walls e Stunning, abilissimo poi, una volta scelto, a calarsi nella parte dell’artista tutto genio e sregolatezza e anche notevole nell’impresa quasi impossibile di riprodurre il tipico canto di Baker.
Non è scontato cogliere nel segno quando ci si cimenta con le biografie dei grandi personaggi della musica, si rischiano anche cadute rovinose. Van Eijk ha fatto centro grazie all’originalità con cui ha trattato la storia, per la scelta azzeccata dell’attore e per l’escamotage narrativo con il quale ha affidato al detective che indaga sulla morte di Baker il ruolo di co-protagonista, anche lui alle prese con diversi problemi esistenziali.
Lucas cerca indizi, interroga amici, conoscenti e potenziali sospetti, porta avanti la sua indagine dolorosa e complessa, ma, allo stesso tempo, lentamente e inesorabilmente, scopre soprattutto la bellezza delle canzoni che Chet ha fatto sue e reso immortali. My Funny Valentine, My Foolish Heart, Everytime We Say Goodbye. Un po’ di paradiso in mezzo a tanto inferno.