Trent’anni di musica militante. Li festeggiano i 99 Posse quest’anno: la nascita ufficiale del gruppo di Curre curre guagliò risale al 9 ottobre 1991, l’anniversario esatto sarà tra alcuni mesi, ma nel frattempo la band oggi composta da Luca “’O Zulù” Persico, Marco Messina e Massimo Jovine si è messa al lavoro e il risultato è il nuovo singolo Comanda la gang, uscito il 3 aprile, a cinque anni dall’ultimo album d’inediti Il tempo. Le parole. Il suono. «E non è che il primo atto di un anno che ci vedrà attivissimi», dice ‘O Zulù, 50 anni, alle spalle un percorso che oltre che con i 99 Posse, tra uno scioglimento e una reunion, lo ha visto impegnato con i progetti Al Mukawama e BiscaZulù e in alcuni lavori solisti. «La cosa assurda è che a fine 2019 avevo annunciato per il 2020 il Ramm’ Semp’ ‘n Faccia Live, dal titolo del mio ultimo singolo, una canzone che avevo deciso di non pubblicare proprio perché l’idea di fondo era di farla ascoltare solo in concerto. L’idea era che certe cose si possono apprezzare solo dal vivo».
E invece è scoppiata la pandemia.
Già, infatti l’ho presa male. E alla fine lo scorso giugno, dato che il Covid ormai mi aveva rovinato i piani, l’ho pubblicata, quella canzone. Anche se senza promuoverla, senza nemmeno prendere un ufficio stampa. Ero amareggiato, poi per fortuna a luglio ho ripreso a sentirmi con gli altri 99 Posse, con cui avevo in programma di ripartire con un tour dopo qualche anno di assenza dalle scene.
Perché con un tour?
Perché siamo fatti così, quando ci ritroviamo pensiamo subito ai concerti, prima che a incidere qualcosa: è da lì che abbiamo sempre tratto ispirazione, non dai giornali o dai post su Facebook, ma dai tour, dalla strada, dagli incontri, dalle soste in autogrill, dai backstage, dai pomeriggi di soundcheck, dalle persone. Ma insomma, essendo che il tour era diventato impossibile, abbiamo deciso di cominciare a smuovere le cose in altro modo, ossia mettendoci a scrivere e a lavorare su nuovi pezzi. Io ero restio, a dire il vero.
Come mai?
Sentivo che mi mancava completamente l’ispirazione. Che poi, però, è tornata. Sarà per l’energia della sala prove, sarà che vedevo i miei soci discutere del suono di un rullante come se fosse stata la cosa più importante del mondo, fatto sta che l’umore è migliorato. Ed è stato allora che si è profilata davanti a noi una crisi di governo che pareva una barzelletta: il Conte ter, i responsabili, i cambi di casacca… Sembrava di rivivere un incubo che avevamo già vissuto e combattuto, un incubo che ci lasciava tra lo sbigottito e il preoccupato, ma con un fondo d’ilarità, e queste cose sono diventate Comanda la gang. Perché dopo un po’ che vedi tutti quei politici passare da uno schieramento all’altro ti viene anche da ridere, per questo il singolo è così ironico. Pensa che all’inizio lo avevamo intitolato proprio Conte ter, ma poi ha vinto l’ipotesi più assurda, quella del “tutti dentro”.
Quella della gang, come la chiamate, composta da Mattarella, Draghi, Salvini e Renzi, citando i quattro politici ritratti da Davide Toffolo per la cover del singolo.
Sì, ma nel brano ci sono anche Di Maio e Zingaretti, che è diventato lo “zingariello” (ride). Letta non l’avevamo previsto, ma il punto è: è come se tutti questi politici ci avessero detto che finora hanno scherzato, che finora hanno solo fatto finta di avere visioni della società diverse l’una dall’altra.
Tu invece cosa vedi?
Ormai è evidente che nessuna delle forze politiche italiane che abbiamo in Parlamento ha mai messo veramente in discussione il modello di sviluppo su cui si basa la nostra società, quello basato sull’idea di un’Italia-azienda che campa grazie al lavoro dei suoi operai. Ecco, preferiremmo godere delle conquiste degli antichi greci ed essere considerati cittadini anziché operai. Che poi è il senso della nostra storia come band, oltre che di questo nuovo pezzo, che dal punto di vista della scrittura mi riporta molto ai primi 99 Posse: mentre seguivo il mio flusso di coscienza per buttare giù il testo non cercavo la profondità politica, né un messaggio risolutivo, ci tenevo solo a sottolineare la mia profonda distanza dalla realtà circostante con un tono anche ridanciano. È come se fosse un vecchio testo raggamuffin degli anni ’90, mentre la musica… per me è punk.
Termine fuorviante, fate tutt’altro genere: a cosa ti riferisci?
A un modo di pensare, alla volontà di dissacrare, di stravolgere con irruenza i limiti del consentito, di mischiare cose che non c’entrano l’una con l’altra. Sì, in questo momento della mia vita mi considero un vecchio punk, così come 30 anni fa mi sentivo un giovane punk. Uno che trova stretto quasi ogni ambito, che non si allinea mai, che cerca sempre di sgomitare fuori dalle definizioni, dalla strumentalizzazione, e che quest’attitudine la riversa nella musica. Perché anche i generi mi sono sempre stati stretti, il che vale per i 99 Posse in generale: non siamo mai riusciti a fare un pezzo solo reggae o solo raggamuffin o solo hip hop, i puristi ci criticavano, ma la nostra idea era di mescolare tutte le influenze che ognuno di noi portava nel gruppo. Quando ci siamo formati, nel ’91, io ascoltavo soprattutto heavy metal e un po’ di punk, Massimo era proprio punk, Marco un fricchettone che passava dai Popol Vuh agli Einstürzende Neubauten. La potenza della parola unita al beat l’abbiamo scoperta in quel periodo, ed è lì che è emerso il nostro crossover.
Era il periodo delle posse: Onda Rossa Posse, LHP, Isola Posse All Stars… Nel 1993 arrivaste voi con l’album Curre curre guagliò e sparigliaste le carte, la title track finì in Sud di Gabriele Salvatores e divenne la colonna sonora di un’epoca, oltre che di quel film. Che cosa ricordi di quella fase?
Ricordo un mondo molto variegato, da questo punto di vista non era così diverso dalla trap e dal rap di oggi, c’era di tutto: c’erano quelli che la storia che raccontavano se la vivevano davvero, quelli che lo facevano per soldi, quelli dell’underground, quelli più politicizzati, quelli meno. La differenza rispetto a ora, forse, era la ricerca di un ingrediente comune: la rivalità non mancava, ma c’erano tanta curiosità e molta apertura mentale, mentre a volte oggi mi sembra si stia tornando un po’ al settorialismo degli anni ’80, quando i punk stavano con i punk, i metallari coi metallari, i dark con i dark. Ma sono fasi, non mi preoccupa la musica di adesso, mi preoccupano la politica e la società civile.
Negli anni ’90, però, tu diventasti l’icona di un certo tipo di musica militante e politicamente schierata.
Eh, ma quella è un’immagine che ho combattuto.
Hai detto: «Siamo nati come il volantino del centro sociale Officina 99 di Napoli, veicolandone il messaggio tra i movimenti e nel quartiere».
Vero, ma è anche vero che nella militanza sono sempre stato una pecora nera, una scheggia impazzita: ero sempre quello che ovunque arrivava metteva in discussione l’autorità. Ho fatto parte di Democrazia Proletaria, dell’Autonomia Operaia, del collettivo dell’Officina 99, appunto, ma resta che io dietro alla schiena c’ho tatuato “cane sciolto” e il motivo è che ho sempre avuto bisogno di rompere gli schemi, ho sempre cercato la provocazione. Per cui essere diventato nell’immaginario di qualcuno una specie di Che Guevara mi ha infastidito. In me un po’ del Che c’è, a tratti posso essere un comunista ortodosso, a tratti un comunista libertario, ma non solo, ho varie sfaccettature. Per questo il mio primo disco solista, che è stato il frutto di una lunga autoanalisi, l’avevo intitolato Suono questo e suono quello. E ora che ho accettato chi sono, quante cose sono, riesco a farci della sana ironia, per lungo tempo avevo perso questa capacità.
Oggi anche a sinistra i centri sociali sono visti con sospetto, contro le istanze degli spazi occupati s’invoca la legalità: che effetto ti fa?
C’è stato un momento in cui si è iniziato a confondere la giustizia con la legalità. Ed è innegabile che giustizia e legalità sono due cose che dovrebbero coincidere, però purtroppo non sempre è così. Tante cose che oggi sono giuste, come per esempio il fatto che sugli autobus negli Stati Uniti possono sedersi tutti a prescindere dal colore della pelle, si sono conquistate anche attraverso atti di disobbedienza a una legge. Perché è così, a volte è necessario forzare la legalità per ottenere una giustizia autentica. I centri sociali sono realtà che nascono in spazi abbandonati dalle istituzioni, spazi non solo occupati, ma anche ristrutturati e aperti al pubblico per attività culturali e socialmente utili offerte a prezzi bassi, se non simbolici. So benissimo che occupare è una pratica che infrange non so quante leggi dello Stato, ma è una pratica che io difendo e difenderò sempre, e che nasce da carenze dello Stato stesso.
Vuoi spiegare cosa intendi?
Ricordo quando a fine anni ’80 gli occupanti del primo centro sociale occupato di Napoli, il Tien’a Ment, si presentarono al consiglio comunale dove si doveva discutere del loro sgombero con quattro sacchi di immondizia zeppi di siringhe che avevano raccolto là dentro, per far capire che quello era un posto dove gli eroinomani andavano a bucarsi, che nessuno se ne era mai interessato e che loro lo stavano restituendo al quartiere. Insomma, parliamo di spazi recuperati, oltre che di luoghi che hanno sempre rappresentato una nicchia, e nelle nicchie, si sa, emergono sempre linguaggi liberi, innovativi: senza il fenomeno dei centri sociali così come lo abbiamo conosciuto negli anni ’90, le case discografiche non avrebbero avuto il cosiddetto indie e non sarebbero esistiti i club alternativi. Poi che il nostro modello di sviluppo abbia capito unicamente che dietro a quel mondo c’era un business possibile è un altro discorso, rimane il fatto che quel mondo lo hanno creato altri e continua a produrre tuttora.
Nel frattempo il contesto politico è decisamente cambiato…
Sia a destra, sia a sinistra si è deciso di puntare sul bisogno istintivo di sicurezza delle persone e di soddisfarlo vendendo più legalità: tanta polizia, più controllo! Poi trovi qualcuno che dice meno immigrazione e qualcun altro no, ma solo su questo si dividono, e solamente ogni tanto. Dopodiché arriva Draghi e nel governo che chiamano “dei migliori” piazza tutti i responsabili dei disastri che si sono susseguiti fino ad oggi, gente che ha già governato, la stessa che incrociando tutti con tutti ha portato il Paese fino a questo punto. Se non fosse drammatico farebbe sbellicare dalle risate, che è quello che cerchiamo di esprimere col nuovo singolo e con il video della canzone, in cui si vedono anche mio figlio Raul, che ha 8 anni, e i figli di Massimo.
Non sei disilluso?
La disillusione c’è, ma non mi fa fare nemmeno un passo indietro né rispetto alle mie valutazioni, né nella pratica. Anzi, m’incaponisco sempre di più, sto anche lavorando a una nuova versione di Vio-lenti, progetto che sono riuscito a presentare nel 2020, salvo poi essere bloccato dalle chiusure: sarà uno spettacolo teatrale basato su una lettura molto fisica dei testi che ho scritto in questi 30 anni e con me sul palco ci saranno un violinista, un’attrice, e con noi una scenografia.
Stavo pensando alle parole di Rigurgito antifascista: con il politicamente corretto come la mettiamo?
Per me ciò che ho scritto e che scrivo è in tutto e per tutto politicamente corretto. Ma a noi tanto ci hanno sempre criticati, ci sono state persino delle interrogazioni parlamentari sui nostri pezzi. Una su S’addà appiccià, brano che oggi, in effetti, non credo uscirebbe. Ma a parte che erano davvero altri tempi, per me è evidente che quella canzone fosse tutta una metafora e che non ci fosse alcuna volontà di incitare alla violenza, chi mi conosce lo sa.
Nel 2011 proprio a Rolling Stone raccontasti di essere uscito da una dipendenza da crack che ti ha quasi ucciso: ora che hai 50 anni come giudichi quel periodo?
Come una cazzata, perché questo è stato, una cazzata che però ha contribuito a farmi diventare quello che sono in maniera forte, e mi riferisco al percorso che ho dovuto fare per uscirne. Perché oggi sono contento di quello che sono e in verità non ci penso proprio più a quel periodo là, ho trovato un modo più proficuo per combattere le mie ansie. Ai tempi, parliamo di più di 15 anni fa ormai, c’è stato un momento in cui mi sentivo stanco: non ci sono cascato, nella dipendenza, usavo la droga per spegnere il cervello perché volevo spegnerlo. E in più mi piaceva che la gente commiserasse ‘O Zulù, pazienza se allo stesso tempo commiseravano anche me, non m’importava.
Era il personaggio pubblico il problema?
Sicuramente c’era un grosso conflitto tra ciò che gli altri vedevano in me e ciò che io sentivo di essere. Dopo anni di autoanalisi – all’inizio mi sono rivolto a uno psichiatra amico, ma una volta acquisiti alcuni strumenti ho continuato con l’autogestione – ho capito che quella fase per me drammatica è stata un grande vaffanculo prima di tutto a me stesso.
La pandemia come la stai vivendo?
Da tanti anni sto in Irpinia, in provincia di Avellino, in montagna, quindi, sai, l’isolamento l’avevo cercato già prima. Dopo aver vissuto per quasi 40 anni a Napoli e poi a Milano mi sono trovato un posto tranquillo e ho cambiato stile di vita. Mi manca tantissimo il palco e ovviamente c’è una sofferenza economica che vedo anche in giro, ma io continuo ad andare dritto, non come se il virus non ci fosse, ma come se questo mondo non fosse invincibile. Il fatto stesso che noi quest’anno festeggiamo 30 anni di attività controvento, contromano, contro tutti, e siamo ancora qui significa qualcosa: non siamo riusciti a cambiare il mondo, ma abbiamo dimostrato che si possono sempre e comunque creare dei percorsi di quello che noi chiamiamo contropotere, percorsi di liberazione, ed è su quei sentieri di liberazione che piantiamo i nostri semi, che facciamo crescere i nostri alberi. È così che sappiamo vivere, non ci lasciamo piegare da una maggioranza che ci è ostile.